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Controrivoluzione e Brigantaggio di Denis Mach Smith

Posted by on Feb 14, 2021

Controrivoluzione e Brigantaggio di Denis Mach Smith

La prima seria minaccia alla stabilità del nuovo regno venne dal Sud. Nel 1861 l’ex re di Napoli Francesco, insieme con numerosi fratelli e zii, aveva cercato asilo a Roma, dove un osservatore presente nella basilica di San Pietro paragonò quella famiglia di fuggiaschi a un piccolo mucchio di foglie secche.

Da questo loro rifugio essi fecero un ultimo tentativo controrivoluzionario, fidando sull’appoggio aperto o clandestino sia dell’aristocrazia che dei contadini. Cavour aveva agito precipitosamente quando, nell’ottobre 1860, aveva mandato a Napoli l’incerto e sofferente Farini con l’incarico di eliminare garibaldini e borbonici. Garibaldi aveva sperato per un momento di poter restare in qualità di viceré nell’Italia meridionale, finché i tempi fossero maturi per marciare su Roma, ma Cavour aveva molte ragioni di carattere sia politico che personale per voler evitare una soluzione del genere. La sua prima preoccupazione fu quella di sottomettere Garibaldi e di fondere l’amministrazione del Nord e quella del Sud, superando, se necessario, qualsiasi opposizione da parte dei democratici radicali o dell’opinione pubblica locale. Sia lui che Farini erano consci del fatto che i governi d’Europa, come pure i potenziali apportatori di capitali e gli appaltatori di strade ferrate, aspettavano di vedere in qual modo l’Italia sarebbe riuscita a risolvere il suo primo problema veramente vitale. Cavour aveva quindi ordinato a Farini di impiegare l’esercito al primo segno d’irrequietudine e se necessario “sterminare” i garibaldini. Aveva deciso altresì di chiudere il comitato di napoletani che Garibaldi aveva insediato a Napoli per facilitare il processo di unione. Soltanto il governo militare era considerato adeguato per quella che Cavour chiamava la parte più debole e corrotta d’Italia, e da Torino vennero istruzioni di tenere strettamente a freno la stampa locale nonché il suggerimento che metodi militari un pò bruschi avrebbero potuto costituire una medicina salutare. Sul lungo termine, Napoli avrebbe tratto beneficio dall’efficienza dei suoi nuovi amministratori, ma la repressione poliziesca dopo il 1861 fu spesso severa e a volte messa sullo stesso piano di quella illiberale dei Borboni. Era naturale che dovesse formarsi un’opposizione locale. Per quanto Napoli, a dire il vero, avesse contribuito poco alla propria liberazione dai Borboni, si diffuse un allarmato stupore quando la città si vide semplicemente “annessa” come terra di conquista del Piemonte. Un comitato ampiamente rappresentativo di napoletani raccomandò che al Meridione fosse concessa una qualche autonomia locale; ma Farini introdusse con la maggior celerità possibile le leggi del Nord, in modo che il parlamento potesse essere messo di fronte al fatto compiuto. I politicanti settentrionali non ebbero che da ringraziare se stessi per l’impopolarità che ben presto si guadagnarono. Essi dovettero riconoscere che la maggior parte dei napoletani (e secondo Farini quasi tutti) non mostrò alcun entusiasmo per la nuova Italia. I corrispondenti dei giornali scrivevano come se un altro movimento d’indipendenza potesse scoppiare da un momento all’altro. Lacaita -che malgrado il suo titolo nobiliare inglese era un proprietario terriero delle Puglie- scriveva a Cavour nel dicembre 1860 che i fautori dell’annessione erano in netta minoranza; ch’egli non doveva lasciarsi ingannare dai risultati del recente plebiscito, i quali erano stati dovuti più che altro all’odio generale per la dinastia spergiura, all’avversione per il mazzinianesimo, e in alcune zone anche all’intimidazione; che il malgoverno di Farini, che aveva provocato la frattura del partito liberale, aveva accresciuto lo stato d’anarchia delle province e coperta di ridicolo e resa oggetto di disprezzo l’annessione. Un altro liberale napoletano, Fortunato, concluse che neppure la classe media meridionale desiderasse davvero l’unità nazionale e che il Risorgimento era stato dovuto meno ad un vivo sentimento popolare che a pochi intellettuali e ad una favorevole disposizione dello schieramento politico diplomatico europeo. Il sud si era originariamente ribellato ai Borboni a causa del loro malgoverno. Quando quegli stessi sintomi di malgoverno continuarono a perdurare dopo il 1861, molti cominciarono a chiedersi se ciò non fosse da attribuire ad elementi persistenti nel Mezzogiorno e nei suoi abitanti. Fu solo troppo tardi che tanti napoletani scoprirono di aver male interpretato i loro stessi desideri e che quello che effettivamente volevano non era un governo migliore, ma uno che governasse meno e imponesse meno tasse. Di qui l’acre commento che l’attuale incursione di settentrionali non era che una nuova invasione barbarica; di qui l’avversione per il Piemonte, che ricordava l’antipatia con cui molti tedeschi del Sud guardavano alla Prussia. Quando nel 1864 venne fatta luce su di un grave scandalo in materia di appalti per la costruzione di strade ferrate nel Sud, fu significativo che nessuno dei cinque deputati che dovettero dimettersi fosse un meridionale, mentre il conte Bastogi, la persona principalmente coinvolta nella faccenda, aveva fatto parte del ministero di Cavour; guadagnò così terreno la convinzione che il Nord si stesse disonestamente arricchendo a spese di questa regione indifesa. L’accusa era esagerata. Una critica ben più fondata era piuttosto che i ministri e consiglieri meridionali che Cavour aveva scelto, De Sanctis, Amari, Massari, Spaventa e Scialoja, erano rimasti tagliati fuori dalle loro province d’origine in lunghi anni d’esilio e avevano persino imparato a disprezzare i loro conterranei. Un altro fatto che contribuì ad aggravare la frattura fu la pubblicazione di una lettera priva di tatto scritta nell’agosto 1861 dall’ex presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio…… Il Sud stava in realtà diventando rapidamente un teatro di insubordinazione e anarchia. I fattori politici aggravarono ma non crearono quel fenomeno sociale ch’era il brigantaggio. Durante le guerre napoleoniche gli inglesi incoraggiarono, per scopi politici, i briganti napoletani contro i francesi, e più tardi i Borboni dovettero trattare con Fra Diavolo come con una potenza sovrana. Ora il re in esilio, Francesco, si servì del banditismo come arma di controrivoluzione politica e stimolò senza tregua la lotta di classe contro i ricchi. I briganti sfruttarono a loro volta Francesco, intascando il suo denaro e giovandosi dell’asilo politico loro offerto all’interno dei confini pontifici. Il papa, abbastanza comprensibilmente, considerava i piemontesi come i veri briganti, dato che si erano impossessati della maggior parte dei suoi domini. Monete false vennero coniate a Roma in nome di Francesco e vennero reclutati napoletani per il suo esercito legittimista tra i lavoratori stagionali che varcavano la frontiera per essere impiegati nell’Agro romano. Uno dei capi di maggior rilievo di questo esercito era lo spagnolo Borjès, che aveva combattuto dalla parte dei carlisti nella guerra civile spagnola, era stato reclutato all’estero da agenti dell’ex sovrano, nominato generale e autorizzato ad esigere contributi finanziari in qualsiasi città del regno meridionale. Per tre mesi egli percorse in lungo e in largo il Sud, incontrandosi con altre bande di briganti, ma dovette riconoscere che pochi di questi erano animati da vera lealtà nei confronti del loro ex re, e fu alla fine sbeffeggiato da briganti di professione come Crocco. Comunque, qualsiasi ribelle poteva contare su quei sentimenti anarcoidi che mettevano villaggio contro villaggio, campagna contro città, Chiesa contro Stato, contribuente contro esattore delle imposte. Un qualche aiuto popolare veniva inoltre dall’ultimo sprazzo di reazione feudale e separatista contro lo Stato nazionale, e il ricordo delle controrivoluzioni napoletane del 1799 e del 1849 distoglieva molta gente dall’abbracciare troppo rapidamente la causa patriottica. Il risultato che ne seguì può essere appropriatamente definito come una vera guerra civile, che contribuì a perpetuare la pericolosa impressione che l’Italia potesse sfasciarsi da un momento all’altro. Più che di una rivoluzione politica, si trattava di un prodotto della disoccupazione, dell’antica tradizione di rapina stimolata da uno stato di rivolta endemica delle plebi. Molti briganti avevano originariamente abbracciato la loro professione allo scopo di regolare i conti con qualche avversario locale ed erano quindi riparati sulle montagne per sfuggire alla giustizia. C’erano uomini come Carmine Donatello, galeotto e assassino, che per un certo periodo nel 1860 aveva prestato aiuto a Garibaldi, sperando nel perdono e in una ricompensa; c’erano preti apostati che celebravano messe clandestine nei boschi; c’erano contadini assetati di vendetta che trovavano il brigantaggio più vantaggioso che non faticare per una miseria sulla terra altrui. Per la maggior parte, si trattava di briganti stagionali, che si davano alla macchia nei mesi in cui l’agricoltura offriva scarse possibilità di lavoro. C’erano infine anche ex soldati borbonici rimasti disoccupati insieme con disertori e renitenti alla leva, evasi dalle carceri e avventurieri attratti semplicemente dal miraggio del bottino. Molti cittadini, pur non partecipando essi stessi al brigantaggio, consideravano i briganti come combattenti legittimi nell’eterna guerra contro i proprietari terrieri e contro un governo eccessivamente remoto, quasi straniero. Tra tutti gli eccessi e gli odi di questa vana lotta, c’era chi pensava che i ribelli combattessero per la Chiesa e la dinastia legittima. I piemontesi erano degli scomunicati; avevano arbitrariamente introdotto nel Sud la loro legislazione secolarista; perseguitavano infine il clero, il principale amico dei poveri. I patrioti affettavano un pio orrore per il fatto che la Chiesa incoraggiasse il brigantaggio, ma era ingenuo credere di poter spogliare il clero senza che quest’ultimo opponesse resistenza. Massari ha descritto i contadini del luogo come gente ai cui occhi ammirati il brigante diventava qualcosa di diverso, un essere fantastico, un simbolo delle loro aspirazioni frustrate, il vendicatore dei torti da loro subiti. Egli non era più l’assassino, il ladro, l’uomo del saccheggio e della rapina, ma piuttosto colui che aveva forza sufficiente per ottenere per sé e per gli altri quella giustizia che la legge non riusciva a dare. E chi gli offriva protezione diventava un eroe. Pur di soddisfare la sua sete di vendetta nei confronti della società, il contadino era pronto a dare cibo, informazioni e ospitalità a uomini di tal fatta. Quando comparivano i soldati, i malfattori nascondevano il fucile dietro una siepe, prendevano una zappa e si mettevano a lavorare con gli altri nei campi. Finché non fosse stato possibile istillare loro un senso di sicurezza e il timore della giustizia, le popolazioni contadine non avrebbero dato nessuna cooperazione al governo; fino a quel momento, la paura, il senso dell’onore e l’umana simpatia non glielo avrebbero consentito. La crudeltà di una guerra del genere non conosce limiti. Quando i piemontesi entrarono in territorio napoletano nell’ottobre 1860, una delle prime azioni del generale Cialdini fu di far fucilare sul posto ogni contadino che fosse trovato in possesso di armi; era una dichiarazione di guerra contro gente che aveva bisogno delle armi per difendere la proprietà e ottenne i risultati che erano da aspettarsi. I soldati fatti prigionieri erano a volte legati a un albero e arsi vivi; altri erano crocifissi e mutilati. I tempi non erano molto cambiati dai giorni del bandito Mammone, il quale amava bere da un teschio umano, e non mettersi mai a tavola se questa non fosse adorna di una testa recisa di fresco. La legge della giungla trionfava e i soldati erano spinti per rappresaglia ad analoghi eccessi. Non veniva dato quartiere, ma al terrore si rispondeva con il terrore. Degli uomini erano fucilati per semplici sospetti, intere famiglie punite per le azioni di uno dei loro membri, villaggi saccheggiati e incendiati per aver dato rifugio a dei banditi. Successivi viceré, da Farini in poi, dovettero assicurarsi il controllo della stessa città di Napoli prima di poter affrontare questa guerra sociale che infuriava nelle province. A Napoli essi tentarono tutte le politiche, alleandosi prima con la vecchia aristocrazia, poi con i radicali; cercando di distruggere la fraternità segreta conosciuta come “camorra”, per tentare poi di affidare a questa associazione nefasta vere e proprie funzioni di polizia. Dopo breve volgere di tempo, numerose petizioni davano a intendere che il principale risultato dell’annessione era stata la disintegrazione della società. Non era una situazione facile a fronteggiarsi, ma verso la metà del 1861 i fondi politici segreti che Garibaldi aveva soppresso vennero ripristinati e affidati ai prefetti, e verso il clero venne adottato un atteggiamento più conciliante. Il governo dovette persino aprire una sottoscrizione pubblica quale contributo alle spese per una politica più severa, mentre ricorreva pure al pericoloso espediente d’incoraggiare i proprietari terrieri ad assoldare per proprio conto piccoli eserciti privati a propria difesa. All’inizio del 1862, secondo documenti trovati indosso ad un avventuriero inglese (invero poco credibili), esisteva nelle province napoletane un’organizzazione che comprendeva oltre 80.000 ribelli. Contro costoro venne dichiarata una guerra ad oltranza che venne combattuta con grande dispendio di vite umane e grave scapito per la reputazione delle autorità. Nel gennaio 1863 una commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Massari partì da Genova per Napoli. La sua relazione, che fu letta al parlamento riunito in seduta segreta, rappresenta un documento prezioso sulle condizioni allora esistenti nel Sud. Fra le altre conclusioni di maggior interesse contenute nella relazione, vi era quella che il brigantaggio era più debole là dove i rapporti fra lavoratori e datori di lavoro erano soddisfacenti, per esempio nei pressi di Reggio Calabria, porto relativamente prospero, oppure là dove vigeva il sistema della mezzadria e i contadini non vivevano in condizioni di nomadismo ma erano legati invece alla terra da vincoli di interesse.

“Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletari di campagna è scarso; ma la’ dove si pratica la grande coltivazione sia nell’interesse del proprietario, sia in quello del fittaiuolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso… Grande coltura: nessuno colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita… La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all’ordine sociale… il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie… La sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciati nelle province napolitane. Questi mali sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia… L’amministrazione che non procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze antiche, nè rimosse dagli uffici le persone che quelle usanze praticavano, le leggi nuove o male eseguite o non eseguite affatto, il numero degl’impiegati accresciuto, e gli affari disbrigati ciò non ostante con maggiori ritardi: da tutte queste cose consegue una prostrazione di spiriti, un languore di cui i tristi si studiano continuamente di trar profitto”

La relazione era quanto mai esplicita nell’attestare che da Roma il governo pontificio aveva prestato aiuto ai briganti sia in denaro che in nuove reclute e che esso si era inoltre servito dell’episcopato meridionale per trasmettere loro istruzioni. La relazione Massari suggeriva che fossero immediatamente applicati dei rimedi a lunga scadenza, in quanto era indispensabile mostrare alle popolazioni locali gli inequivocabili vantaggi della libertà e convincerle che questa soltanto, in ultima analisi, avrebbe potuto procurar loro lavoro e benessere.

“La diffusione della istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, la equa composizione delle questioni demaniali, la costruzione di strade, le bonifiche di terre paludose, l’attivazione dei lavori pubblici, il miglioramento dei boschi, tutti quei provvedimenti insomma che dando impulso vigoroso ai miglioramenti sociali trasformino le condizioni economiche, e valgano ad innalzare le plebi a dignità di popolo… L’emancipazione della terra dai vincoli che la gravano è sorgente di benefizi alla proprietà ed all’agricoltura, e produce in pari tempo il salutare effetto di trasformare le condizioni del contadino e di distruggere quel proletariato selvaggio che sotto l’impulso della fame e della miseria non obbedisce ad altra voce se non a quella dell’avidità, e fornisce sì ampio contingente al brigantaggio. Nè meno evidente è la necessità di assestare il più celermente che sia possibile la questione dei terreni demaniali che in tante località pendono da moltissimi anni, e mantengono vive le controversie e le gare nei piccoli comuni”.

La proprietà ecclesiastica tenuta in manomorta doveva essere frazionata in modo da consentire ai banditi di trasformarsi in coltivatori diretti. La carriera nell’arma di polizia doveva aumentate in prestigio agli occhi del pubblico allo stesso modo che era stato osservato in Inghilterra. Le comunicazioni dovevano essere migliorate a fondo: anche la Scozia infatti, dopo la sua unione all’Inghilterra, era rimasta preda di una forma del tutto simile di brigantaggio, finché non erano state costruite nuove strade. Ma soprattutto, era necessario che il governo tutelasse la sicurezza pubblica e dimostrasse che non c’era né timore né speranza alcuna di una restaurazione borbonica: perché senza una tale convinzione la gente aveva troppa paura di rappresaglie per organizzare un’azione comune contro il banditismo. Una riforma carceraria era indispensabile non solo dal punto di vista igienico e morale, ma anche da quello della sicurezza, in quanto la facilità d’evasione costituiva una delle ragioni per cui era facile acquisire nuove reclute per il brigantaggio. I carcerieri ricevevano una paga estremamente misera e spesso non erano meno criminali dei loro prigionieri. I commissari di Massari riferirono di aver trovato a Napoli gente che era stata tenuta tre anni in prigione senza giudizio persino in casi in cui tale periodo di tempo era superiore al massimo della pena previsto per il reato loro imputato. Non solo era necessario che l’amministrazione fosse efficiente, ma giustizia doveva essere fatta e tutti dovevano essere in grado di constatare che giustizia era fatta, altrimenti l’opinione pubblica avrebbe continuato a considerare i loro nuovi governanti come un nemico anziché un amico. Queste erano misure a lunga scadenza e fino a quando non avessero avuto il loro effetto la legge marziale restava indispensabile; speciali fondi per pagare delazioni e bustarelle avrebbero dovuto essere stanziati e le consuete norme di guerra messe da parte. La severità a breve scadenza appariva ovviamente come cosa più urgente e più facilmente comprensibile nella lontana Torino. Il risultato di ciò fu l’approvazione della legge Pica, che fece della repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto. In base a tale legge il governo fu autorizzato ad applicare l’arresto domiciliare fino a un anno nei confronti dei vagabondi e delle persone prive di un’occupazione fissa, o di quanti fossero sospettati di appartenere alla camorra o di ospitare briganti. Nelle province dichiarate con decreto infestate da briganti, tutte le bande armate di più di tre persone costituite per fini criminali, così come i loro eventuali complici, sarebbero state giudicate da una corte marziale. Lo stesso Pica era un meridionale e la sua legge fu approvata dopo breve dibattito, perché i deputati erano impazienti d’iniziare le loro ferie estive. Ben presto 120.000 soldati, un buon terzo dell’intero esercito, furono concentrati in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale. Nel 1865 la guerra era praticamente terminata. Crocco cercò riparo nello Stato pontificio lasciando senza guida le sue bande armate, e gli avventurieri stranieri che avevano combattuto spinti da un malriposto entusiasmo per Francesco si dileguarono. Le rapine a mano armata lungo le linee di comunicazione rimasero una caratteristica assai diffusa del Meridione, e Turiello poteva scrivere nel 1882 che non solo era necessario viaggiare scortati, ma che le strade erano ancor più malsicure che nel 1860. Ciononostante, i proprietari terrieri erano ora, di solito, nuovamente in grado di riscuotere i loro canoni; i contadini potevano denunciare i reati e testimoniare in giudizio senza aver la certezza di andare incontro a future rappresaglie; non era più necessario, infine, prendere ostaggi, far evacuare interi villaggi o esporre ai crocicchi le teste mozze dei criminali giustiziati. Il Nord aveva esteriormente pacificato il Sud, ma la latente animosità regionale risultò intensificata. Una guerra civile è una delle disgrazie più crudeli che si possano abbattere su di un paese, e il Risorgimento, durante il quale molti italiani continuarono a combattere nell’esercito austriaco, non era stato che un succedersi di guerre civili fra le quali questa era la più crudele, la più lunga e la più costosa. Il numero di soldati regolari che vi morirono di malaria fu superiore a quello degli uccisi in combattimento durante tutte le campagne del 1860, e a quanto pare il numero di coloro che perirono nel corso di questa lotta fu superiore a quello dei caduti di tutte le altre guerre nazionali del Risorgimento.

da:”Storia d’Italia” – Laterza, Bari – 1997

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