Alta Terra di Lavoro

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L’assedio di Monte Sant’Angelo da parte di Ferdinando I d’Aragona…

Posted by on Nov 27, 2018

L’assedio di Monte Sant’Angelo da parte di Ferdinando I d’Aragona…

Siamo a metà del XV secolo e il Regno di Sicilia nel 1442 era stato tolto a Renato d’Angiò, legittimo successore di Giovanna II, da Alfonso V che riunificò i possedimenti normanno-svevi insediando la capitale del regno a Napoli e intitolandosi “Rex Utriusque Siciliae”, diventando così il primo Re del “Regno delle due Sicilie”.

Gli eventi che andiamo a narrare si svolgono durante la guerra Angioino-Aragonese (1460-1464), guerra in cui gli Angioini con l’aiuto dei baroni ribelli cercarono di togliere la corona del regno agli Aragonesi e di riprendersela, ristabilendo il loro possesso del regno di Sicilia e il 7 luglio 1460 quasi ci riusciranno, sconfiggendo Ferdinando nella battaglia di Sarno, che si salvò solo grazie all’arrivo di “genti d’arme” della Città della Cava (oggi Cava de Tirreni), capeggiati dai capitani Giosuè e Marino Longo. La battaglia quindi non segnò la fine per gli Aragonesi, anzi li spinse a cercare aiuto dal duca di Milano Francesco Sforza (che inviò un esercito capeggiato dal fratello Alessandro Sforza e dal nipote Roberto di San Severino), dal Papa Pio II e dal condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg.
Il 18 agosto 1462 Ferdinando I e Alessandro Sforza sconfissero definitivamente i loro avversari in Puglia, nella battaglia di Troia, battaglia che portò allo sgretolamento dell’esercito angioino e all’esilio di Giovanni d’Angiò sull’isola di Ischia. La mia indagine dunque si svolge in questo lasso di tempo, quando il Re Ferrante è in Puglia. Diversi sono gli scrittori che parlano di questa guerra e in tutti i libri,documenti o lettere è nominato Monte Sant’Angelo e il suo assedio, proprio perché la conquista di questa città da parte di Ferdinando I cambierà le sorti del Sud Italia. Analizzeremo la visione dei fatti descritta da Antonio Summonte nel suo “Dell’Historia della città,e regno di Napoli” che scrive nel 1675, il quale sicuramente aveva letto (e in gran parte copiato) il“De Bello Neapolitano” di Giovanni Gioviano Pontano, contemporaneo di Ferdinando I, suo consigliere dal 1462 che visse sulla sua pelle questi eventi. In queste pagine analizzeremo una traduzione del testo del Pontano fatta da M.G. Mauro nel 1590 “Historia della guerra di Napoli”, che nella traduzione dal Latino deciderà di saltare qualcosa, come quando si parla del Santuario, che nel testo latino ha qualche parte in più.
Anche un altro scrittore leggerà uno di questi libri e nel 1785 nel suo “Voyages Dans Les Deux Sicilies”, Henri Swinburne (il viaggio si svolse dal 1777 al 1780) scriverà “En 1460, Ferdinand I donna l’assaut à cette place, dont les habitans s’etoient joints à ses adversaires, & dépouilla l’église d’un incroyable quantitè de richesses, les unes appartenantes au Sanctuaire, les autres aux rebelles des villes voisines,  qui avoient deposè dans cet androit leurs biens & leurs joyaux, se reposant sur un asyle qu’ils croyoient inviolable. Le roi fit fondre lor & l’argent, & les fit frapper en couronnes, pièces de S. Angelo, qui, d’un cote, portèrent son image, & sur le revers, celle de S. Michele, avec cette Lègende Justa Tuenda.” .
Da questi scritti nasce un altro dibattito, ancora oggi attuale, quello sui Coronati dell’Angelo: monete fatte battere da  Ferdinando I e che secondo il Pontano e il Summonte, sono state coniate fondendo l’argento preso nel saccheggio del santuario dell’Arcangelo, soprattutto quello della statua dell’angelo, che era stata donata dal padre di Ferdinando I, Alfonso I,  che a sua volta aveva fuso una statua d’oro per battere anche lui moneta e finanziare la guerra. Anche Henri Swinburne parla di queste monete che nomina “Corone” di Sant’Angelo, anche secondo lui fatte coniare con quell’argento.
Anche se non è questo l’argomento che tratteremo è giusto scrivere qualche parola a riguardo. I primi Coronati furono coniati a partire dal 1459. Le prime di queste monete vennero battute per celebrare l’incoronazione a Barletta di Ferdinando I nel 1459, infatti la moneta reca da un lato la figura del Vescovo di Barletta e il legato pontificio (il cardinale Orsini), nell’atto di incoronare il sovrano e nella legenda troviamo “CORONATVS QVIA LEGITIME CERTAVIT” (Incoronato perché lottò giustamente) sull’altro lato troviamo una croce potenziata con la legenda in Latino “FERDINANDVS DEI GRATIA REX SICILIE IERVSALEM VNGARIAE” e alla base della croce la sigla del maestro di zecca. Successivamente nel 1488 (ben 27 anni dopo gli eventi che narriamo) ci fu una terza emissione di questa moneta, i cosiddetti Coronati dell’Angelo, chiamati così per via della figura dell’arcangelo su un lato della moneta. Molti autori che parlano di queste monete, sono certi della loro coniazione grazie all’argento che Ferdinando I prese in “prestito” dal santuario Micaelico, e tra questi vi è anche Giovanni Gioviano Pontano (1429-1503) che fu primo ministro di Ferrante e che nel sacco di Monte Sant’Angelo verrà nominato custode del bottino: “Ferdinando fece ammassare nella basilica il bottino e prepose all’inventario e alla custodia il giovane Pontano, che l’aveva seguito in guerra(Palumbo)”, nel 1464 lo troveremo di nuovo a fianco del Re nella battaglia di Troia proprio contro gli Angioini.  
Perché un primo ministro del Re, che sicuramente scriveva ogni cosa a favore del suo benefattore, doveva scrivere una cosa così turpe verso il suo Re, cioè quella di far fondere la statua di un santo così “famoso” e  “potente” come San Michele se essa non era cosa vera? Certo nel suo scritto troviamo delle scusanti a favore del Re, a cui non serve l’argento perché in difficoltà economica per via della guerra, ma solo per paura che potesse cadere in mano del suo nemico, Giovanni d’Angiò che viveva in Puglia in attesa di riprendersi il suo trono, e infine dice che fece un inventario di tutte le cose prese al santuario per poi poterle restituire, inventario che molto probabilmente fece proprio il Pontano. In futuro altri attingeranno dalla versione del Pontano che abbiamo già citato e si fideranno di questa e la riporteranno come vera. Purtroppo il santuario non era nuovo a questo tipo di spoliazioni, infatti Greci, Longobardi e Saraceni spesso considerarono il santuario come una cassaforte dove attingere ricchezze. Fra gli episodi più cupi per il santuario è da ricordare la spoliazione di Guglielmo il Malo nel 1160, la pesante imposizione di Federico II di consegnare i “vasi sacri” nel 1229, la presa della statua d’oro dell’Arcangelo(che la leggenda vuole creata con l’oro della fonte battesimale di Carlo III di Durazzo, che nella Celeste Basilica fu battezzato) da parte di Alfonso I nel 1442 per fare monete d’oro, dette “Alfonsine”. Successivamente nel 1528 le truppe di Francesco I saccheggeranno di nuovo il santuario e il 2 Marzo 1799 i soldati francesi del generale Duhesme saccheggiarono l’intera città e il solo santuario fruttò 24 muli(alcuni testi parlano di 9 muli) carichi d’oro, argento e preziosi. Anche in tempi recenti il santuario è stato spogliato dei suoi averi da uomini senza eserciti e senza scrupoli, quel poco che rimane dei tesori accumulati dalla basilica in tanti anni ora è esposto nel museo devozionale.
Dopo questa breve parentesi torniamo nel 1460, Ferdinando I è sceso in Puglia per “dare il guasto alle biade”, infatti la Puglia e soprattutto l’attuale provincia di Foggia è territorio del pretendente al trono Giovanni d’Angiò. Nel medioevo, per un esercito, le “biade” (il fieno) sono più importanti del grano stesso perché ogni cavallo ne aveva bisogno di circa 20 kg al giorno, inoltre i cavalli non portavano solo i cavalieri ma anche vettovaglie, artiglieria e tutto ciò che necessitava all’esercito. Bruciare le “biade” di un nemico era di vitale importanza per un esercito, e serviva ad immobilizzarlo; tagliare i rifornimenti al nemico era meglio di vincere una battaglia.  Ferdinando che aveva posto il suo accampamento sotto la città di Troia dopo aver bruciato le campagne circostanti fu costretto a muoversi, per via di diversi avvenimenti, tra cui la carestia,un inverno precoce e persino i furti da parte di ladri “scesi dai monti” ai danni del suo accampamento, anche se “dai monti” scenderanno anche tanti commercianti a vendergli i viveri necessari a sopravvivere. Il Re aveva con se 29 squadre “de bella gente darme” e 2000 fanti, inoltre aspettava da San Bartolomeo del Gaudio(l’attuale San Bartolomeo in Galdo in provincia di Benevento) Alfonso con altre 3 squadre e 400 fanti, il Conte di Gravina con 2 squadre e rinforzi da Barletta, Trani e dagli Albanesi. Da Troia Ferdinando portò il campo a Biccari e di lì si mosse a Volturino. L’11 luglio, tolto il campo da Volturino, si diresse sul Fortore, a sei miglia da Torremaggiore dove incontrò Carlo di Sangro, con il quale siglò un accordo e, il 13 luglio, partì per il Gargano. Si incamminarono via terra e si fermarono in un posto chiamato Lauro (una torre situata vicino il lago di Lesina, ancora esistente) per rifocillarsi, ma le sorgenti che trovarono erano salmastre e quindi non buone da bere. Ripartiti da Lesina, si fermarono sotto il castello di Ischitella, e ritenendo inutile combattere per prenderlo, visto che era ben difeso e non c’era dentro nulla di valore, Ferdinando e tutto il suo seguito si diressero verso Rodi (Rhodo sopra il mare), attraversando una campagna deserta, priva di alberi e lavoratori e sopratutto priva d’acqua. Finite le scorte d’acqua, per la troppa sete, i cavalli e gli altri animali, iniziarono a cadere ad ogni passo, e con loro anche i cavalieri. Arrivati al “Lito del mare”, sotto Rodi per fortuna videro sorgere da più fonti acque “chiarissime” che dissetarono e “rallegrarono”tutto l’esercito. Non conosciamo l’esatto cammino che fece Ferdinando con i suoi uomini, pero si può dedurre che per arrivare da Torremaggiore a Rodi la via più comoda per un esercito era quella costiera, quindi dopo aver costeggiato il lago di Lesina (sappiamo che si fermò a Torre Lauro) e continuato per l’istmo di Varano (l’aspra e arsa campagna) sia arrivato prima ad Ischitella e di li all’attuale Lido del Sole per finire alla fine sulle spiagge di Rodi. Ma quali sono queste sorgenti? A Rodi attualmente si conoscono diverse sorgenti ma quelle più citate nei documenti sono quelle di Santa Barbara a ovest del paese, quindi molto probabilmente le sorgenti d’acqua che salvarono Ferdinando e il suo esercito sono proprio queste.
Una volta dissetato l’esercito, si presentava ancora il problema della fame. La siccità e le guerre avevano fatto della Capitanata un deserto, quindi da Rodi Ferdinando mosse per Carpino, che trovò vuota, e vi si accampò sotto il suo castello dove i suoi uomini trovarono un po’ di cibo, mangiando l’uva delle vigne vicine. Carpino e i castelli vicini  appartenevano alla famiglia Della Marra, fedele al Re, che convinse gli abitanti a portare tutti i viveri necessari alle truppe e una volta ristorate presero Rodi e le altre città del nord Gargano, tranne Vieste che non capitolò.
Ora arriviamo a parlare di Monte Sant’Angelo. Essendo la capitanata e il Gargano territorio di guerra (il pretendente al trono Giovanni D’Angiò era asserragliato a Lucera) tutti i conventi e gli abitanti della zona avevano portato le loro ricchezze proprio a Monte Sant’Angelo, credendola inespugnabile per le sua mura e la posizione elevata e anche inviolabile per via dell’Arcangelo che la proteggeva. Ferdinando, venuto a conoscenza di ciò, mosse l’esercito, e dopo aver marciato per tutta la notte la mattina seguente si ritrovò sotto le mura di Monte Sant’Angelo, il “qual luogo dalla cima del monte, où’è posto, haue il mare dal nascimento dell’equinottiale,e da mezzogiorno la campagna di puglia, e i monti Viry, sopra a’ quali fu già dedicato a Venere un bellissimo tempio”. Di sicuro Ferdinando e il suo esercito arrivando da Carpino avranno percorso approssimativamente l’attuale SP 50, o la SP50bis che attualmente ha diversi tratti sterrati che percorrono il bosco Quarto, o comunque un percorso similare. Hanno percorso circa 40 km in una notte e sono arrivati a Monte Sant’Angelo sicuramente dalla parte della valle di Carbonara(sappiamo dalle lettere inviate da Roberto di Sanseverino a suo zio che pose l’accampamento nella “ridente valle di Carbonara”), arrivando sotto le mura o sotto la porta dello “Scotto” (Lo “scotto” era un privilegio del Capitolo dei Canonici della Basilica e veniva pagato da ogni compagnia che voleva entrare con le insegne in Basilica. La riscossione dello scotto è stata concessa la prima volta dalla Regina Giovanna nel 1362 e confermata varie volte successivamente).
Il 19 Luglio 1461, nonostante aveva a sua difesa circa 160 fanti “forastieri”, alcuni cavalli comandati da Lodovico Minutolo, una possente cinta muraria e la “protezione” di San Michele, Monte Sant’Angelo dopo tre ore di assedio capitolò.
Gli abitanti rimasero stupiti nel vedere Ferdinando con un così grande esercito perché avevano saputo dei problemi che aveva avuto e lo credevano senza cibo e acqua, quindi non si aspettavano che avrebbe intrapreso una strada così aspra e difficile. Ferdinando chiese di aprire le porte e di sottomettersi a lui, promettendo che se non si fossero arresi avrebbe “disonorato le spose e le fanciulle e appeso gli uomini ai merli delle mura” e alcuni si presentarono a lui supplicanti di avere salva la vita, con “le funi al collo” e gli offrirono la loro terra e i loro tesori. Gli abitanti, sperando nell’arrivo di Giovanni D’Angiò, rifiutarono di sottomettersi e quindi Ferdinando, dopo aver preparato l’esercito e tutte le armi per l’assedio, ordinò l’assalto. Purtroppo non abbiamo nessun ritrovamento archeologico ma tutte le fonti concordano sul fatto che fu una battaglia violentissima, che durò più di tre ore (alcuni dicono quattro) e in cui morirono tantissime persone sia dentro che fuori le mura. Gli abitanti di Monte Sant’Angelo e i soldati si difesero bene, per tutto il tempo dell’attacco, “gettando per terra le scale” ogni volta che venivano appoggiate alle mura, ma Ferdinando poteva contare sempre su più soldati da mandare in campo e quindi, alla fine, la città si arrese e sulle mura della città sventolarono le bandiere Aragonesi. Il primo ad entrare nelle sua mura fu il “Magnifico Signore Roberto”(di Sanseverino)e i suoi soldati che, entrando in città, uccisero i pochi uomini rimasti di guardia, perché la maggior parte si era rifugiata nel castello. Poi avanzò lo stesso Ferdinando con i suoi “sgherri”, marciando nel paese in “colonna serrata” con l’ordine di passar gli abitanti a fil di spada, un comando feroce che trovò feroci esecutori. Il Castello, nonostante non possedesse ancora gli attuali robusti torrioni di forma cilindrica costruiti successivamente proprio da Ferdinando I, resistette e solo dopo le trattative con il castellano Aloyse Minutolo(che li viveva con moglie e figli) si arrese.
Come abbiamo già detto in precedenza, tutti i paesi del Gargano avevano riposto in Monte Sant’Angelo le loro fortune, credendola inespugnabile. Manfredonia già nel 1460 (ben due anni prima degli eventi da noi narrati), avendo già sperimentato in passato il furore dei Francesi, che la saccheggiarono e bruciarono tutti i “documenti, Priuilegi & antiche scritture che hauea in cancelleria”, decise di assicurare tutte le sue cose di pregio portandole nel santuario di Monte Sant’Angelo. Infatti nel 1419 la città fu messa a ferro e fuoco dalle truppe di Giacomo di Borbone, dopo che la Regina Giovanna II gli aveva revocato ogni potere, egli fuggì a Manfredonia per potersi imbarcare con i suoi seguaci, cioè un numeroso contingente di ribelli e mercenari, e approfittando della generosità dei manfredoniani in preda alla fame e alla disperazione saccheggiò la città, incendiando il palazzo della Cancelleria, quello Episcopale e anche alcuni monasteri e conventi. Solo dopo tutto questo la Regina Giovanna, avvertita dell’accaduto, riuscì ad inviare delle truppe al comando di Landolfo Maramaldo che liberarono la città. Dopo questi eventi avvenuti appena 50 anni prima, e sapendo dell’arrivo in Puglia di Ferdinando I, gli abitanti di Manfredonia fedeli ai D’Angiò e quindi al Duca Giovanni, fecero il grande sbaglio di portare le loro fortune “al sicuro” sul monte, che all’epoca doveva sembrare ancora più inaccessibile di quanto lo è oggi, e non solo tutti i beni dei conventi e del Vescovo, ma anche quelli di tanti privati cittadini.
I soldati di Ferdinando, una volta entranti a Monte Sant’Angelo, non ebbero rispetto per nessuno, attaccarono, rubarono e incendiarono ogni luogo, sia sacro che profano e non fecero nemmeno nessuna differenza di sesso, “tormentando” uomini e donne per farsi consegnare ogni bene posseduto.Ora qui arriviamo nella parte più crudele del resoconto del Pontano, il quale parla male egli stesso degli uomini del suo Re, che depredano chiese, case e ammazzano persino donne e bambini, infatti dice che non contenti del saccheggio fatto, iniziarono a sfondare le porte dei monasteri e una volta dentro, dopo aver stuprato vergini e rapito i fanciulli, misero le mani “nelle più segrete parti delle donne” per controllare se avevano ancora qualcosa di valore nascosto (gemme o altre cose di gran pregio). Il Re non poté fermare il suo esercito, che dopo tante disavventure era bramoso di saccheggi, non gli restò altro da fare che recarsi di persona al santuario per pregare l’Arcangelo e cercare di trovare un modo per farsi perdonare per ciò che i suoi soldati avevano compiuto. Qui incontrò l’arcivescovo Perrotto, di Manfredonia, che gli fece capire dell’errore che stava commettendo perché  rubare “in quella veneranda Basilica, la quale è habitatione del Principe delle Celesti Milizie, che di continuo assiste avanti al cospetto di Dio” era sacrilego sia contro il Principe degli Angeli che contro il Pontefice Enea Silvio Piccolomini ovvero Pio II, che aveva sposato la causa Aragonese, e che successivamente invierà suo nipote Antonio Piccolomini con le sue armate(ben 4000 cavalli e 2500 fanti) in aiuto di Ferrante, aiuto che gli sarà fondamentale durante la battaglia di Troia per sconfiggere definitivamente l’Angioino. L’arcivescovo Perrotto non riuscì ad evitare i saccheggi, ma almeno riuscì a convincere Ferdinando di far fare ai suoi ministri(tra questi sicuramente il Pontano) un attento inventario di tutti gli ori, gli argenti e le cose preziose di proprietà del santuario, sia quelle già sottratte che quelle ancora da prendere, con la promessa che il peso dell’oro e dell’argento ottenuti (anche per fare monete) sarebbero stati, alla fine della guerra, restituiti al santuario.
Il Da Trezza nelle sue lettere al Duca scrive: “è stato un richo saccomano et factosi grandissimo guadagno: et ognuno generalmente ha guadagnato”. Roberto Sanseverino d’Aragona che per primo entrò nella città scriverà:“…..et lo sachegiamo et è stato assai bon sacomano et vale cosa perché tutti li soldati stavano malecontenti e sonno puro restaurati”.Le cose che rubarono al santuario e al paese furono così tante che non poterono nemmeno venderle sul posto, le lettere ci dicono:“…Grande guadagno hanno facto queste gente d’arme in sachegiare la dicta terra de Monte Sancto Angelo et non trovarse in loco dove dicta roba se potesse vendere, erano tanto moltiplicati li carriagi de questo campo, che era una meraviglia et pericolo ad vederli(ex fel.castr.reg.apud Aufidum fluvium 26 luglio)”. Un altra conferma di questo saccheggio si ha proprio dai rimproveri mossi da Papa Pio II a Ferdinando I per aver saccheggiato la basilica, anche perché come già detto, era suo alleato; quindi oltre ad avere conferma del sacco sappiamo che il Capitolo della Reale Basilica riuscì ad avvertire il Pontefice.
Giovanni Pontano descrive anche il santuario e ne tesse le lodi soffermandosi molto sulla storia del Santuario, invece Summonte che più tardi copierà quello scritto descrive in maniera sbrigativa il santuario e si sofferma di più sui Coronati (vedere sopra) e sugli Alfonsini e rimanda al libro “Historia Angelorum” di Colantonio Dentice per saperne di più su questo “famoso” Santuario. Ma torniamo al resoconto del primo ministro di Ferdinando I, che visse sulla sua pelle l’assedio di Monte Sant’Angelo. Come si è detto poco fa, Giovanni Pontano inizia a descrivere e lodare il santuario dell’arcangelo “Questo tempio è molto celebre e famoso per la grandezza dei miracoli e uì concorrono cosi dà lontane, come da uicine Regioni quasi del continuo inifinitissime genti” e quindi inizia a narrare tutto ciò che ha appreso da “antichi autori” sull’origine del santuario.  
“Quivi si vede una grotta posta naturalmente dentro un sasso vivo, nella quale si va al basso per un sentiero non molto largo. Avanti a questa discesa sono alcuni piccoli edifici nel medesimo sasso, ne quali stanno sospese molte tavolette, per cui si manifestano i miracoli e le grazie di Dio a diverse persone concedute mediante la intercessione di quel santo. Nel più profondo della grotta vi si ergono a guisa di altari alcuni oggetti: oue non si tosto alcono perviene , che sourapreso e compunto da diuotissimo horrore, si sente di subito alzar la mente alla conteplation delle cose celesti e divine. Ma la cagione perché questo luogo venisse dedicato al Prencipe degli Angioli Michele, i più antichi cosi affermano essere avvenuto. Sono di intorno a novecento anni e più, che un certo cittadino di Siponto detto Gargano, ricco oltre ogni altro di quel paese di bestiami, faceva pascolar l’armento delle sue vacche in questo monte, che poscia da lui fu detto Gargano. Et essendosigli smarrito un Toro, il quale egli più giorni haveva co suoi pastori cercato per quelle selve; finalmente travandolo che pasceva davanti l’entrata di quella spelunca, Gargano, come sdeganto di ciò, gli trasse con l’arco una saetta per ammazzarlo. Ma a pena ella tocco le spalle del Toro, che ritorcendosi adietro, percosse il feritore con la punta. La qual cosa riputata da pastori a portento, persuasero Gargano che douesse di subito girne a Lorenzo Vescovo di Siponto, huomo di buona e santa vita, per coferirgli ciò che gli era avenuto. Lorenzo stupito dal miracoloso accidente, dapoi lo hauer persuaso il popolo a digiunar tre giorni divotamente, e pregar Dio con molte orationi, celebrò messa. Ciò fatto, gli apparve nella seguente notte Michele, dicendogli queste parole. Per voler d’Iddio, e per opera mia Lorenzo è avenuto che il Toro habbia dimostro quel luogo, nel quale fabricandomi un Tempio dal mio nome, qui fra voi mortali intendo di habitare, e far cancellare tutti i peccati di coloro, che verranno a visitarlo. Lorenzo rendendo di ciò gratie a Dio, e manifestata la cosa al popolo, n’andò in processione nella spelunga con tutti: ivi cantata la messa solennemente a honore di quel Santo, fu il luogo sacratom e cominciò a concorrervi da tutte le parti gran moltitudine di gente con voti. Ma non molti giorni dopo arrivato a Siponto l’esercito de’Napoletani, il quale aveva rovinato Benevento, il popolo temendo, ricorse di subito alle horationi: e digiunando tre giorni, la notte apparve l’Angiolo in sonno a Lorenzo, avertendolo a far prendere le arme al popolo, e girne senz’altro la seguente matina ad assaltare il campo nimico; perchè egli sarebbe in suo aiuto. Il popolo dando fede alle parole di Lorenzo, s’uscì in campagna con l’arme, e percosse i nemici: sopra a’quali cadde di repente così horribile tempesta di tuoni e di folgori, che non solo distrusse a fatto i nemici, ma di loro non ve ne resto pur un vivo“.
La versione del Pontano è sicuramente presa dal “Liber de Apparitione Sancti Michaelis in monte Gargano” detto Apparitio, uno scritto anonimo del VIII secolo privo di elementi cronologici e che per secoli ha fatto credere che il nome Gargano derivi dal pastore che lanciò la freccia al toro, invece sappiamo che già secoli prima Orazio e altri scrittori Latini lo chiamavano con questo nome.
Possiamo solo immaginare cosa avvenne in quei giorni nella città di Monte Sant’Angelo, razziata e depredata da un esercito famelico, che ha riversato su una sola città tutti i mesi di carestia e povertà vissuti, ogni uomo d’arme avrà visto davanti a sé l’unica occasione per arricchirsi, rubare qualcosa così da poter comprare un pezzo di terra dopo la guerra o per sperperarli nel modo che riterrà più opportuno.
Dopo aver fatto l’inventario di tutti i beni del santuario Ferdinando decise di partire, portò nel suo campo tutti i tesori presi sia perché era a corto di denari sia per la paura che, lasciandoli là, li avrebbero presi i suoi nemici, fedeli a Giovanni d’Angiò e che li avrebbero usati per finanziare l’esercito nemico. Decise di partire il prima possibile anche per la paura dell’arrivo dei rinforzi, sicuramente richiesti dal castellano, che lo avrebbero chiuso dentro e facilmente vinto; quindi con l’esercito ricco e ben disposto ripartì lasciando Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele spoglio di ogni bene.  
Chissà come sarebbe andata la storia se Ferdinando non avesse preso questa città con i suoi tesori, forse tutta la storia del Regno delle Due Sicilie sarebbe cambiata, ma sappiamo che la storia non si fa con i se, quindi questo non lo sapremo mai.
Una volta andato via passò da Manfredonia, che era in mano ai suoi nemici, e si diresse a Siponto (quindi esisteva ancora qualcosa della vecchia Siponto), dove montò il campo e ripose tutto ciò che aveva depredato a Monte Sant’Angelo, ma non avendo fatto ben custodire il bestiame che aveva preso (ricordiamo che un esercito per sopravvivere aveva anche bisogno di bestiame, e quindi nel tesoro preso a Monte vi era sicuramente compreso anche vino, cibo e bestiame; nella lettera inviata da Roberto Sanseverino al duca di Milano si parla addirittura di 8 mila capi di bestiame) una notte dei ladri ne rubarono la maggior parte. Finisce qui la storia delle gesta sul Gargano di Ferdinando I d’Aragona; da qui poi si diresse a Barletta per combattere nuovamente, ma questa è un’altra storia.


Domenico Luciano Moretti

 
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a cura di Domenico Luciano Moretti

fonte

https://www.ilgiornaledimonte.it/cultura/4437-l-assedio-di-monte-sant-angelo-da-parte-di-ferdinando-i-d-aragona

 

 

 

 

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