Alta Terra di Lavoro

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LA STRAGE DI VALLEROTONDA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Posted by on Dic 10, 2021

LA STRAGE DI VALLEROTONDA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

A prima vista potrebbe apparire uno scorcio remoto di territorio destinato solo a segnare, peraltro in luoghi cui non è facile accedere, i confini geografici tra Lazio, Abruzzo e Molise. In realtà, specie nel contesto di una guerra come quella di settantacinque anni or sono, questo apparente scorcio remoto è il complesso montano delle Mainarde, non solo roccaforte naturale di tutto rispetto ma anche osservatorio privilegiato.

Una situazione che i tedeschi conoscono molto bene e che, dunque, non solo non si lasciano sfuggire ma sfruttano al meglio tanto da “inserirla” sia nel “tracciato” della linea difensiva Reinhard che in quello della Gustav: verso la Meta, infatti, a quota 2.241 sul livello del mare, le due linee sono quasi adiacenti tra loro, se non “sovrapposte”; appena dopo, in direzione della costa tirrenica, la prima “corre” al di là di monte Mare (quota 2.020); la seconda, invece, tra questo e monte Cavallo (quota 2.039).

Cardito, frazione del comune di Vallerotonda, è ubicato proprio dove le due linee difensive si sono appena separate: una posizione per niente invidiabile, resa, per di più, ulteriormente precaria dalla presenza, tra quel pugno di case che costituiscono il villaggio, della Roccasecca-Isernia, cioè dell’unica strada che attraversa quei monti. Se si considera poi che con la costruzione della Reinhard e della Gustav i tedeschi giocano in questo sperduto angolo della penisola, se non l’ultima, sicuramente una delle ultime carte per bloccare la strada per Roma agli alleati, non ci vuol molto a rendersi conto di ciò che accade sulle Mainarde ed intorno ad esse in quello scorcio dell’autunno 1943.

Ce n’è abbastanza, insomma, perché quel via vai di soldati e di mezzi militari tedeschi, che anima le pendici dei monti per predisporre al meglio gli appostamenti difensivi, polarizzi, né potrebbe essere diversamente, l’attenzione e la curiosità degli abitanti di Cardito, poche decine di persone in tutto, quasi traumatizzati di ciò che sta accadendo intorno a loro: sconvolta la pace del luogo dove sono nati e cresciuti, sconvolta la pace del loro piccolo mondo fatto di semplici cose e senza tante o grandi pretese, si rendono conto, forse senza nemmeno consultarsi tra loro, che è arrivato il momento di partire, di cercare altrove quella pace di cui non possono fare a meno.

Il tempo di recuperare l’indispensabile ed un tacito saluto alla propria casa. Un saluto che non vorrebbe avere il tono di un addio ma, piuttosto, il sapore di un ‘arrivederci presto per una assenza forzata cui non ci si può sottrarre ma che non durerà più di tanto. Poi, fagotto in spalla, si prende la via della montagna, la via di costa San Pietro.

La loro meta è la masseria Capaldi, a contrada Serre. Rispetto a Cardito, vi si dovrebbe stare più appartati. Ma non è così. Anzi. Saranno mancati solo alcuni giorni alla fine di novembre quando quella processione di uomini, donne e bambini è costretta dagli eventi a rimettersi in cammino: salgono verso Collelungo, ad oltre 1.500 metri di altezza, seguendo il corso del rio Chiaro. 

Ad un certo punto di questo loro salire, decidono di fermarsi: di acqua ce n’è in abbondanza; vi è, per di più, una specie di radura, sufficiente ad ospitarli tutti, al limite della quale dei grossi massi ben si prestano, adattati con opportuni accorgimenti non difficile a realizzarsi, a ripararli dal freddo e dalle intemperie. Almeno in parte, s’intende.

Le giornate le passano nella monotonia dell’attesa, semmai cercando qualcosa da mettere sotto i denti o anche scrutando il breve orizzonte che li circonda, sperando nell’emozione di un improvviso ed insperato impatto con qualcosa che cambi la loro condizione, ormai insopportabile, di sfollati. Anche se, come racconta Pierino Di Mascio, uno di loro, «tutti, specialmente noi ragazzi, ci eravamo perfettamente abituati. In fondo, ci sembrava di giocare».

Un evento diverso, nella monotonia di quei giorni tutti eguali, è la nascita di Addolorata Di Mascio, il 28 novembre. Anche se non lo possono ufficializzare, le impongono quel nome che già venne dato alla Vergine Maria per i dolori sofferti come compartecipe della passione di Gesù. Un richiamo non casuale a quella loro vicenda di guerra della quale Addolorata diviene il simbolo.

Un “avvenimento”, poi, è l’arrivo di quattro soldati italiani che si “accampano” non lontano da loro; e un altro “avvenimento” ancora è l’arrivo di un ufficiale inglese, A.M. Burnford, che viene dal nord, dov’era prigioniero dei tedeschi, e cerca di ricongiungersi ai suoi, al di là del fronte. È malato. Gli sfollati di Cardito lo curano. Poi, dopo circa un mese di permanenza con loro, una ventina di giorni prima che si consumi la tragedia, riesce a passare dall’altra parte.

Un giorno, finalmente, dalle loro attente “osservazioni”, gli sfollati di Cardito pensano di poter dedurre che a monte Mare qualcosa sta accadendo: che la situazione bellica è in fase di evoluzione lo interpretano valutando le circostanze che si presentano ai loro occhi. In effetti, non hanno tutti i torti perché è proprio la metà di dicembre quando la battaglia si accanisce ormai sulle Mainarde, ad alcune centinaia di metri in linea d’aria da loro.

Il fatto stesso di essere in prima linea, per di più tra gli apparati difensivi della Reinhard e della Gustav, costituisce motivo perché, non di rado, gli sfollati di Collelungo vengano a trovarsi a diretto contatto con i soldati tedeschi che passano da quelle parti e che, spesso, si fermano con loro, per riposarsi o per mangiare un boccone. Mi ha raccontato Pierino Di Mascio: «Si erano comportati sempre in modo civile e nessuno avrebbe mai pensato che la nostra tragedia sarebbe venuta proprio da loro. Anzi, eravamo sicuri che, una volta crollato il fronte, si sarebbero ritirati senza far succedere nulla».

Anche la sera del 27 dicembre, mentre tutt’intorno si scatena il fragore di un violentissimo duello di artiglieria, una pattuglia di soldati tedeschi, accampata nei pressi, s’intrattiene con gli sfollati. Ci si riscalda intorno ad un grosso fuoco e si mangia brodo di carne di pecora. Quei soldati tedeschi sono della “Wehrmacht Alpenjager”, ovvero “Cacciatori delle Alpi”: Ernesto Rongione, uno degli sfollati, che è reduce dal fronte russo, non ha difficoltà a riconoscerli come tali anche per via della stella alpina cucita sulla divisa.

Nel loro stentato italiano cercano di scambiare qualche parola. Uno di essi dice: «Domani…Americani…». Poi, volge lo sguardo verso la cima di monte Mare quasi a voler far capire che ormai gli alleati sono lassù. E quando decidono di andar via, come se volessero ricambiare con qualcosa di tangibile l’ospitalità ricevuta, lasciano a Ernesto Rongione una pagnotta di pane nero. Quello che la consegna, dice: «E’ per i bambini…Al mio paese ne ho quattro anch’io».

Per gli sfollati di Cardito, anche a seguito della notizia data dai tedeschi, quella sembra essere una sera diversa dalle altre. Non fa niente che Natale, quest’anno, è andato come è andato. La cosa importante è che ormai si sia giunti ad una svolta. È solo questione di ore, essi pensano. E lusingati da questa speranza, che per tutti è, comunque, molto più di una semplice speranza, cercano il sonno sui nudi giacigli di foglie secche.

Intanto, ha preso a nevicare. Dormono ancora quando il primo chiarore del nuovo giorno si fa largo tra le tenebre di quella notte ricordata come la più fredda di tutte, con la neve che ha coperto ogni cosa. Ma ora non nevica più ed è anche cessato il fragore delle artiglierie.

È il 28 dicembre, il giorno che la Chiesa dedica alla memoria dei SS. Innocenti Martiri. Il cielo si schiarisce lentamente, illuminandosi sempre di più. In molti sono già in piedi ma qualcuno dorme ancora. Si accende il solito fuoco e si riscalda qualcosa da buttare in corpo: tutto si svolge tale e quale alle altre mattine, come se fosse una consuetudine consumata, anche se, stando alle frammentarie notizie della sera precedente, quella potrebbe essere una giornata diversa: qualcuno pensa di poter tornare a Cardito già al tramonto di quel giorno, massimo il giorno dopo.

S’intravede una pattuglia tedesca scendere dalla montagna: ne passano tante da quelle parti che non è proprio il caso di preoccuparsi. Ed ognuno, perciò, continua a fare ciò che sta facendo senza preoccuparsi più di tanto. Anzi, quando quella pattuglia è giunta in prossimità dell’accampamento, qualcuno si “azzarda” anche a chiedere notizie sugli “americani”.

Ma senza avere risposta. Piuttosto, l’impressione che se ne riceve, è tutt’altro che rassicurante. E’ questioni di attimi. E s’intuisce che quella non è una visita di cortesia. Nella mente degli sfollati balenano tante cose, la più pessimistica delle quali è che siano venuti per mandarli via. I tedeschi, infatti, disponendosi a cerchio, con movimenti secchi e violenti, li fanno riunire su un lato della radura. Pierino Di Mascio ricorda: «Prima della paura, noi tutti provammo stupore anche perché non era mai accaduto che ci trattassero in questo modo».

Ma che non erano venuti per mandarli via lo si capisce un attimo dopo quando i soldati cominciano a sistemare una mitragliatrice con la bocca puntata verso gli sfollati. Antonio Di Masciointuisce che qualcosa di grave sta per accadere e grida rivolto ai familiari: «Ho tutti i documenti, tutte le ‘carte’ e i soldi nella mia giacca. Se qualcuno di noi si salva…».

Poi abbraccia la moglie Teresa che stringe a sua volta tra le braccia il più piccolo dei loro figli, Domenico, un anno compiuto tre giorni prima, proprio il giorno di Natale.

I bambini piangono. Qualche donna s’inginocchia e prega. Qualcuno implora. Angelina Di Masciostringe più forte sul seno, quasi a soffocarla, la sua bambina, Addolorata, un mese proprio quel giorno e, in questo mese, nemmeno un prete per battezzarla. Si getta ai piedi del sergente tedesco che ha tutta l’aria di comandare la pattuglia ed urla pietà, con quanto fiato ha in gola, per la sua bambina. Per tutti i bambini. Per lei e per gli altri.

Per tutta risposta il sergente le sferra un calcio sul viso ed Angelina rovina in terra cercando come può, nella caduta, di proteggere il corpicino di Addolorata: nemmeno il tempo di riprendersi per rendersi conto che sta per morire con Addolorata tra le braccia, quanto basta al sergente di estrarre la pistola dalla fondina e sparare, senza esitazione e senza pietà, su madre e figlia.

Come quei colpi riecheggiano nella vallata, proprio allora ha inizio il terrificante concerto della mitragliatrice: urla, invocazioni, preghiere nemmeno si ha il tempo di farle che vengono soffocate in gola. I corpi si ammassano su altri corpi già privi di vita. Gli ultimi colpi riecheggiano nella vallata mentre colpiscono, poco più in là, i quattro soldati italiani.

Il sangue arrossa la neve e sul greto del rio Chiaro a Collelungo cala il silenzio della morte. Un doloroso rosario di nomi di uomini, donne, bambini. Su quell’ammasso di corpi senza vita, quasi per occultare allo sguardo del cielo le loro vittime, i tedeschi distendono frasche di faggio e neve. Poi proseguono per la loro strada come se nulla fosse accaduto.

Il sangue dei morti arrossa l’acqua del rio Chiaro. Ma a valle nessuno se ne accorge. E restano soli ma non dimenticati. Questi i nomi delle vittime: Giuseppe(3 anni), Italia(6), Luisa(8), Margherita(1), Sabatino(10) e Stefano(35) BencivengaAdelina Capaldi(46); Carlo Dattilesi(29); Addolorata (1 mese), Alberto(3 anni), Angelantonio(39), Angelina(3), Angelina(25), Angelo(28), Antonia(50), Antonio(44), Antonio(56), Armando(5), Assunta(35), Carlo(39), Domenico(1), Domenico(30), Emilia(28), Ernesto(11), Francesco(37), Gaetano(53), Giuseppe(9), Giustino(9), Maria(31), Maria Civita(6), Modesta(57), Rosa(2), Teresa(35) e Vittoria(30) Di Mascio;Almerinda(39) ed Esterina(19) DonatellaMaria Grazia Izzi(56); Giovanni Rongione(17).

Non sono noti i nomi dei quattro soldati del disciolto esercito italiano unitisi al gruppo di cui condivisero la tragica fine. Con essi, il numero delle vittime sale a 42 (20, continua).

© Costantino Jadecola, 1993

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