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Una considerazione sui motivi alla base della reazione di alcune classi sociali all’ordine costituito

Posted by on Gen 10, 2022

Una considerazione sui motivi alla base della reazione di alcune classi sociali all’ordine costituito

La storia è ricca di episodi che vedono molto spesso l’aristocrazia e la cosiddetta intellighenzia, insieme o separatamente, tramare per abbattere i regnanti di turno.  Queste due classi sociali sono: la prima, la più vicina a quello che, della nobiltà e dell’aristocrazia, è il primo interlocutore e il massimo punto di riferimento; la seconda, la classe che quasi sempre deve il proprio tenore di vita alle occasioni che le vengono fornite proprio dall’istituzione che si accinge ad abbattere.

E’ il caso – per quello che riguarda la storia del Regno di Napoli (poi delle Due Sicilie) degli episodi relativi al Duca di Ossuna e al giudice Genoino; dell’esperienza giacobina del 1799; dei moti carbonari del 1821; dei pretestuosi motivi che avevano come fine l’esautorazione di fatto di Ferdinando II quando questi stava per concedere la costituzione nel 1848; del tradimento di buona parte della nobiltà e delle più alte cariche del Regno nel 1860.

     Verrebbe da chiedersi se le trame ordite dalla parte più agiata e da quella più colta della società contro chi assicura loro benessere e sicurezza non costituisca un paradosso, perché ci si aspetterebbe che un’ azione del genere venisse intrapresa dalla classe più diseredata, più maltrattata e più indigente, cioè da quelli che avrebbero più motivi di risentimento, e non da chi vive nell’agiatezza e nel lusso e, a motivo del proprio  status, può  permettersi ogni abuso, sicuro di non incappare nei rigori della legge. (Questo, almeno per gli appartenenti alla nobiltà).

       Ma poiché la storia è un prodotto dell’uomo, proprio in virtù di tale peculiarità, la sua interpretazione è opinabile per cui non sempre è agevole stabilire quando una certa azione può essere definita giusta e quando no.  Esprimere un giudizio esente il più possibile da interpretazioni soggettive è compito abbastanza arduo perché pure il ricorso ai rigidi criteri della logica che sono alla base del comune senso di ragionare può non dare garanzie di obiettività. Ed allora, alla logica bisogna affiancare una buona dose di onestà intellettuale e tentare così di trovare una spiegazione che, senza forzature, riesca a soddisfare entrambe le disposizioni dell’intelletto. In ossequio a questo principio e facendo ricorso ad una legge della fisica, partiamo dalla premessa che non ci può essere un effetto senza una causa, per cui se analizzando un episodio della storia esso può apparire come una reazione, bisogna andare alla ricerca della causa che l’ha originata. Questo, però, è possibile nel campo della fisica, perché in quello sociale l’episodio che potrebbe essere definito “reazione”, dipendendo dal fattore umano, può non essere tale. A volte, anzi, è proprio questa presunta “reazione” ad essere “causa” e non “effetto”. A sostegno di quest’ultima affermazione riporto alcuni esempi, che vedono coinvolte le figure di due personaggi della storia del Seicento, che potremmo definire “minori”: Giulio Genoino (Cava dei Tirreni 1567 – Cagliari 1648) e Pedro Giròn, duca di Ossuna e viceré di Napoli dal luglio 1616 al maggio del 1620.

     Il duca di Ossuna, appena insediato, emanò un editto, con il quale ordinava ai nobili (per i privilegi e i soprusi dei quali non aveva alcuna simpatia) di non disprezzare la plebe. Inoltre, nelle questioni di diritto che vedevano contrapposti nobili e popolani, quando i primi, per tradizione, non pagavano neanche quando abusi e soprusi erano evidenti, non accordò loro favoritismi e se le azioni portate a termine da costoro erano in contrasto o col diritto naturale o con le leggi vigenti, non esitava a dare ragione ai più deboli, per i quali aveva inoltrato al re di Spagna anche una proposta per la concessione della parità di diritti tra nobili e popolani per il governo della città. Questa richiesta, ritenuta un’offesa  alla loro libertà, indusse i nobili ad inviare una supplica a Filippo III affinché intervenisse perché il viceré cambiasse atteggiamento nei loro riguardi.

     Due casi emblematici dei sentimenti del viceré (ispirati al senso dell’ equità e della giustizia) furono un episodio che coinvolse una vecchia popolana ed un ricco mercante (con la condanna di quest’ultimo e l’assoluzione della vecchia popolana) e l’episodio che lo vide coinvolto direttamente in Piazza Mercato, quando, assistendo non visto ad un’ennesima violenza che il nobile Francesco Rinaldi stava perpetrando ai danni del popolo, estrasse la spada, recise con un colpo netto la fune che reggeva il piatto della bilancia, facendo cadere a terra la frutta su di esso contenuta (oggetto della gabella in contestazione) e condannò il Rinaldi a due anni di prigione.  

     I nobili, per liberarsi definitivamente di questo viceré anticonformista, ricorsero addirittura alla menzogna. Fecero giungere alle orecchie di Filippo III la notizia che il duca  avesse messo sul proprio capo la corona, avesse impugnato lo scettro di Alfonso d’Aragona e con questi simboli si fosse presentato al popolo che lo avrebbe acclamato re, come, al tempo dei Romani, i militari acclamavano imperatore il loro comandante.

     Ovviamente la cosa ebbe l’epilogo desiderato dalla nobiltà e così il 4 giugno del 1620 il duca di Ossuna lasciava il testimone di viceré al cardinale Gaspar de Borja y Velasco.

     Torniamo ora al Genoino.

     Anche lui, ispiratore di molti provvedimenti dell’Ossuna, dall’alto della sua funzione di Giudice della Real Camera della Sommaria, memore delle sue umili origini, si era mostrato particolarmente sensibile ai bisogni dei più deboli, e per questo non godette delle simpatie della nobiltà, che gli rese la vita molto tribolata. Per discolparsi davanti al re delle accuse che gli erano state mosse, si recò in Spagna, ma, giunto a Madrid, fu arrestato il 25 ottobre 1620 e rinchiuso in carcere. Fu trasferito poi a Napoli, nel castello di Baia e successivamente nella fortezza di Capua; di qui fu trasferito a Gaeta dove, nell’ottobre del 1622, gli venne notificata la sentenza di “carcere perpetuo” da scontare nella fortezza Pignone, in Marocco. Graziato da Filippo IV per intercessione della regina, raggiunse Roma dove rimase fino al 1639.

     Tornato a Napoli, fu accolto nel Collegio dei Dottori. Sempre sensibile ai bisogni dei più deboli, cominciò ad elaborare progetti per ridurre i disagi del popolo che trovò tartassato da nuove e più pesanti gabelle mentre i nobili guazzavano nel lusso più sfrenato. Vigente tale situazione, il malcontento popolare, in cui si inserisce anche l’effimera parabola di Masaniello, si trasformò subito in rivolta che ebbe come epilogo un’atroce ed inutile carneficina. Accusato di  aver fomentato la rivolta, fu nuovamente arrestato e mandato in Sardegna per trascorrere gli ultimi anni di vita nella segreta di un carcere, ma morì non appena giunto nel porto di Cagliari.[1]

     Analizzando con l’invocata onestà intellettuale i motivi che spinsero nobili ed intellettuali a contrastare l’azione di equità sociale del viceré e del Giudice della Real Camera della Sommaria, non mi sento di giustificare la “reazione” dei primi, perché la “causa” che l’avrebbe generata non aveva come obiettivo l’eliminazione di queste classi, ma solo quello di limitarne abusi e soprusi e riconoscere un minimo di dignità anche ad una classe che è stata sempre vittima di prepotenze e di sopraffazioni. Ora, se un  provvedimento regale, che riguarda principi astratti suscita una compatta e dura presa di posizione, figurarsi la reazione che si scatenerà quando uno di tali provvedimenti si proporrà di restituire ai diseredati parte delle terre di cui “nobili” e “gentiluomini” si sono indebitamente appropriati nel corso del tempo!

      Pertanto, non sempre è nel giusto chi ritiene che, poiché le classi che godono dei maggiori favori e che, per la loro condizione e cultura, sono quelle che hanno un orizzonte visivo più ampio di quello del popolo, si ribellano, ciò debba significare necessariamente che la forma di governo che osteggiano sia sbagliata o che la persona che tale forma incarna sia un incapace.

     La conservazione dei propri privilegi ed anche il desiderio di vederli aumentare e non diminuire, questi, a ben guardare, sono i veri motivi alla base dell’insoddisfazione e dell’ostilità di nobiltà, borghesia ed intellettuali verso un’istituzione non a loro misura o verso un sovrano orientato a mettere in atto un principio di giustizia e di equità sociale.

Castrese Lucio Schiano – 08.01.2022


[1] Le notizie relative al Duca di Ossuna e al Genoino sono tratte da “Storie della Città di Napoli” di Camillo Albanese, capitolo “Genoino e il duca di Ossuna”, Newton Compton Editori

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