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PAISIELLO E IL “RIPURGO” DEL 1799

Posted by on Gen 23, 2022

PAISIELLO E IL “RIPURGO” DEL 1799

«La rivoluzione che alla fine del secolo XVIII sconvolse l’Europa riuscì funesta» — ebbe occasione di scrivere Giuseppe De Balsiis[1] — «a tre celebri maestri di musica napoletani: Niccolò Piccini, Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello».

Il perché, per quanto riguarda Paisiello, è richiamato alla nostra memoria dalla rilettura — effettuata col valido ausilio di un indice onomastico — del Diario Napoletano di Carlo de Nicola, che ai principi del secolo, a cura del De Blasiis appunto, aveva visto la luce in appendice all’«Archivio storico per le provincie napoletane» e che ora la vede nuovamente * col dichiarato scopo di «restituire al più largo pubblico una lettura di appassionante interesse e di straordinaria forza narrativa», come si esprime Paolo Ricci, che ha curato la ristampa, nella nota introduttiva.[2]

Nel Diario, sotto la data di domenica 19 maggio 1799, il De Nicola annotava: «Il Governo questa mattina ha date le bandiere alla nostra Guardia Nazionale, quest’oggi poi verso le ore 22 si è portata la detta Guardia, tanto a piedi che a cavallo, in gran parata innanzi al Palazzo Nazionale con bandiere spiegate, ed accompagnata dal treno di artiglieria. Là giunta in mezzo a numeroso popolo ha fatto il giro della piazza, indi ha circondato l’albero, intorno a cui era un versetto come: Odio eterno ai Tiranni e simili. Sono montati sul palco alcuni della stessa Guardia ed hanno lacerate le bandiere tolte all’insorgenti, strappandole, calpestandole, e gittandole in mezzo al popolo, che faceva lo stesso, gridando: Viva la libertà, viva la Repubblica, delle quali voci rimbombava la piazza e le case circostanti. Indi si sono aggraziati gl’insorgenti di Castellammare che stavano ai ferri, ed essi sono anche montati sul palco, hanno abbracciato l’albero, e ricevuto l’abbraccio fraterno dei patrioti. Si sono ancora cantati alcuni Inni composto uno da Vincenzo Mundo,[3] l’altro da Eugenio Palumbo e posti in musica da Cimarosa e Paisiello. Forse scriverò in margine le parole di essi [mancano]. L’allegria è stata universale, e si è comunicata a tuttala città».

Allegria universale anche due mesi dopo, on più però al grido di: Viva la libertà, viva la Repubblica, bensì a quello di Viva il Re. Sotto la data di domenica 28 luglio annota infatti il nostro diarista: «Domani al giorno Paisiello, per sua particolare devozione farà cantare un Te Deum nella chiesa di S. Lorenzo, ove si prepara solenne festa poi del popolo giovedì. Per Napoli poi tutto è festa e musica e fuochi artificiali per le strade che fa piacere, che spero penetri anche il cuore di S. M. a favore di questa popolazione che nel generale gli è fedelissima; e chi ha veduta la mestizia e tetraggine dei giorni e mesi passati e le paragona alla grande allegrezza di questi giorni, conosce quanto era inviso il Governo dei ribelli, quanto amato e desiderato quello del proprio Re».

Mutato l’animo della plebe, mutato l’animo di Paisiello. Mutamento, quest’ultimo, contrastato invero dai seguaci del restaurato regime borbonico. Sempre dal detto Diario (giovedì 1° agosto) apprendiamo: «quest’oggi si è cantato il solenne Te Deum musica di Paisiello, da lui diretta nella chiesa di S. Lorenzo. Si era detto che al d.o maestro erasi proibito lo battere, ma egli lo ha chiesto in grazia, dicendo averlo promesso in voto. È ragionevolmente in disgrazia, perché dichiarato maestro di cappella compositore della Repubblica, pose in musica gl’inni cantati innanzi al Reale Palazzo sotto l’albore, ed andò in Roma a mettere in musica l’Aristodemo».[4]

Il fatto di essere «ragionevolmente in disgrazia» non impedì però che successivamente al Paisiello fosse affidata la direzione della musica sia per i solenni funerali di Pio VI, sia per le feste allorché fu assunto al soglio pontificio Pio VII (Diario, giovedì 1 novembre 1799 e martedì 29 aprile 1800). Sotto la prima data il De Nicola annota: «Ha diretto la musica il celebre maestro Pajesiello (sic) ch’è riuscita bellissima»; ed al margine: «Questo maestro si sta giustificando, perché in disgrazia, essendosi detto che fosse andato in Roma per servizio delle Repubblica».[5]

Il De Nicola scriveva il vero<. Le orde del cardinale Ruffo erano appena entrate in città quando Giovanni Paisiello «che valente nell’arte come Piccinni e Cimarosa, però li vinceva in scaltrezza», si affrettò ad inviare «una lettera al Marchese del vasto, maggiordomo di Corte, e v’accluse una relazione per giustificare la sua condotta al tempo dell’anarchia, e per garentirsi, diceva, da tutte le calunnie di che i suoi nemici potevano incolparlo. E non vedendo segno di risposta, e crescendo la paura, tornò a scrivere ai 28 agosto 1799, e rinviò nuovamente la relazione, nel dubbio che la prima si fosse dispersa»[6]

La relazione originale non è a noi pervenuta, bensì la replica rintracciata e pubblicata dal De Blasiis,[7] mentre la lettera di accompagnamento del 28 agosto 1799 può leggersi nel Flòrimo.[8]

Ma il Paisiello grandemente si illudeva sui sentimenti di Ferdinando e di Carolina: i sovrani — animati dal più crudele spirito di vendetta — non solo volevano la punizione fisica di quanti avevano aderito al regime repubblicano, ma desideravano anche «espellere e mandare in esilio tutti coloro che avevano dato prova o indizi di volere o desiderare forme di politica libertà, e poiché questo sentimento si era introdotto allora negli animi dei migliori napoletani, dei più colti, dei più intelligenti e amanti della patria, far di essi, senz’alcun riguardo e remissione, un generale ‘ripurgo’, secondo la parola che la regina aveva coniato e si piaceva ripetere con insistenza».[9]

Di conseguenza la istanza non solo non ebbe l’esito che il Paisiello sperava, ma neppure impedì che il suo nome fosse inserito nella richiesta che la Corte, da Palermo, avanzò alla Giunta di Governo — sedente in Napoli, presieduta dal cardinale Ruffo e composta da alti funzionari «probi, distinti e qualificati»[10] — perché fornisse «chiarimenti sulla condotta politica del personale addetto ai teatri di Napoli durante la Repubblica».[11]

Non è a noi pervenuta — o giace tuttora negletta negli archivi — la richiesta reale, così come non è pervenuto il primo dei rapporti inviati dalla Giunta di Governo in risposta a Ferdinando IV.

Nel secondo rapporto — datato 2 novembre 1799. leggiamo invece: «La Giunta di Governo rappresenta le diligenze pratiche della Giunta di Stato, per mezzo del Giudice di Polizia don Nicola Liberatore, per l’individui tutti addetti au Teatri di questa Capitale descritti nella nota rimessale da V. M. e siccome trova di aver dato conto, di quelli del Teatro S. Carlin, e del Teatro Nuovo sopra Toledo, viene ora a riferire l’occorrente per gli altri tre teatri di S. Carlo, del Fondo e dei Fiorentini ed in ultimo si dà carico della Commissione [di Spettacoli] stabilita dopo l’entrata dei Francesi».[12]

Tace però il rapporto sull’attività del Nostro perché «riguardo a D. Giovanni Paisiello» — così riferisce lo stesso documento — «si riserba essa Giunta di Governo con altra rappresentazione dire a V. M. l’occorrente, pendendo un informe particolare di lui alla Giunta di Stato».

Resta quindi accertato che i provvedimenti contro il Paisiello non furono presi — trascrivo dal Della Corte[13] — «senza una procedura in piena regola, e senza una procedura di investigazione politica dei massimi organi statali, i quali, in un fatto di provvedimenti punitivi, non scherzavano».

Non era infatti trascorso un mese dalla rappresentanza del 2 novembre che Cimarosa — (sul quae la detta rappresentanza così si esprimeva: «…si vede nell’obbligo la Giunta di Governo di manifestare a V. M. di poter essere adoperato per cose di Teatro D. Giambattista Di Lorenzo, giacché lo stesso ebbe poca ingerenza in detta Commissione di Spettacoli, con l’aver manifestato in tutti i discorsi il suo sentimento contrario al Governo Democratico, tutto all’opposto di D. Domenico Cimarosa, che otre di aver adottato simili sentimenti, pose anche in musica varj inni Patriottici, ed assisté al canto dei medesimi») — che Cimarosa, ripeto fu arrestato.

«Sarebbe interessante sapere» — si domanda sempre il Della Corte — «come si svolse e si esaurì la pratica a carico di Paisiello. Non risultò nulla di grave a suo carico o fu salvato da protezioni? Certo è che egli no si pose in vista politicamente come Cimarosa, il quale tenne fede all’amicizia con i repubblicani suoi antichi amici personali, e forse perciò meritò indulgenza».

Purtroppo la rappresentanza che la Giunta di Governo si proponeva di inviare al sovrano in merito alla condotta politica di Paisiello è introvabile, e vane sono riuscite le ricerche, effettuate personalmente, nell’Archivio di Stato di Palermo: auguro che altri possa essere più di me fortunato. Del pari nessuna documentazione sui provvedimenti a varico del Nostro, che consistettero nella perdita degli uffici e degli stipendi, è finora conosciuta.

I provvedimenti punitivi contro il Paisiello sarebbero dovuti essere messi nel nulla dall’indulto del 23 aprile 1800, ma — come si legge nel Colletta[14] — «a nessuno per quelle grazie tornar diritto ai perduti offici, derivando la loro liberazione non da giustizia, ma da clemenza del principe».

Il perdono venne solo più tardi. Scrive il Florino: «Ritornata a Napoli la famiglia dei Borboni, gli appose a gran delitto l0aver servito un governo rivoluzionario, ed egli fu privato di tutti i soldi ed onori. Dopo due anni di preghiere, di umiliazioni, di proteste di eterna fedeltà alla casa regnante, e dopo pubbliche testimonianze di sincero pentimento, Re Ferdinando, alle preghiere ed alle premure di tutta la Corte, lo perdonò, e Paisiello riebbe gli onori delle cariche coi rispettivi stipendi. Poco tempo dopo scorse, ed il primo console Napoleone Bonaparte lo fece dimandare al re di Napoli per affidargli l’ordinazione e la direzione della sua Cappella; Ferdinando IV diede l’ordine al Paisiello di recarsi a Parigi».[15]

Quanto scrive il Florimo — (perdono concesso dopo due anni e poco prima della chiamata a Parigi) — trova conferma nell’autobiografia che il Paisiello — con la data del 22 luglio 1811 — inviò all’amico Avellino: «Succeduta la rivoluzione nell’epoca del 1799 in Napoli, il Governo prese la forma di repubblica, dopocché la Corte abbandonò Napoli per andarsene in Sicilia; per cui da tal Governo repubblicano fu dichiarato Maestro di cappella della Nazione. Ritornato di nuovo il Governo Borbonico, se gli fece fare un processo per la carica occupata come Maestro di cappella della Nazione; e, fintantoché non si giustificò, gli furono puntati li soldi; infine dopo due anni giustificativi, ottenne di nuovo il suo impiego unitamente a’ suoi appuntamenti cogli attrassi. In seguito fu chiamato dal Primo Console Napoleone Bonaparte, ed il Governo gli emanò il dispaccio ordinandogli di partire e trasferirsi in Parigi alle sue disposizioni».[16]

Ma anche per il perdono — così come per la condanna — manca, almeno fino ad oggi, una documentazione. Dalla stessa testimonianza del Paisiello, or ora trascritta, apprendiamo che fu concesso in un arco di tempo che ha come termine ad quem la chiamata a Parigi.

Questa avvenne per il Della Corte nel settembre 1801; la stessa data viene accettata dal Faustini Fasini[17]; né l’uno né l’altro fanno riferimento al Diario del De Nicola — «Nel settembre 1801 dice il Diario citato…» — sulla fede del De Blasii, che riporta dallo stesso Diario: «21 settembre 1801. Il celebre maestro Paisiello…».[18]

In verità il De Nicola fece l’annotazione sotto la data del 21 dicembre 1801. «Il celebre maestro Paisiello è stato chiesto da Bonaparte a Parigi per la festa della Pace, e con dispaccio gli si è ordinato di partire. Egli si è scusato, ma sento abbia avuto altro dispaccio che subito parta. La Francia vuole il migliore che vi è in Europa in ogni genere».

E del resto lo stesso Faustini-Fasini rende nota la notizia data dalla «Gazzetta Universale» del 23 dicembre 1801: «Avendo S.A.R. il Principe Ereditario aderito alle premurose istanze di S.E. il Sgr. Ambasciatore di Francia, fatte in none del Primo Console Bonaparte, ha gentilmente accordato che il celebre M. di Cappella, addetto al Servizio di questa R. Corte, D. Giovanni Paisiello, vada a Parigi per comporvi le musiche destinate a far parte delle magnifiche Feste da celebrarsi per la Pace definitiva e generale, e con replicati ordini ha comandato che parta assolutamente, senz’ammettersi veruna scusa, e si trattenga nella Capitale della Francia per tutto quel tempo che sarà necessario a soddisfare la domanda del Primo Console della Nazione Francese. Si sta pertanto questo insigne Soggetto accingendo alla partenza».

Una prova indiretta ma valida che il perdono fu concesso a dicembre si desume dalla circostanza che il conseguenziale provvedimento per il pagamento degli attrassi di stipendio è del 6 gennaio 1802.

In merito il Faustini-Fasini così si esprime: «Che l’insigne Soggetto, ottenuta la debita licenza non solo senza essergli stato precisamente fissato un termine all’assenza accordata, ma mantenendo altresì le sue provisioni, siasi subito preparato per recarsi in Francia, ci è confermato dalla richiesta, ch’egli si affrettò a fare il 19 gennaio 1802, affinché l’attrasso dei suoi soldi che dal 1. Luglio 1799 ascendentino a circa doc. 2956 — (il Re in un Rescritto del giorno 6 dello stesso mese aveva ordinato che i pagamenti relativi agli arretrati si facciano nelle forme legittime ratizatamente in ogni settimana al suo procuratore Don Giovanni Ricciardi) — gli venisse invece pagato dalla R. Tesereria in ogni principio di mese, dovendo partire per Parigi».

Quanto trascritto in corsivo è stato desunto dal Faustini-Fasini dalla documentazione già esistente nell’Archivio di Stato di Napoli (Scrivania di Razione Estraordinaria, anno 1802, vol. I, pag. 235), ma il desiderio di una conoscenza completa di quanto citato frammentariamente rimane tale in quanto la Direzione del Grande Archivio di Napoli — che sentitamente ringrazio — mi ha comunicato che «le molteplici ricerche eseguite nelle varie serie dei fondi di Casa Reale superstiti [dalle distruzioni belliche] non hanno dato esito positivo».

Ho detto che l’arco di tempo nel quale fu concesso il perdono ha come termine ad quem la licenza al Nostro di recarsi a Parigi a servizio di Napoleone ancora Primo Console. Il termine a quo può essere stabilito tenendo presente il contenuto — inedito (e questo solo giustifica la presente nota) — di una mia scheda.

In questa scheda trovo trascritto quanto si legge nei Registri di rappresentanza e memoriali con le corrispondenze decretazioni dall’agosto 1799 al giugno 1802 conservati nell’Archivio di Ststo di Palermo (Reale Segreteria. Dispacci. volumi n. 1960 e n. 1963).

Rappresentanza: «Il Principe di Cassaro[19] per accordarsi a D. Giovanni Paisiello la reintegra al di lui soldo di Maestro di Cappella e compositore di Corte».

Risoluzione: «S. M. disapprova che li [sic] sia stato proposto di ristabilire Giovanni Paisiello all’impiego ed al soldo quando non si nega che avesse accettato Impiego e soldo dalla Repubblica. 30 agosto 1800».

Rappresentanza: «D. Giovanni Paisiello per essere reintegrato al godimento de’ sodi, assegnati come Maestro di Cappella e compositore di Corte».

Risoluzione: «Si stia al risoluto de’ 30 agosto 1800. 3 giugno 1801».

Quindi il 3 giugno 1801 Ferdinando era tutt’altro che ben disposto ad esaudire le istanze del Nostro. Si convinse o — fu convinto — a mutare pensiero dopo tale data e prima della fine di dicembre, ma, conoscendosi il carattere del sovrano, non è azzardata la ipotesi che il «perdono» — tramite il Principe Ereditario, luogotenente generale a Napoli[20] — fosse concesso proprio rendendo occasione dalla richiesta di Napoleone, felice il Re di allontanare il Paisiello da Napoli «per tutto quel tempo che sarà necessario a soddisfare la domanda del Primo Console».

Non voglio certo ignorare che il Faustini-Fasini annota: «Una lettera di Antonio Amodio Rezzonico al Nostro (vedi: G.B. Gagliardo, Onori funebri renduti alla memoria di Giovanni Paisiello. Napoli 1816) lascia supporre che il re Ferdinando a malincuore dette il suo consenso a tale viaggio, perché parlando con il cardinale Carafa di Belvedere, si sarebbe così espresso: «Vorrei che in Parigi Paisiello non incontrasse colla sua musica, accioché lo potessimo rivedere in Napoli sollecitamente»; frasea che il Carafa riferì al Rezzonico e questi al Nostro».

La lettera è del 15 dicembre 1802; si può prestare fede al cardinale Carafa e ritenere vere le parole del sovrano, ma questo non può annullare la fredda e cruda risoluzione del 3 giugno 1801, ma solo accertare un mutamento — col trascorrere del tempo — nell’animo di Ferdinando IV.

Comunque rsta sempre la speranza — anche se assai debole dopo la distruzione subita dal Grande Archivio di Napoli — di ritrovare quella documentazione che oggi, come già detto, manca.

CARLO D’ALESSIO


[1] GIUSEPPE DE BALSIIS, Un autografo di Giovanni Paisiello, in «Archivio storico per le provincie napoletane», a. IX, 1884, p. 305.

*Milano Giordano, 1963

[2] La pubblicazione avvenne nelle annate XXIV-XXXI (1899-1906): i fogli furono poi riuniti in tre volumi rispettivamente di pp IV + 542 + 2 n.n.; 4 n.n. + 832; n.n. + 335, con i relativi frontespizi, come constatato nell’esemplare in mio possesso. Non comprendo pertanto perché mai Paolo Ricci osservi (p. XXXVII) che i fogli furono «riuniti sotto un unico frontespizio».

[3] Il De Blasiis annota: «è il noto Inno alla libertà del cittadino Vincenzo Monti: “Il Tiranno è caduto sorgete. Gente oppressa, Natura respinta, ecc.”»

[4] Annota sempre il De Blasiis: «Nessuno dei biografi ricorda questa musica tra le moltissime composte da Paisiello. Appena entrate le armi del Re in Napoli egli aveva scritto una lettera al Marchese dei Vasto maggiordomo di Corte, inviandogli una relazione per giustificare la sua condotta» (è quella citata alla nota 1).

[5] Presso la biblioteca civica di Palermo sono state rintracciate le copie manoscritte di due composizioni sacre del Nostro — (il salmo Dixit Dominus, Domino meo, integrato da Gloria, in do maggiore a cinque voci, con strumenti ed organo ed un Magnificat per soli, coro, orchestra ed organo) — con l’ex libris manoscritto «Pertinet ad Conventum S. Dominici Panormi. Anno 1801»; pertanto o i Domenicani, per le necessità delle funzioni liturgiche da celebrarsi ella Chiesa del Convento, si procurarono dette copie oppure queste — come afferma Héliane DERÉGIS che ha avuto la fortuna di scoprirle (cfr. Giovanni Paisiello e la musica sacra del XVII secolo. “Dixit Dominus” nel manoscritto palermitano, in «Paiesiello», Bollettino edito dal Centro di studi paisielliani, n. 3, Taranto, gennaio 1964) — furono portate a Palermo «con ogni probabilità dalla Corte Borbonica quando nel 1809 [evidente refuso tipografico per il 1799] vi si trasferì in seguito ai sopravvenuti moti rivoluzionari di Napoli» e successivamente donate al Convento; in ambo le ipotesi è dimostrato come l’opera del Paisiello fosse apprezzata, anche nei momenti in cui il musicista fu in disgrazia.

[6] SE BLASIIS, Un autografo, cit.

[7] Fi poi pubblicata nuovamente da Andrea della CORTE, Paisiello, -Torino, Bocca, 1922, p. 105.

[8] Francesco Flòrimo, La scuola musicale di Napoli, vol. II, p. 269, nota 2.

[9] Benedetto CROCE, Il “ripurgo” ossia l’epurazione attuata dalla regina Carolina in Napoli nel1799 (Bari, Laterza, 1945). È la ristampa della prefazione al volume La riconquista del Regno di Napoli nel 1799 (Bari Laterza, 1943).

[10] Così nelle disposizioni emanate da Giovanni Acton, in esecuzione agli ordini del Re, il 24 luglio 1799. Cfr. Alfonso SANSONE, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie Nuovi documenti, Palermo 1901 (a cura della Società siciliana per la Storia Patria), doc. n. C., p. 89-91.

[11] Si veda, pqe quanto riguarda questa indagine, il Sansone, op. cit., p. CLXXIII.

[12] Il documento è pubblicato dal citato Sansone. Fu pubblicato anche da -Raffaele De Cesare, Cimarosa nella politica, in: Aversa a Domenico Cimarosa nel primo centenario della sua morte», p. 123, a p. 128 è riprodotta la musica dell’Inno patriottico scritto da Cimarosa per ordine della Repubblica.

[13] Op. cit., p. 124.

[14] Pietro COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, lib. V, cap. XV (vol. III, p. 145, ed. a. c. di N. Cortese).

[15] Op. cit., vol. II, p. 269.

[16] Nino CORTESE, Un’autobiografia inedita di Giovanni Paisiello, in: «La rassegna musicale», Torino, occa, a. III, n. 2, marzo1930. A LANCELLOTTI, Vite di musicisti, Roma, Palombi, 1957, p. 15, attribuisce erroneamente a Francesco Barberio la pubblicazione di tale autobiografia).

[17] E. FAUSTINI – FASINI, Paisiello a Parigi, in: «Taranto»,. Rassegna del Comune, VII, 1938, luglio-settembre, p. 3.

[18] De BLASII, Un autografo ecc., cit., p. 308 n. 3.

[19] Francesco Statella, principe di Cassaro, era il luogotenente generale e capitano generale del Regno, nominato il 21 ottobre 1799. Una vota partito il Cardinale Ruffo per partecipare al Conclave.

[20] Il Principe Ereditario si restituì da Palermo a Napoli il 31 gennaio 1801. Re Ferdinando ritornò a Napoli soli il 27 giugno 1802. Cfr. Diario del De Nicola.

a cura di Vincenzo Giannone

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