1799-Invasione
La Capitale era divisa in sei circoscrizioni, rette da Eletti/Magistrati, che costituivano la “Città”: cinque aristocratiche comprendevano gran parte della nobiltà; uno popolare comprendeva la borghesia napoletana ed aveva diritto di rappresentare tutti i Comuni del Reame.
La “Città”, quindi, costituiva un vero Parlamento.
Secondo un vecchio privilegio elargito da Federico II e confermato poi da vari sovrani, compresi quelli di Spagna, vacando il trono, spettava agli Eletti, alla “Città”, il governo dell’intero Reame.
Vantavano, quindi diritti molto temibili per il tentennante Vicario del Re, il Principe Francesco Pignatelli.
I Francesi erano ormai alle porte della Capitale e bisognava:
- intavolare trattative per raggiungere una pace che avrebbe potuto comportare gravissimi oneri:
- arginare l’anarchia popolare;
- fare ogni sforzo per risparmiare alla città il danno economico d’una occupazione militare;
- allontanare il pericolo dell’ultima sventura: una repubblica giacobina.
Il 24/12/1798 alla seduta degli Eletti furono ammessi altri 16 deputati borghesi.
Gli Eletti, facendosi patroni ed interpreti della volontà popolare, poichè i Lazzari chiedevano le armi e i castelli, proposero di costituire una milizia cittadina.
Si recarono dal vicario del Re, il Principe Francesco Pignatelli, per rammentargli i privilegi della “Città”, e chiedergli di rimettere nelle loro mani il compito della difesa e dell’ordine pubblico, e di concedere le armi necessarie alla costituzione di una milizia civica di 14.400 uomini.
In realtà lo scopo era quello di affrettare la conclusione della pace e di salvarsi (gli eletti) dal peggio e dall’anarchia.
La costituzione di una repubblica aristocratica era solo una minaccia priva di fondamento.
Il 12/1/1799 si ottenne l’armistizio che prevedeva:
- l’evacuazione di Capua;
- l’abbandono del territorio fino alla linea che corre tra l’Ofanto e il torrente dei Lagni;
- il pagamento di due milioni e mezzo di ducati;
- la chiusura dei porti ai navigli della coalizione.
Il generale Mack evacua, quindi, Capua per ritirarsi su Napoli.
Il popolo è certo del tradimento dei ministri e degli ufficiali dell’esercito.
Comincia, così, a diffondersi l’adagio “Chi tene pane e vino ha da essere giacubbino”.
Iniziano a farsi sentire gli effetti dell’armistizio. Molti molini, che traevano forza motrice dal torrente dei Lagni, le cui rive erano occupate dal nemico, avevano interrotto la macinazione, per cui si risentiva penuria di farina.
Sorge lo spettro della fame, mentre nobili e borghesi si abbandonano ad una certa spensieratezza. E questo esalta il furore dei Lazzari.
Il 15/1/1799, all’alba, i Lazzari si gettano contro le porte di Castel Nuovo.
Dopo un breve combattimento si impadroniscono della porta principale.
Una volta entrati non fanno danni alle persone. Inalberano la bandiera Reale, cacciano il presidio, si armano fino ai denti, pongono sentinelle sui cammini di ronda e si preparano all’estrema difesa.
La stessa scena avviene nel medesimo tempo in Castel Sant’Elmo, nel forte del Carmine e in quello dell’Ovo.
Durò tutta la giornata la processione dei Lazzari che si recavano a provvedersi di un fucile, d’una baionetta e di munizioni.
Già si trascinavano in piazza i cannoni che i Lazzari non sapevano adoperare.
Furono spalancate le porte delle carceri, liberando circa 6.000 prigionieri, tra i quali gli imputati per reati politici erano una piccola minoranza.
Il convincimento popolare era che il re fosse stato tradito dagli stranieri e dai signori, dei quali una parte s’era venduta ai francesi, e l’altra anelava di stipulare una pace che salvasse le loro ricchezze e desse la plebe nelle mani del vincitore.
Quindi il popolo non poteva considerare colpevoli coloro che avevano derubato i ricchi, traditori del re e del popolo.
E se una torma di plebei invadeva la casa di qualche benestante, il saccheggio aveva sapore di rappresaglia.
Ciò non diminuisce la forza morale che solleva i Lazzari, visto che, a quel tempo, gli eserciti delle nazioni più civili punivano, appunto, col saccheggio la resistenza delle città nemiche.
Il popolo aveva ormai acquistato il diritto di considerare colpevoli della catastrofe tutte le classi abbienti.
I Lazzari non insorgevano dopo una carestia; il loro movimento, spontaneo, era la difesa disperata della loro terra, degli usi, dei costumi, delle credenze, della religione. Di tutto ciò che, in ogni paese, forma la concretezza dell’animo popolare ed è la patria stessa.
Molti si recarono a presidiare l’altura di Capodichino, dove, per tradizione, si sapeva che gli eserciti invasori calavano sulla città.
Da questo accampamento era partita una colonna verso Casoria, in cerca del generale Mack, considerato codardo e traditore, per togliergli il comando e farne giustizia.
Ma questi, avvertito, depose il comando e chiese asilo al nemico, ottenendo anche un passaporto.
Il Mack passò innanzi a Gaeta il giorno stesso che la fortezza cadeva nelle mani francesi.
16/1/1799
Il vicario, che fino a quel momento non aveva mai voluto fornire di armi (pur avendone la possibilità) la milizia, munitosi di una buona somma di ducati scappò.
Lo stato insurrezionale della città non consentiva il versamento della somma pattuita con i francesi.
Rotto così l’armistizio, il generale Championnet avanzava lentamente su Napoli.
Gli Eletti, per salvare loro stessi e calmare l’insurrezione popolare, spedirono al generale francese una deputazione, la quale promise il pronto rispetto dei patti dell’armistizio, a condizione che si sospendesse la marcia sulla capitale.
Championnet, dubitando degli Eletti, rifiutò di trattare. E poichè si cominciava a fare distinzione tra re e nazione, assicurando che questa non aveva mai inteso muovere guerra ai francesi, il generale francese li esortò a “democratizzarsi”, nel qual caso egli sarebbe entrato in città da amico e alleato.
Conosciute queste trattative, i tumulti si moltiplicarono. I Lazzari accusarono di tradimento i magistrati cittadini e i gentiluomini che avevano elevato al comando.
I francesi erano a poche ore di marcia e bisognava prepararsi a combattere alle barriere.
I cannoni, dai Castelli, furono trascinati a braccia sull’altura di Capodichino, sulla via di Poggioreale e al ponte della Maddalena.
Non ci si dette pensiero che la capitale era assolutamente priva di mura e fortificazioni.
Si confidava sulle proprie braccia e sull’aiuto di San Gennaro, in nome del quale si combatteva e che formava il simbolo della concreta patria che si difendeva.
I tumulti si aggravavano di più, tanto che, oltre ai pavidi proprietari e ai giacobini, anche i legittimisti e coloro che più avevano temuta l’occupazione francese, spedivano messi allo Championnet perchè affrettasse la marcia.
Non vi era alcuno che avesse il coraggio di mettersi lealmente a capo della plebe e tentar la sorte in un’ultima giornata. Nessuno volle intendere che l’anarchia sarebbe divenuta ordine composto ed eroico, solo che un uomo fosse riuscito a riscuotere la fiducia della plebe.
Nelle ultime ore, sulle alte classi sociali, presero il sopravvento i giacobini, gli unici che potessero moralmente giustificare il desiderio dell’occupazione francese.
Francesi e giacobini sapevano che il Castel Sant’Elmo era la chiave della situazione.
All’interno del castello vi erano, infatti, 40.000 armati che avrebbero opposto ai francesi un muro di ferro e fuoco veramente infrangibile.
Nella notte del 18/1/1799 i giacobini tentarono, senza riuscirvi, di impadronirsi del castello.
Il 20/1/1799 l’arcivescovo fece portare in processione la statua di San Gennaro. Questo per persuadere la plebe del favore del clero.
Anche l’aristocrazia e la borghesia partecipò alla processione, anche queste per portare il popolo dalla loro parte. Ma il loro scopo era quello di far cessare il popolo di dare la caccia ai ricchi traditori e dare quindi il tempo al nemico di prevenire la sua resistenza.
Il 21/1/1799 i giacobini, tra cui alcuni che avevano partecipato alla processione, riuscirono con uno stratagemma ad impadronirsi del Castel Sant’Elmo.
Il grosso dei giacobini vi si asserragliò e lo Championnet, sicuro ormai del fatto suo, muoveva i battaglioni sulla capitale.
La città fu investita dalla parte orientale.
I francesi si fecero largo dopo aver raso al suolo Pomigliano d’Arco.
A Capodimonte, a Capodichino, al Ponte della Maddalena, i battaglioni francesi urtarono contro un’ostinata resistenza.
I Lazzari, tra i quali era impossibile contare il numero dei caduti, opponevano alle baionette e ai cannoni delle vere muraglie umane.
Nella prima giornata i francesi concentrarono l’assalto sul punto di maggiore resistenza (la Porta Capuana), tentando di occupare fin da subito i quartieri più popolari.
Combattevano lì 2.000 Lazzari comandati da Michele il Pazzo, ma anche qualche centinaio di svizzeri delle guardie reali.
La brigata Monnier era riuscita con una furiosa carica a sloggiare i Lazzari da Poggioreale e li aveva inseguiti fino alla porta.
Respinta una prima volta, Monnier ritentò la carica. Travolti nel primo impeto i Lazzari, i francesi passarono la porta e giunsero nella piazza, ove, furono accerchiati da un furioso fuoco di fucileria proveniente dalle case circostanti.
Abbandonati i loro morti sul selciato, dovettero battere in ritirata, mentre Svizzeri e Lazzari, trascinati in piazza 12 cannoni, fulminavano d’infilata la via per la quale il nemico fuggiva.
Il maggiore Thièbault, riuscì, per fortuna del nemico, ad arrestare una colonna di 3.000 Lazzari, evitando una disastrosa rotta.
I francesi riorganizzarono una colonna d’assalto. Simulando la fuga si fecero inseguire dai Lazzari, che questa volta furono sorpresi di fianco dai granatieri di riserva, che ne fecero orrendo massacro.
Tuttavia la porta e la piazza non furono espugnate prima che l’incendio non avesse distrutte le case della plebe.
Lo spirito combattivo dei Lazzari non era, comunque, minimamente fiaccato.
I popolani si lasciavano massacrare combattendo con disperazione cieca.
I Lazzari, sebbene sloggiati dalle primitive posizioni, conservavano una forte linea difensiva.
Intanto i giacobini, rinchiusi nel Castel Sant’Elmo, vedendo volgere piuttosto incerte le sorti della giornata, indirizzarono una lettera agli Eletti nella quale minacciavano il bombardamento della città, se i magistrati non avessero disarmato il popolo insorto.
I magistrati erano, inoltre, chiamati responsabili delle conseguenze e delle rappresaglie.
Gli Eletti risposero che non erano in grado di fermare 40.000 armati sbandati i quali erano riusciti a far “rinculare” il nemico al quale avevano tolto buona parte dell’artiglieria, affrontandolo a “petto nudo e scoperto”.
Ma la loro preoccupazione era che in caso di vittoria dei Lazzari, questi avrebbero sfogato su di essi il loro sdegno. Quindi speravano che i Lazzari riuscissero a respingere il nemico e quindi poter trattare una pace vantaggiosa.
I giacobini, quindi, si accingevano a porre in atto la minaccia di bombardare la città.
La sera del 21/1/1799 spedirono alcuni messi ai francesi, esortandoli ad attaccare il giorno dopo i Lazzari ai Ponti Rossi, in modo che il forte avrebbe colpito i difensori alle spalle.
Il 22/1/1799 il generale Championnet inviò un parlamentare ai bivacchi dei Lazzari, per offrire la pace.
Ma la plebe, che fino a quel momento era stata tradita da tutti, non conoscendo il “diritto delle genti”, massacrò l’ufficiale francese.
La battaglia si riaccese a Capodimonte e al Ponte della Maddalena.
I Lazzari furono praticamente accerchiati ed assaliti da tutte le parti.
S’era appena iniziata la battaglia, che Sant’Elmo cominciò a bombardarli.
Ai francesi fu necessario l’intervento, in aiuto, di una brigata. Due battaglioni di questa passarono dietro le colline di Capodimonte e del Vomero, senza incontrare resistenza e penetrando in Sant’Elmo, ove si piantava l’albero della libertà.
I Lazzari, pur combattendo intrepidamente, cedevano terreno.
Ma i Lazzari di Foria e di Chiaia respinsero francesi e giacobini malgrado le loro critiche condizioni.
Un distaccamento francese, proveniente da Capodichino, sorprese i difensori di Via Foria di fianco e li ricacciò facendo terribile strage. Quaranta Lazzari fatti prigionieri furono fucilati in massa.
La plebe dovette difendersi e barricarsi nel Largo delle Pigne. Avevano solo quattro cannoni.
Nel centro della città correvano pattuglie di Lazzari in servizio d’ordine pubblico. Dai conventi, monaci e preti scagliavano sui difensori vasi da fiori e ogni oggetto possibile. Da qualche casa borghese non si esitava a sparare qualche fucilata e qualche pistolettata sulla plebe.
Giacobini, o creduti tali, erano assaliti nelle case, trucidati, gettati i loro cadaveri sui fuochi di bivacco.
Durante il 21 e 22/1/1799 i Lazzari ordinarono che tutti i portoni e tutti gli usci rimanessero spalancati. Ogni luogo di rifugio doveva essere pronto a ricoverare i passanti bersagliati dal bombardamento di Sant’Elmo.
Dopo sette ore di resistenza i Lazzari abbandonarono il Largo delle Pigne.
La resistenza si concentrava nel quartiere di Mercato. Tenevano ancora buona parte di Via Toledo, il Palazzo Reale, il Castello del Carmine, il Castel Nuovo e il Castello dell’Ovo.
All’alba del terzo giorno Championnet dette ordine che la lotta procedesse senza quartiere.
I francesi discesero per Via San Carlo alle Mortelle e per Via Santa Lucia a Monte, per piombare sul fianco dei Lazzari, in Via Toledo e in Piazza San Ferdinando.
Dopo un aspro combattimento si impadronirono del centro e sbucarono in Largo del Castello. Qui, dopo un prolungato tiro di artiglierie da Sant’Elmo, presero d’assalto Castel Nuovo.
Ora si poteva battere alle spalle i Lazzari che combattevano al forte del Carmine e che sostenevano altri francesi.
Questi ultimi, sebbene avessero ricevuto dei rinforzi, urtavano contro circa 8.000 Lazzari, che cedettero il terreno solo nelle ore pomeridiane, quando furono accerchiati. Tentarono di asserragliarsi nel forte del Carmine, ma il Castello fu preso d’assalto, prima che si potessero chiudere le porte. Molti difensori furono trucidati.
Championnet poteva ritenersi padrone della città.
Tuttavia, se i forti e i principali centri di resistenza organizzata avevano ceduto, il popolo era ancora in armi.
Ma una cannonata da Castel Sant’Elmo spazzò il Largo di Palazzo.
10.000 caduti
da “Lazzari e Santa Fede”, di Alberto Consiglio, 1936
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