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Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XXXVIII

Posted by on Dic 2, 2021

Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XXXVIII

 Idee di terrorismo

La storia di una rivoluzione non è tanto storia dei fatti quanto delle idee. Non essendo altro una rivoluzione che l’effetto delle idee comuni di un popolo, colui può dirsi di aver tratto tutto il profitto dalla storia, che a forza di replicate osservazioni sia giunto a saper conoscer il corso delle medesime.

Nell’individuo la storia dei fatti è la stessa che la storia delle idee sue, perché egli non può esser in contraddizione con se stesso. Ma, quando le nazioni operano in massa (e questo è il vero caso della rivoluzione), allora vi sono contraddizioni ed uniformità, simiglianze e dissimiglianze; e da esse appunto dipende il tardo o sollecito, l’infelice o felice evento delle operazioni.

La congiura di Baccher, l’occupazione di Procida, i rapidi progressi dell’insorgenza aveano scossi i patrioti, e, nella notte profonda in cui fino a quel punto avean riposati tranquilli sulle parole dei generali francesi e del governo, videro finalmente tutto il pericolo onde erano minacciati. Il primo sentimento di un uomo che sia o che tema di esser offeso è sempre quello della vendetta, la quale, se diventa massima di governo, produce il terrorismo.

Il governo napolitano, quantunque composto di persone che tanto avean sofferto per l’ingiusta persecuzione sotto la monarchia, credette viltà vendicarsi, allorché, avendo il sommo potere nelle mani, una vendetta non costava che il volerla. Pagano avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse ai suoi nemici allorché rese la libertà a Siracusa, ed il divino tratto di Vespasiano, quando, elevato all’impero, mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai non avea più che temere da lui. Noi incontriamo sempre i nostri governanti, allorché ricerchiamo la morale individuale.

Ma molti patrioti accusarono il governo di un «moderantismo» troppo rilasciato, a cui si attribuivano tutt’i mali della repubblica. Siccome in Francia al «terrorismo» era succeduta una rilasciatezza letargica e fatale di tutt’i princìpi, così il terrorismo era rimasto quasi in appannaggio alle anime più ardentemente patriotiche. Forse ciò avvenne anche perché il cuore umano mette l’idea di una certa nobiltà nel sostenere un partito oppresso, per vendicarsi così del partito trionfante che invidia: forse in Napoli si eran vedute salve talune persone, che la giustizia, la pubblica opinione, la salute pubblica voleano distrutte o almeno allontanate.

Ma vi era un mezzo saggio tra i due estremi. Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall’esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono l’imbarazzo che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi e buoni. Il terrorismo lusinga l’orgoglio, perché è più vicino all’impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perché è molto facile. Ma richiede sempre la forza con sé: ove questa non vi sia, voi non farete che accelerare la vostra ruina. Tale era lo stato di Napoli.

In Napoli le prime leggi marziali de’ generali in capo erano terroristiche, perché tali son sempre e tali forse debbono essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre e non produssero alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la legge, come l’applicate, quando tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti e salvare i rei? Robespierre avea la nazione intera esecutrice del terrorismo suo. Quando le pene non sono livellate alle idee de’ popoli, l’eccesso stesso della pena ne rende più difficile l’esecuzione e, per renderle più efficaci, convien renderle più miti.

Negli ultimi tempi si eresse in Napoli un «tribunale rivoluzionario», il quale procedeva cogli stessi princìpi e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di Robespierre. Forse quando si eresse era troppo tardi, ed altro non fece che tingersi inutilmente del sangue degli scellerati Baccher nell’ultimo giorno della nostra esistenza civile, quando la prudenza consigliava un perdono, che non potea esser più dannoso. Ma, quand’anche un tal tribunale si fosse eretto prima, la legge stessa, colla quale se ne ordinava l’erezione, sarebbe stato un avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia contro il tribunale eretto.

Il terrorismo cogl’insorgenti si provò sempre inutile. «E che? – scrivea la saggia e sventurata Pimentel – quando un metodo di cura non riesce, non se ne saprà tentare un altro?».

Difatti si accordò un’amnistia agl’insorgenti: non a tutti, perché sarebbe stata inutile; ma a coloro che il governo ne avesse creduti degni, onde così ciascuno si fosse affrettato a meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il sospetto e la divisione tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per mezzo di persone sagge ed energiche, le quali avessero potuto penetrare ed eseguire gli ordini del governo in tutt’i punti del nostro territorio. Io lo ripeto: la mancanza delle comunicazioni tra le diverse parti dello Stato e la mancanza delle forze diffuse in molti punti per mantener tale comunicazione, la mancanza a buon conto della diligenza e della severità erano l’origine di tutti i nostri mali e facevan credere necessario ad alcuni un terrorismo, il quale non avrebbe fatto altro che accrescerli.

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