Alta Terra di Lavoro

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L’industria, il commercio, l’agricoltura e l’allevamento, l’artigianato

Posted by on Mag 14, 2021

L’industria, il commercio, l’agricoltura e l’allevamento, l’artigianato

Industria metalmeccanica e siderurgica

Nel Sud, a Pietrarsa, era attiva la più grande industria metalmeccanica d’Italia estesa su una superficie di più di tre ettari, l’unica in grado di costruire motrici navali[12] e le Due Sicilie erano l’unico Stato della penisola a non doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro conduzione poiché, dalla sua fondazione, fu istituita la “Scuola degli Alunni Macchinisti”.

Erano costruiti anche locomotive e vagoni, inoltre solo Pietrarsa possedeva la tecnologia avanzata per realizzare i binari ferroviari; questa officina meccanica, nata nel 1840, precedeva di 44 anni la costruzione della Breda e di 57 quella della Fiat, era molto rinomata in tutta Europa.

I Savoia, ben quindici anni più tardi, a metà dell’800, chiesero e ottennero di poterla riprodurre in scala, senza pagare i diritti, nel primo stabilimento metalmeccanico del regno di Sardegna, la futura Ansaldo di Genova; anche lo Zar Nicola I, dopo averla visitata, la prese come esempio per la costruzione del complesso di Kronstadt.

Alla vigilia dell’unità, al Nord solo l’Ansaldo di Genova è a livello di grande industria, tuttavia essa aveva 480 operai contro i 1.000 di Pietrarsa; inoltre, accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy entrambe con 600 addetti; quest’ultima fornì, tra l’altro, il supporto delle 350 lampade per la prima illuminazione a gas di Napoli (che fu la terza città europea ad averla, dopo Londra e Parigi).

Nel 1861, al momento dell’unità, vi erano tre fabbriche in Italia in grado di produrre locomotive: Pietrarsa, Guppy ed Ansaldo, due erano al Sud e la loro efficienza e concorrenzialità è comprovata dal fatto che prima dell’unità esportassero in Toscana, affrontando maggiori costi di trasporto rispetto alla più vicina Ansaldo di Genova.

La prima locomotiva italiana fu finita di costruire a Pietrarsa il 19 giugno 1836; nel 1846 furono vendute al Regno di Sardegna, allora privo di fabbriche industriali, alcune locomotive che furono consegnate dal 1847 e regolarmente pagate, i loro no­mi erano Pietrarsa, Corsi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna e Partenope[13].

Nel cuore dell’aspra montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva, in un’area di 12.000 metri quadrati, la ferriera di Mongiana, vicino alla quale più tardi fu costruita Ferdinandea; il complesso siderurgico calabrese era, fino al 1860, il maggiore produttore d’Italia di materia prima e semi-lavorati per l’industria metalmeccanica lavorando a pieno regime 13.000 cantaja di ghisa annue (1.167 tonnellate) senza alcun segnale di crisi.

Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata, ma nel trentennio che precedette la fine del regno il fermento era vivissimo; basta ricordare che nel marzo del 1861, quando è proclamato il Regno d’Italia, gli addetti allo stabilimento di Mongiana erano 762 e si produceva ghisa e ferro malleabile d’ottima qualità compreso quello che servì per la realizzazione delle catene, di circa 150 tonnellate, dei due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore, costruiti rispettivamente nel 1832 e nel 1835.

Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud ma è “impossibile elencare tutti i piccoli e medi opifici metalmeccanici sorti grazie all’intraprendenza degli artigiani locali o di imprenditori del settore tessile interessati ad acquistare le macchine necessarie”[14]; a riprova della crescita di questo ramo dell’industria è il forte incremento dell’acquisto del ferro all’estero.

Cantieristica navale

Il Meridione possedeva una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo, ne facevano parte oltre 9800 bastimenti per oltre 250mila tonnellate ed un centinaio di queste navi (incluse le militari) erano a vapore[15]; con circa quaranta cantieri di una certa rilevanza.

Il primo vascello a vapore del Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli, fu varato nel 1818; persino l’Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. All’epoca fu tanto grande la meraviglia per quella nave, una due alberi con fumaiolo centrale sostenuto da tiranti, che fu riprodotta dai pittori in numerosi quadri, ora sparsi per il mondo, come ad esempio quello della Collezione Macpherson o l’altro della Camera di Commercio di Marsiglia. Il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il primo del Mediterraneo per grandezza e al momento della conquista piemontese era sul punto di essere attrezzato per la lavorazione di scafi in ferro,l’arsenale-cantiere di Napoli con 1.600 operai era l’unico in Italia ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri.

Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) che svolgeva un servizio regolare e periodico compreso il trasporto della corrispondenza, la prima flotta italiana giunta in America e nel Pacifico e la stesura del primo codice marittimo italiano del 1781 (ad opera di Michele De Jorio da Procida, che fu plagiato da Domenico Azuni il quale se ne assunse la paternità), ultimo prodotto di una tradizione che risaliva ai tempi delle Tavole della Repubblica marinara di Amalfi e delle legislazioni meridionali successive; le principali scuole nautiche erano a Catania, Cefalù, Messina, Palermo, Riposto (CT), Trapani, Bari, Castellammare, Gaeta, Napoli, Procida, Reggio [16]; si riaprirono porti come quello di Brindisi (1775) che erano chiusi da secoli, navi come il “Real Ferdinando” potevano trasportare duecento passeggeri da Palermo a Messina e Napoli, veniva anche stipulata la prima convenzione postale marittima d’Italia.

Nel 1831 entrò in servizio la “Francesco I” che copriva la linea Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia; con essa fu anche effettuata la prima crociera turistica del mondo, nel 1833, in anticipo di più di 50 anni su quelle che la seguirono, che durò tre mesi con partenza da Napoli, arrivo a Costantinopoli (con lo sbigottito sultano che la ammirava col binocolo da una terrazza) e ritorno tramite diversi scali intermedi; fu così splendida per comodità e lusso che fece dire “ Non si fa meglio oggi “ e “ Il Francesco I è il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel Mediterraneo, gli altri sono inferiori, i pacchetti francesi “Enrico IV” e “ Sully” hanno le macchine di forza di 80 cavalli (mentre la macchina del Francesco I è di 120) ….i due pacchetti genovesi si valutano poco, il “Maria Luisa” (del Regno di Sardegna) è piccolo, la sua macchina non oltrepassa la forza di 25 cavalli, e quantunque una volta siasi fatto vedere nei porti del Mediterraneo, adesso è destinato per la sola navigazione del Po.”[17].

Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Italia l’innovazione della propulsione a elica con la nave

“Giglio delle Onde”; regolari servizi passeggeri erano operativi e collegavano i principali porti delle Due Sicilie; isole come Ponza, Ustica, Lampedusa, Linosa furono ripopolate affrancando la popolazione residente dallo stato di schiavitù in cui erano state ridotte dai pirati barbareschi. 

Produzione tessile

Prima dell’unità il settore cotoniero vantava quattro stabilimenti nella parte continentale del regno ed uno in Sicilia con 1.000 o più operai ciascuno (1425 lavoravano per VonWiller a Salerno, 1160 in un’altra filanda della provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in quella di Piedimonte e un migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello stesso periodo gli stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai della filatura Ponti ed erano i più grandi di tutto il Nord.

Tutto il Salernitano divenne il comprensorio in cui si concentrò per eccellenza l’industria tessile che fiorì anche nella valle del Liri, nel circondario di Sora, ad Arpino; “Un particolare riferimento va fatto per il lino e la canapa: con quest’industria, nella quale trovavano impiego ben 100.000 tessitrici e 60.000 telai, fu così dato lavoro a tutto un mondo rurale prevalentemente femminile”[18].

Il medesimo sviluppo coinvolge la produzione della lana grazie al miglioramento degli allevamenti, sono inoltre introdotti molti capi di razza “merino” e la manifattura conserva prevalentemente i caratteri di industria domestica per il parziale processo di trasformazione del manufatto.

Il Sud è invece nettamente svantaggiato per la produzione della seta ove incide solo per il 17.5% della produzione complessiva italiana ma in seguito all’incremento di nuove piantagioni di gelsi ed all’allevamento del baco si ha dal 1835[19] un rinnovato sviluppo dell’industria della seta; le filande sorgono in Calabria, in Lucania, in Abruzzo.

Notissimo in tutta Europa era l’opificio di San Leucio con un regolamento interno, redatto da re Ferdinando I; ricordiamo anche gli stabilimenti di Nicola Fenizio che davano lavoro a più di 4mila persone e la cui produzione era largamente esportata in tutto il mondo, raggiungeva un tale grado di perfezione che i concorrenti arrivarono a contraffarne il marchio.

Cartiere

A livello internazionale erano le fiorentissime cartiere meridionali dell’epoca, ricordiamo quella celebre di Fibreno, la più grande d’Italia e una delle più note d’Europa con 500 operai, oltre a quelle del Rapido, della Melfa, della costiera amalfitana; nella sola valle del Liri[20] il giro d’affari delle nove cartiere della zona era di 8-900 mila ducati annui grazie agli ingenti investimenti fatti per dotarle delle migliori tecniche dell’epoca. Già ben prima dell’unità, le cartiere avevano destato l’ammirazione dei più grossi industriali del ramo; nel 1829 Niccolò Miliani proprietario delle note cartiere di Fabriano, venne al Sud nella Valle del Liri e si meravigliò di vedere “un foglio di carta come un lenzuolo”, si chiedeva “come diavolo si potevano ottenere formati così grandi.”

Le cartiere del Sud, grazie all’elevata qualità del prodotto esportavano in misura notevole, oltre che nell’Italia settentrionale, anche a Londra malgrado costi di trasporto assai gravosi. 

Industria Estrattiva e Chimica

Il Sud disponeva dell’importantissima produzione dello zolfo siciliano, che nella prima metà dell’Ottocento copriva il 90% della produzione mondiale e da sola assorbiva il 33% degli addetti di tutta l’industria estrattiva italiana, già nel 1836 si contavano 134 zolfare attive; aveva un peso economico notevolissimo e ancora negli anni immediatamente post-unitari i 2/3 delle esportazioni chimiche vengono dal Sud; non si dimentichi che la chimica industriale dell’800 è quasi del tutto basata sullo zolfo, specialmente l’industria degli esplodenti per le armi; è pertanto chiaro l’enorme valore strategico di tale produzione ed il conseguente atteggiamento dell’Inghilterra nella questione “degli zolfi siciliani”.

A Napoli e dintorni sorsero fabbriche di amido, di cloruro di calce, di acido nitrico, di acido muriatico, di acido solforico ed infine di colori chimici; le risorse del sottosuolo (zolfo, ferro, bitume, marmo, pozzolana) erano sapientemente sfruttate a livello industriale.

fonte

http://www.nazionali.org/sud/storia/ressa_2s.html#poleco

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