Alta Terra di Lavoro

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CAPODICHINO: L’INIZIO DELLA DISCESA…DI ERMINIO DE BIASE (II)

Posted by on Nov 8, 2020

CAPODICHINO: L’INIZIO DELLA DISCESA…DI ERMINIO DE BIASE (II)

La vasta spianata che si estende sulla sommità della collina di Capodichino, proprio dove ora si protendono le piste dell’omonimo aeroporto, un tempo si chiamava Campo di Marte.[1] Spianata che, dal 1818 in poi per volere di Re Ferdinando I di Borbone, fu usata per esercitazioni militari da cui, appunto, derivò il nome (Marte era l’antico dio della guerra).

Su questo grande spiazzo, l’8 dicembre di ogni anno, festa dell’Immacolata Concezione, interveniva la famiglia reale con la corte al completo e un gran numero di cittadini di ogni ceto sociale, che vi accorrevano con tutti i mezzi di trasporto di allora: carri, carrozze, carrozzelle e… sciarabballi, tutti artisticamente e capricciosamente infiorati e imbandierati.[2] Pure l’8 dicembre 1856, Ferdinando II di Borbone, unitamente alla famiglia, si recò al Campo di Marte in forma solenne ed ufficiale. Dopo la messa, i reparti militari iniziarono a sfilare in parata davanti al Re. Giunto il 3° Battaglione Cacciatori all’altezza dov’era fermo il Re a cavallo, un soldato di quello stesso reparto, trovandosi a pochi passi dal Monarca, uscì improvvisamente con molta furia dalle righe e si lanciò verso di lui per colpirlo con la baionetta del suo fucile. Voleva colpirlo al cuore ma, fortunatamente, l’arma deviò producendo a Ferdinando II solo una ferita di striscio sul lato sinistro del petto. Per evitare che l’attentatore ripetesse il gesto, gli si lanciò addosso col suo cavallo un ufficiale degli ussari.[3] Il Re rimase calmissimo e impedì che si facesse giustizia sommaria dell’attentatore che fu consegnato alla Gendarmeria: tutto si svolse in maniera tanto fulminea che pochi si accorsero dell’accaduto. Il sangue freddo del Re evitò una probabile strage perché nel caso la scena dell’attentato fosse stata percepita dalle truppe svizzere, fedelissime alla Casa Borbonica, queste, sospettando un complotto militare, avrebbero aperto il fuoco sulle truppe napoletane che, ovviamente, avrebbero risposto all’attacco:[4] con ottomila soldati e con tanta popolazione presente, sarebbe stata una carneficina. Forse, però, era proprio questo che cercavano l’attentatore ed i suoi probabili mandanti. Il mancato regicida, un calabrese di origini albanesi di nome Agesilao Milano, condannato a morte, fu impiccato fuori Porta Capuana il 13 dicembre, appena cinque giorni dopo l’attentato. Tanta sollecitudine nell’eseguire la condanna a morte è, però, un po’ sospetta: lo stesso Ferdinando avrebbe voluto commutargli la pena, ma fu dissuaso dalle alte sfere militari, in particolar modo, dal generale Alessandro Nunziante e dal maggiore Enrico Pianelli (due personaggi che, nel 1860, diserteranno davanti Gaeta, tradendo il Re e la loro Patria…). Si temette che Agesilao Milano potesse parlare e lo si volle, con sollecitudine, morto ad ogni costo. I morti non possono denunziare i complici…[5]

            Con altrettanta sollecitudine, nel 1860, appena tre giorni dopo il suo ingresso a Napoli, Giuseppe Garibaldi, con Decreto Dittatoriale, concesse (ovviamente con denari non suoi, com’era nel suo stile) una pensione di ducati 20 al mese a Maddalena Russo, madre del Milano, vita durante a contare dal 1° settembre ed una dote di ducati 2000 (duemila) per ciascuna delle sorelle del detto Milano.[6]

            A memoria dello scampato pericolo il Re faceva costruire presso il Campo di Marte, al principio della via di Secondigliano, una chiesa in onore della Concezione ed una piccola cappella votiva nel posto dove il Milano gli aveva vibrato i colpi di baionetta.[7] Anche un asilo per invalidi venne aperto a Capodichino.[8] Molto probabilmente, non esistono più tracce né dell’edicola, né dell’ospizio, ma quella chiesa è, oggi, la parrocchia di Piazza Capodichino. Gli intendenti, con ripetute circolari, obbligarono i comuni a contribuire con offerte alle spese di costruzione di questa chiesa.[9] Come si legge in una annotazione all’interno dello stesso edificio religioso, la posa della prima pietra avvenne il 3 agosto dell’anno successivo alla presenza del fratello del re, il Conte d’Aquila. I lavori di costruzione durarono sei anni e venne inaugurato solo nel 1863. Nel tempio, al centro dell’altare maggiore troneggia la statua della Immacolata scolpita da Francesco Ventriglia; nella chiesa si può, inoltre, ammirare una statua settecentesca di San Michele, proveniente da una chiesa demolita per la sistemazione delle strade della zona di Capodichino, nel 1813,[10] in pieno decennio francese. È probabile che quella demolizione si debba collegare alla sistemazione della Doganella, la Via del Campo (l’aggettivo nuova sarà aggiunto solo a fine Ottocento, per distinguerla da Campo Vecchio, l’attuale corso Garibaldi) strada che fu inaugurata dall’allora re di Napoli, Gioacchino Murat il 27 febbraio 1812 (i platani e quei blocchi di color grigio scuro ai lati della strada, molti dei quali abbattuti, inclinati o, comunque, danneggiati, cioè i paracarri in piperno a forma di poliedro ottagonale con una semisfera sulla sommità[11] sono ancora quelli originali). Era una strada panoramica che dava subito, allo straniero che veniva a Napoli, una visione globale della capitale: San Martino, Vomero, mare, isole del golfo. Altra via d’accesso a Napoli, ma un po’ più secondaria, era l’attuale via Santa Maria del Pianto al termine della quale, voltando a destra, si imboccava un lungo rettilineo che portava fino a Porta Capuana.

Ferdinando II morì tre anni dopo quell’attentato, il 22 maggio 1859, a soli quarantanove anni: si disse per avvelenamento, per setticemia (allora non c’erano ancora gli antibiotici) ma, probabilmente, secondo un’altra ipotesi, morì perché egli soffriva ancora le conseguenze di una stoccata di baionetta che, anni prima, gli era stata inferta da un attentatore…[12]

L’anno successivo, 1860, Napoli fu invasa dai fratelli d’Italia, che, come fameliche locuste, la depredarono di tutto. Il Meridione perse tutti i suoi primati ed i problemi che allora nacquero: emigrazione, delinquenza, povertà, emarginazione, disoccupazione se li porta appresso ancora oggi. Da allora in poi ebbe inizio la decadenza di Napoli, il suo declino e, se è vero che tutto cominciò con quell’attentato (nomen est omen!) veramente Capodichino fu… l’inizio della discesa.

Il predetto Campo di Marte, dopo essere stato luogo di parate militari ed ancor molto prima ancora di abbracciare lunghe piste di atterraggi e di decolli, verso la fine del secolo XIX, fu anche ippodromo. In primavera vi si svolgevano le corse dei cavalli, quando ancora non si chiamavano concorsi ippici; manifestazioni che si ricordano più per la sontuosità mondana che per l’agonismo in sé. Sontuosità che in nessun’altra città d’Italia aveva raggiunto vette così alte di eleganza e di raffinatezza e che si esaurì nel primo lustro del Novecento, quando la coscienza sportiva si risvegliò anche a Napoli e si cominciarono ad azzardare scommesse ed a polemizzare coi bookmakers.[13]

Nei giorni 19, 21 e 24 aprile del 1892, furono assegnasti ben nove premi messi in palio per puledri e per cavalli di oltre tre anni. Il primo giorno, si corse, infatti, per i premi Esperia, Città di Napoli e Vesuvio; due giorni dopo, i vincitori si aggiudicarono, rispettivamente, i trofei Sebeto, Jockey Club, Principe di Ottajano e Principe di Napoli; l’ultimo giorno, infine, si corse per aggiudicarsi il Premio Capodimonte, Campo di Marte, Capodichino riservati agli over tre anni ed un trofeo esclusivamente Militare, riservato alle cavalcature appartenenti agli ufficiali del Regio Esercito Italiano. La cronaca racconta che, da un punto di vista meteorologico, la prima giornata di quell’evento fu una giornata infame, da ricordare soprattutto per degli effetti meravigliosi di sole, di acqua, di nebbia, di grandine, di verde, di folla multicolore, di equipaggi e di monture luccicanti, di ombrelli in fuga, di carabinieri e cavalleggeri, caracollanti, in drappello… come riportò Il Mattino del 20 aprile 1892.A causa di un vento freddo che tagliava la faccia ed una fittissima pioggia – prima pioggerella, poi a dirotto – le tribune erano quasi vuote e c’era poca gente intorno ai bookmakers perché tutti fuggivano cercando, invano, un riparo.

Anche nella seconda giornata, sulle prime pareva che Giove Pluvio volesse regalare ancora una volta acqua e grandine: poche e grosse gocce cadute e qualche nuvolo nero ad oriente, ma il sole questa volta arrivò primo per… tre lunghezze, saltando gloriosamente le siepi ed avvolgendo nei suoi tiepidi raggi il campo rigurgitante…[14]

Campo di Marte, l’antica Piazza d’Armi, iniziò ad essere… aeroporto intorno al 1910. In un primo momento, fu teatro delle prime esibizioni di velivoli pilotati da temerari militari amanti del volo. Poi, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale divenne un vero e proprio Aeroporto Militare come, oltretutto, dimostrato dal nome con cui fu intitolato dopo la fine del conflitto: Ugo Niutta, un pioniere dell’aria napoletano, medaglia d’oro al V. M., il cui aereo era stato abbattuto in combattimento.  Durante il periodo fascista ospitò la Reale Accademia Aeronautica: di quel maestoso, originario edificio oggi resta, però, solo una minima parte, in quanto fu quasi del tutto distrutto nel corso dei bombardamenti del 1943. Chissà per quali motivi, nel dopoguerra, la nuova sede dell’Accademia aeronautica fu trasferita a Pozzuoli. Se invece – a rigor di logica – fosse rimasta dov’era in origine, come giustamente fanno notare gli autori dell’esaurientissimo testo La collina di Capodichino, forse tale struttura avrebbe potuto contribuire ad una diversa qualità della vita in questa zona.[15]

Proprio a causa dell’aerostazione militare, durante la Seconda Guerra Mondiale, i bombardamenti alleati nella zona furono particolarmente intensi, quasi come allo scalo marittimo: Il 27 gennaio 1941 vennero sganciate sull’aeroporto di Capodichino tre tonnellate di bombe. Il 1° agosto ed il 9 novembre del 1941, gli ordigni britannici causarono fiamme al Manicomio provinciale dove, fortunatamente, non vi furono vittime ma soltanto scene di panico tra i ricoverati e molti scoppi tra gli edifici residenziali.[16]

Il 12 e 13 maggio 1943 delle bombe colpirono l’ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” provocando tremende scene di sgomento tra i poveri ricoverati e si registrarono vari scoppi negli edifici vicini al campo di aviazione. Il 30 dello stesso mese, metà degli aerei stazionanti all’aeroporto vennero distrutti o danneggiati.[17] Nel ’42, in un ricovero di Capodichino, a piazza Ottocalli, per l’eccessivo affollamento molte persone precipitarono per le scale e furono travolte, si ebbero quattro morti e nove feriti gravi.[18] Come ben si sa, però, il 1943 fu l’anno peggiore: il 5 aprile, alla salita Capodichino, una batteria contraerea tedesca fu presa in pieno ed esplose causando morti e feriti tra gli abitanti delle casupole circostanti;[19] il 13 maggio ed ancora una volta il 15 luglio, delle bombe caddero sui fabbricati dell’Ospedale Psichiatrico “Leonardo Bianchi”;[20] e sui rioni più popolosi, a San Giovanniello… a Capodichino…[21]

E, proprio come dopo averlo crocefisso, i carnefici di Gesù Cristo – quale estremo oltraggio – affissero sul suo patibolo la scritta JNRI, così, su una Napoli parimenti messa in croce, all’ingresso di Capodichino, fu posto dagli stessi “alleati” che così l’avevano ridotta, un cartello che ammoniva: “City of Thieves”, città di ladri.[22] Probabilmente, inglesi e americani intendevano indicare se stessi per quanto furono capaci di razziare a Napoli.

In Piazza Capodichino (oggi Di Vittorio, ripeto) s’innalzano otto obelischi (una coppia ad ogni imboccatura delle quattro strade che qui convergono) collocati ad inizio Ottocento dai Borbone dopo la parentesi napoleonica, che davano imponenza all’ingresso alla città. Sembra che, per far posto al viadotto che collega la circumvallazione esterna alle autostrade, pochi anni fa, qualche politico affetto da una particolare forma di dissociazione mentale, abbia addirittura proposto di demolire quegli obelischi insieme con l’antica dogana (l’edificio che una volta ospitava la scuola elementare Ludovico Ariosto) così come, molto tempo prima, era stato fatto per lo storico edificio situato proprio al centro della piazza, chiamato la rotonda a causa della sua forma circolare e che pure ospitava doganieri e militari.

Per la sua naturale posizione, tale piazza è la porta d’ingresso a Napoli. Attraverso di essa, infatti, si accede alla città provenendo dal suo hinterland nord-orientale: Casoria, Afragola, Cardito, Caivano e Caserta da un lato, Giugliano, Melito, Aversa, Sant’Antimo dall’altro. Questa via che collegava Napoli con Capua era l’antica strada per Capua restaurata da Carlo di Borbone. Essa si snodava attraverso una campagna fertile e ridente, con alberi da frutta, prati, terre coltivate con cura e villaggi ben popolati, l’ultimo dei quali è Capodichino.[23]

Se oggi il quadrivio, al cui centro c’è piazza Di Vittorio, è perennemente intasato da auto e da moto volte in ogni direzione, un tempo esso era attraversato da carretti, birocci e dai già citati e più capienti sciarabballi (dal francese char-à-bancs). I trasporti pubblici videro la luce nella seconda metà dell’Ottocento e, primo fra tutti, fu il tram a vapore (in seguito, elettrico) fino alla sua totale sostituzione, a partire dagli inizi degli anni sessanta, con il trasporto su gomma.

La prima società di trasporto pubblico ad attraversare la collina di Capodichino fu la belga Société anonime des tramways a vapeur de Naples (S.A.T.N.) subito dopo trasformatasi in Société anonime des tramways provinciaux (S.A.T.P.) la cui prima linea, la Capodichino-Afragola, fu inaugurata il 22 gennaio 1881; a questa seguì la Capodichino-Secondigliano (16 luglio 1882). In concomitanza dell’inizio del XX secolo fa il suo ingresso sulla scena l’energia elettrica che porta al raddoppio dei binari che, sulla Calata, furono sistemati sul lato destro nella direzione di chi sale.

A causa della sua pendenza, quella strada fu anche teatro di molti incidenti stradali dovuti a slittamenti. Il 26 luglio 1901, ad esempio, il tram elettrico proveniente da Aversa, nel giungere alla pericolosa svoltata presso il Manicomio Provinciale, dove la via è, per giunta, in declivio, a causa che il suolo era innaffiato di fresco, scivolò precipitosamente sul binario, avendo le ruote, come suol dirsi, preso il liscio sulle rotaie…[24]

E siamo, così, ai giorni nostri: nel 1956 l’originaria S.A.T.P. divenne T.P.N. (Tranvie Provinciali di Napoli) e, contemporaneamente, perse l’esclusiva dell’attraversamento di Capodichino nel collegamento di Napoli con la sua provincia. Negli anni 1956/58, quando ormai le rotaie avevano ceduto la supremazia ai trasporti su gomma, ci fu un contenzioso con l’A.T.A.N. l’azienda che gestiva il trasporto urbano, a proposito della linea 111 comune ad entrambe le società.

Un altro ‘storico’ trasporto che caratterizzò la Collina di Capodichino fu la Ferrovia Alifana, che, un tempo, collegava Napoli, partendo dalla Stazione di piazza Carlo III, a Piedimonte Matese, località all’estremo limite orientale della Provincia di Caserta, ai confini con l’Abruzzo. Era un trenino a scartamento ridotto, dalle tipiche carrozze bicolori: crema e rosso scuro. Fino a pochi mesi fa, due cavalcavia residui, uno in via Filippo Maria Briganti el’altro nella parte alta di Calata Capodichino, testimoniavano quell’antico tragitto. Quest’ultimo è stato recentemente demolito.

Nella vulgata partenopea, Capodichino è anche sinonimo di manicomio a causa della presenza, quasi in cima alla collina, del maestoso Ospedale Psichiatrico “Leonardo Bianchi”, rimasto in attività fino all’entrata in vigore della Legge 13 maggio 1978, n°180, meglio conosciuta come Legge Basaglia che, di fatto, abolì gli ospedali psichiatrici. L’ormai ex nosocomio occupa un’area di 220mila metri quadrati ricca di spazi verdi, in cui sono distribuiti 33 edifici. Pensata negli anni 1883-84 come manicomio modello a padiglioni staccati in cui riunire i vari istituti che ospitavano precariamente i malati di mente, la struttura fu voluta dal celebre neuropsichiatra Leonardo Bianchi (a cui fu poi intitolata) e costruita a spese della Provincia di Napoli. Iniziato nel 1897, l’ospedale cominciò la sua attività nel 1909, ospitando oltre mille folli, che salirono a 1.600 nel 1930. in questi anni, sotto la direzione di Michele Sciuti, essa consolidò la propria attività: contava una finitissima biblioteca scientifica, efficienti gabinetti di ricerche di chimica e anatomia; offriva assistenza psichiatrica ai minori e affiancava alle terapie mediche l’impiego dei malati, che lavoravano retribuiti in denaro e tabacco: in calzoleria, in tipografia e legatoria, in una fabbrica di mattonelle, nella falegnameria, in un’officina meccanica, nella sartoria e tessitoria, nella panetteria e nella colonia agricola. All’entrata in guerra dell’Italia, la zona dell’ospedale venne destinata alla coltivazione di patate e fagioli. L’ospedale fu bombardato nel 1943 e poi parzialmente occupato per tre anni dalle truppe angloamericane.[25]

Di fronte a questo nosocomio, però, al numero civico 209, fino ai primi anni Cinquanta, ne esisteva un altro: la casa di cura privata Villa Fleurent, una clinica per malattie nervose e mentali fondata nel 1831 dallo svizzero Pietro Fleurent. Con i suoi successori, gli Aveta, la struttura ebbe sempre una conduzione familiare, sia dal punto di vista amministrativo che sanitario, fino alla Seconda Guerra Mondiale quando, nel 1944, fu requisita dagli Alleati e, successivamente, occupata dai cosiddetti senzatetto. Poiché il Comune di Napoli aveva allacciato a questi ultimi luce e gas, fu attaccato legalmente per corresponsabilità nell’esproprio di fatto. In seguito ad un’annosa lite giudiziaria, si addivenne a un accordo ed il predetto Comune, Achille Lauro Sindaco, dopo qualche anno (1957/58) liquidò l’importo pattuito (cento milioni di lire). Nel frattempo, parte del suolo era già stato venduto allo I.A.C.P. e/o INA Casa, per la costruzione di alloggi residenziali popolari.

Su una parte del suolo occupato da Villa Fleurent, circa settantamila metri quadrati, spiccava la chiesetta della Madonna del Carmine a Capodichino, di architettura romana; essa era la ricostruzione fatta nel 1835 d’una omonima chiesuola che sorgeva più innanzi edificata nel 1816 col danaro di maestro Donato Marotta, che poi fu Carmelitano e di altri devoti napoletani e ci fu un piccolo convento di Frati del Carmelo,[26] detto Monastero del Carminiello.

Il complesso di quel manicomio privato, oltre che apprezzabile nella sua architettura, era molto funzionale e moderno. Alle normali strutture finalizzate alla degenza ed alla terapia, quali camerate, lavanderia, refettorio, ecc., si affiancavano, infatti, anche sale di lettura, viali fioriti, una chiesa, una palestra, una sala da bigliardo, un campo da tennis, una vaccheria e perfino un teatrino. Nel 1903, Villa Fleurent era una dei più avanzati stabilimenti psichiatrici d’Italia ed era meta di visita e di studio da parte di eminenti specialisti stranieri ed italiani;[27] non per altro, vi avevano operato e vi operavano illustri specialisti del settore, quali Onofrio Fragnito, Biagio Miraglia e lo stesso Leonardo Bianchi. Le immagini che accompagnano questo testo sono tratte da un opuscolo pubblicitario del 1937.


[1] Fu Gioacchino Murat ai primi dell’800, a trasformare la collina di Capodichino in un campo militare, il Campo di Marte, dopo aver tutto spianato, sradicato alberi e vigneti e demolito case.

[2] D. Capecelatro Gaudioso – L’attentato a Ferdinando II di Borbone – Napoli 1975 – p. 17

[3] Idem – p. 23

[4] Idem – p. 24

[5] Idem – p. 69

[6] A. Amante – di Ferdinando II Re della Due Sicilie – Torino 1925 – p. 44

[7] N. Nisco – Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860 – Napoli 1908 – p. 361

[8] A. Scotti – Napoli Borbonica – Napoli 1970 – p. 147

[9] R. De Cesare – La fine di un regno – Roma 1975 – vol. 1 – p. 188

[10] Per gentile concessione dell’attuale parroco della citata chiesa

[11] A. Caccavale – A. Esposito – op. cit. – Napoli 1999 – p. 25

[12] M. L. Wallersee – Die Heldin von Gaeta – Berlin 1936 – p.  16

[13] P. Tortora de Falco – Era Napoli – Napoli s. d. – pp. 155-156

[14] IL MATTINO del 22 aprile 1892

[15] A. Caccavale – A. Esposito – op. cit.– p.32

[16] M. Stefanile – I 100 bombardamenti di Napoli – I giorni delle AM Lire – Napoli 1968 –  p. 102

[17] Idem – p.48

[18] Idem – p. 77

[19] Idem – p. 95

[20] Idem – p. 102

[21] Idem – p. 114

[22] Idem – p. 205

[23] A. Cozzolino – A. Gamboni – Napoli: i tram per la Provincia – Napoli 2010 – pp. 7/8

[24] Idem – p.74

[25] Giuseppe Pesce – Napoli e i suoi casali – Napoli 2013 pp 39/40

[26] C. Celano – Notizie del bello dell’antico e el curioso della città di Napoli – Napoli 1970 – p. 1983

[27] U. Mendia – Manicomi privati a Napoli nell’800 – Napoli 1997 – p. 39

continua………….

II EDIZIONE

Erminio De Biase

L’AUTORE

Erminio de Biase (Napoli, 1948), ricercatore storico e germanista, ha al suo attivo le seguenti pubblicazioni:

  • L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie: vivi e lascia morire – Napoli 2002(Premio Speciale della giuria nella III edizione del Premio Internazionale “Giuseppe Sciacca”, l’Aquila 2004; Vincitore della III edizione del Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
  • Memorie di un ex Capo-Brigante di L. R. Zimmermann – Napoli 2007 (Premio Internazionale Giornalistico “I.N.A.R.S. Ciociaria”, Frosinone 2007; Premio Speciale della Giuria al Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
  • Capodichino, l’inizio della discesa… – Napoli 2012;
  • C’era una volta… il Vasto e Poggioreale – Napoli 2014;
  • La Valchiria di Gaeta di M. L. von Wallersee, Napoli 2015 (Premio Speciale della Giuria al Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
  • La guerra in classe: il Secondo Conflitto Mondiale vissuto nelle scuole di Napoli Napoli 2017

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