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UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL PRIMO  PENSIERO ANTIRIVOLUZIONARIO  NELLA PENISOLA ITALIANA (II)

Posted by on Mag 7, 2022

UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL PRIMO  PENSIERO ANTIRIVOLUZIONARIO  NELLA PENISOLA ITALIANA (II)

Sul Muzzarelli, per il suo ruolo e per i suoi scritti abbiamo voluto dilungarci un po’. Il conte Alfonso Muzzarelli , ormai sacerdote, nel 1787 divenne canonico della cattedrale di Ferrara e si impegnò nella polemica controvertistica, prendendo a modello di riferimento la figura di padre Francesco Antonio Zaccaria. Risultò uno dei più fecondi autori di scritti antirivoluzionari e di confutazione dei filosofi progressisti. 

Uno dei suoi primi obiettivi polemici fu la figura e l’opera di Jean-Jacques Rousseau. Nel 1782 pubblicò “L’Emilio disingannato. Dialoghi filosofici” al fine di confutare le idee pedagogiche del filosofo ginevrino, contenute nell’Emile, ou de l’éducation (1762). Il polemico pamphlet fu pubblicato nuovamente a Foligno nel 1792, a Roma nel 1816 e a Venezia nel 1827. Muzzarelli riflette sulla scristianizzazione delle masse, che avviene sotto i suoi occhi, e non riguarda più solamente il ceto intellettuale. Egli individua la causa dei mali che affliggono la società civile nell’azione nefasta dei ricchi che stanno diventando i “ladri dei poveri[1] Nel 1800, col ritorno nella penisola dei francesi, un suo confratello lo chiamò a Parma come direttore spirituale presso il ristabilito collegio dei Nobili, che il duca aveva nuovamente affidato ai gesuiti, in gran parte ritornati dalla Russia.  Dal 1804 al 1808 fu uno degli animatori dell’Accademia di Religione cattolica[2], mentre dal 1807 si trasferisce a Roma preso la chiesa del Gesù.  All’arrivo dei francesi a Roma, Muzzarelli  seguendo le direttive della Penitenzieria non fece il giuramento che il clero era tenuto a prestare al nuovo governo  e il 31 agosto 1799 fu messo agli arresti domiciliari .  Fu poi segregato nel carcere di Civitavecchia per poi essere trasferito in Francia.  Negli anni trascorsi in Francia continuò a servire la causa papale  scrivendo saggi  in chiave fortemente antigiurisdizionalista. Morì a Parigi il 25 maggio 1813.  

Nella  folta schiera di autori che manifestarono fedeltà all’autorità pontificia, si distinse  Gian Vincenzo Bolgeni (Bergamo1733 – Roma 1811), già membro della Compagnia di Gesù prima del suo scioglimento,  con una forte vis polemica  antigiansenista. Bolgeni era fermamente convinto che

“senza il concorso dei giansenisti non poteva mai riuscire una sì strana rivoluzione…. I Giansenisti sono stati nella fatal impresa più felici dei filosofi e dei calvinisti, perché han saputo essere più furbi di loro e più ippocriti”[3].

Si affianca alla polemica il gesuita Lorenzo Ignazio Thiulen (Gottemburg, 1746 – Bologna, 1833) con il saggio “Tutti han ragione, o sia alcune riflessioni sul libro intitolato Tutti han torto, Italia, 1793” che ebbe ben cinque edizioni. Thiulen  rimprovera a Saverio Scrofani, autore  di “Tutti han torto”, di aver suscitato equivoci interessi perché la difesa che i filosofi del suo tempo fanno del loro operato, nell’affermare di aver promosso le massime di libertà, uguaglianza, democrazia e al tempo stesso di non essere responsabili degli eccessi che ne son seguiti rassomiglia, scrive il Thiulen, a quella

“di chi ponesse nelle mani di un  pazzo un’arma micidiale, senza prevederne l’uso, che potrebbe farne: o essi non conobbero mai a fondo l’uomo, o per certo la loro mira era di minar ogni umana società, sotto sembianza di condur gli uomini  a felicità.  Dunque, o ignoranti, o maliziosi, o ciò, che forse si accosti più al vero, l’uno e l’altro insieme”[4].

Interviene un anonimo pensatore che attribuisce la causa della rovina nella società all’opera del fanatismo giacobino:

“Ma il Secolo XVIII nel declinare al suo termine , come nel suo principio dovea per comune disgrazia partorire alla Francia, non men che a tutta Europa nuovi Pensatori, nuovi Filosofi, nuovi Genj. Partorir dovea degli uomini, che distruggessero affatto la sua prosperità, che ne macchiasser la gloria, che ne avvilissero la grandezza con que’ mezzi istessi, con cui stoltamente si lusingarono di poter giungere a stabilirla. Questi uomini, cui la nuova Filosofia non impresse nell’anima alcun altro sentimento, che l’entusiasmo per l’indipendenza, che l’amore del libertinaggio, che l’odio della Religione, tanto errarono ne’  lor disegni, tanto pensarono male, e tanto lungi si avvolsero dalla prefissa meta, quanto della sana politica, dai religiosi principj e dalle massime si scostarono de’ virtuosi lor Avi”[5].

Della difficile epoca scaturita dalla Rivoluzione Francese, negli autori cattolici della penisola italiana che si vanno stringendo attorno alla difesa del primato papale, emerge contemporaneamente la difesa dell’istituto monarchico. Il canonico Luigi Martorelli (Osimo 1760 – Roma 1831) difende l’ordine monarchico richiamandosi alle Scritture. L’origine della monarchia deve essere ricercata nella autorità esercitata dal padre all’interno della famiglia fin dagli esordi dell’umanità. Nessuna altra istituzione politica vanta  una così longeva antichità. Scrive in proposito:

“Quando altro non fosse che la somiglianza dell’autorità monarchica colla autorità paterna stabilita dalla natura, questa sola dovrebbe bastare a que’ filosofi, che tutto dalla natura vogliono apprendere, per far loro preferire la monarchia a qualunque altra forma di governo”[6].

Lunghe pagine dell’opera del canonico della Basilica vaticana di Luigi Martorelli esprimono la sua fedeltà nella monarchia e nel ruolo del Sovrano, la cui inaccessibilità ne ingrandisce la persona ed il ruolo:

“Il monarca vive separato dal popolo; il cerimoniale nasconde agli occhi volgari la sua vita privata e non lascia penetrare se non che i tratti di beneficenza e di giustizia che ne ingrandiscono l’idea”[7].

Martorelli è compiaciuto anche dall’estetica dell’istituzione:

“la virtù della monarchia attrae anche per la sua intrinseca bellezza”[8].

Ed ancora, il Sovrano non appare in pubblico

“se non circondato d una magnificenza capace di fissarne gli sguardi. Anche i grandi piegano davanti a lui le ginocchia”[9].

E questa etichetta

“serve mirabilmente per persuadere il popolo ch’esso è una persona sagra”[10].

Infine, la superiorità filosofica e politica della Monarchia risiede nella estraneità all’interesse personale del Re. Perciò, l’autore rifiuta l’origine contrattuale del potere.

Altri scrittori politici si spingono a ritroso nella storia per identificare il punto di partenza della frattura avvenuta nella Cristianità e la identificano nella riforma Luterana. Il tema era stato ampiamente trattato da Louis de Bonald (Millau 1754 – Millau 1840)  che aveva anticipato il giudizio della connessione tra la divisione operata dalla Riforma nella società religiosa europea e il disordine originato in quella  politica[11]. Cattolico e monarchico, fu definito la “grande voce” dei legittimisti. Nei suoi scritti attaccò con veemenza la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, il “Contratto sociale” di Rousseau e le innovazioni ideologiche della Rivoluzione Francese. La sua prima opera fu la “Teoria del potere politico e religioso” stampata nel 1796 a Costanza. Qui de Bonald paragona l’edificio sociale ad un arco. La volta è costituita dal trono, le parti vicine alla volta dal clero e dalla nobiltà, quelle inferiori e lontane del popolo, quelle mediane dalle seconde classi della società. Se le parti inferiori sopportano le parti superiori, queste a loro volta coprono le inferiori ed assicurano la loro stabilità con la loro pressione. La società è un ponte elevato sul fiume delle passioni umane sul quale bisogna che l’uomo passi per arrivare all’eternità. Il tradizionalismo politico della penisola italica guardò al pensiero di de Bonald con grande attenzione e lo fece conoscere al nostro pubblico traducendo le opere. Gioacchino Ventura tradusse nel nostro idioma la sua opera “La legislazione primitiva del chiarissimo sig. Visconte de Bonald[12] ed il giornale piemontese l’Amico d’Italia amplificò queste idee.  

Un autore che ebbe numerose contestazioni per il linguaggio utilizzato che portava a false interpretazioni fu l’abate Nicola Spedalieri (Bronte 1740 – Roma 1795), soprattutto là dove scrive sui diritti dell’uomo.  Solo ad una lettura attenta ed approfondita dell’opera dello Spedalieri si accerta il rifiuto di una ipotesi contrattualistica come elemento del passaggio dell’uomo dallo stato originario di natura a quello sociale. Vittorio Emanuele Giuntella, che ha dedicato una ancora oggi valida antologia agli scrittori politici italiani tra fine Settecento ed inizio Ottocento, riporta le seguenti frasi dello Spedalieri che appaiono nell’edizione siciliana del 1848 della sua opera primaria e che chiariscono inequivocabilmente le posizioni del tradizionalismo politico del nostro abate:

“1. Riconoscere, anzi dimostrare i principi fondamentali del diritto naturale, da cui fluiscono per legittima conseguenza le leggi naturali deducendoli dall’analisi dell’uomo prevalendosi in questa operazione di quanto vi aveva di vero ne’ pensamenti de’ novatori; 2. Difendere la divinità dell’Evangelio; 3. Riconciliare i principj dimostrati dal diritto naturale cogli evangelici”[13].

Interviene a sostegno delle tesi tradizionaliste il sacerdote Giovanni Marchetti (Empoli 1753 – Empoli 1829) per il quale la rivoluzione ha dimostrato netta

“la divisione accurata in due classi di tutta la società clero e buoni cristiani, perseguitati e attaccati al governo legittimo, fino alla perdita d’ogni cosa; libertini, miscredenti, regalisti, ministri adulatori, giansenisti, persecutori e carnefici de’ loro sovrani”[14].

Fu definito il martello del giansenismo ed infatti la sua polemica contro il Tamburini, professore  dell’Università a Pavia, non conobbe tregua. La difesa del primato del pontefice fu aperta e considerata una unica difesa con la salvaguardia della cristianità.

Rafforza la nutrita schiera di pensatori tradizionalisti il cappuccino Adeodato Turchi (Parma 1724 – Parma 1803). Fu ritenuto un grande oratore. A Parma fondò una libreria che implementò costantemente. Divenne predicatore alla corte del Ducato di Parma e il duca Ferdinando I lo nominò nel 1778 predicatore perpetuo di Corte e precettore del principe ereditario Ludovico. Nel 1788 divenne vescovo di Parma. Per sintetizzare il suo pensiero basta ricordare quanto  affermava:

“Il nostro secolo in sé solo adunò gli errori di tutti gli altri e ve ne aggiunse i propri”[15].  

Nelle contrade italiane circola la traduzione dell’opera di Chateaubriand (Saint – Malo 1768 – Parigi 1848) il quale non vede nelle rivoluzioni un semplice cambiamento politico, come era opinione dei superficiali, ma un cambiamento radicale della società. Seguiamo il suo ragionamento:

“Sarebbe impossibile entrare nel dettaglio della filosofia degli Enciclopedisti: sono per lo più già dimenticati, e d loro resta solo la Rivoluzione francese. E non è più facile trattare dei loro libri; in essi non hanno esposto sistemi completi. Vediamo solo, da diverse opere di Diderot, che egli ammetteva il puro ateismo, senza fornirne che cattive ragioni. Voltaire non capiva niente di metafisica :  ride, scrive bei versi e distilla l’immoralità.   Quelli che sono ancora più vicini a noi non sono più forti nel ragionamento. Helvétius ha scritto libri per bambini, pieni di sofismi che il più piccolo scolaretto di collegio potrebbe con future. Evito di parlare di Condillac e di Mably, non dico nulla di Jean-Jacques e di Montesquieu, due uomini di una tempra superiore agli Enciclopedisti. Quale fu dunque lo spirito di questa setta? La distruzione. Distruggere, ecco il loro scopo; distruggere, il loro argomento. Che cosa volevano mettere al posto dell’esistente? Niente. Era una rabbia contro le istituzioni del loro paese che per la verità non erano eccellenti; ma insomma chiunque rovescia deve rimettere in piedi, ed è la cosa difficile, la cosa che deve metterci in guardia contro le innovazioni. E’ un effetto della nostra debolezza che le verità negative siano alla portata di tutti mentre le ragioni positive si rivelino solo ai grandi uomini. Uno stupido vi dirà facilmente una buona ragione contro, quasi mai una buona ragione pro”[16].

Ci avviamo verso le conclusioni di questo vagabondaggio intellettuale attraverso il pensiero antirivoluzionario a cui attinsero i pensatori cattolici della penisola italica e lo facciamo prendendo in esame la figura dell’acceso polemista antirivoluzionario e politico bernese: Karl Ludwig von Haller (Berna, 1768 – Soletta, 1854), ampiamente noto in Italia quando era ancora vivente. Haller è un attento osservatore di quanto accade in Spagna in seguito all’occupazione napoleonica, quando, con il pretesto di convocare le Cortes alcuni cittadini costituirono una giunta centrale (Siviglia 1808), dopo la vittoria riportata sul generale Dupont. Scrive il bernese:

“I Re, o i Principi stessi che n’erano i fondatori, tenevano per un onore, e stimavano opportuno il dotarle di alcune libertà, il concedere loro i proprj regolamenti, l’elezione dei proposti, l’amministrazione dei loro beni ecc., persuasi, ch’eglino s’intendevano molto meglio di tutto ciò, e che vi s’interessavano, più del Padrone medesimo, o d’un impiegato estraneo. Questa libertà legittima era la madre dell’amor di patria, che si estendeva primieramente alle cose più vicine; ella generava molte belle azioni e magnanimi sforzj, a lei si doveva quanto ha d’istituzioni eccellenti, e la prosperità di tante Città e Comunità”[17].

Per poi concludere: “Ma onorate ancora in tutte le relazioni mondane l’ordine naturale, e la naturale subordinazione; collegate gli uomini per mezzo della differente loro capacità, e per mezzo delle beneficenze scambievoli. Radunate a voi d’intorno i primi, ed i più potenti del paese, per  ascoltare i loro consigli e le loro brame, per ottenere la loro cooperazione a certe importanti misure.


[1] A. Muzzarelli, Delle cause dei mali presenti e del timore dei mali futuri e suoi rimedi. Avvis al popolo cristiano. Pei tipi di Giovanni Tomassini, Foligno, 1792, pag. 164

[2] L’Accademia di Religione Cattolica fu fondata nel 1801 da Monsignor Zamboni per combattere gli errori del tempo. Il ruolo che l’Accademia si prefisse consisteva in una sorta di Contro-Enciclopedia dal carattere chiaramente tradizionalista. Vi presero parte oltre al Muzzarelli ed al fondatore Zamboni importanti figure come Mauro Cappellari, l’ex gesuita spagnolo Juan Andrés, Charles Sauvage (autore del celebre saggio La realité du projet de Bourg Fontaine). Essa durò fino al 1934 quando fu incorporata nell’Accademia San Tommaso d’Aquino. 

[3] G. V. Bolgeni, Problema se i giansenisti siano giacobini proposto da G. V. B. al pubblico da risolversi in risposta alle Lettere teologico-politiche sulla presente situazione delle cose ecclessiastiche, Roma, Luigi Perego Salvioni, 1794, pag. 153

[4] Thiulen, Tutti han ragione,  o sia Alcune riflessioni sul libro intitolato Tutti han torto, Italia, 1793, pagg. 14-15

[5] Pensieri di un solitario cattolico sopra la rivoluzione di Francia dell’’anno 1789, In Cosmopoli, s. e., [1791], pagg. 106 – 107

[6] Della Monarchia. Trattato filosofico – politico in cui si dimostra ch’essa è la forma la più utile all’umana società, in Roma, nella stamperia di Paolo Giunchi, 1794, pag. 107

[7] L. Martorelli, Della Monarchia. Trattato filosofico – politico in cui si dimostra ch’essa è la forma la più utile all’umana società, In Roma, nella stamperia di Paolo Giunchi, 1794, pag. 143

[8] Ibidem, pag. 120

[9] Ibidem, pag. 142

[10] Ibidem

[11] V. E. Giuntella, op. cit., pag. XXVII

[12] Traduzione dal francese corredata da  un saggio sulla vita e le opere di questo autore, e di annotazioni dal P. D. Gioacchino Ventura teatino, Napoli, preso Domenico Sangiacomo, pagg. 409, 1823

[13] N. Spedalieri, Dei diritti dell’uomo, in Giuntella, op. cit., pag. XXX

[14] G. Marchetti, Riflessioni sulla Rivoluzione di Francia in forma di una lettera, che a principio dovea essere indirizzata ad un giovane parigino, del Signor Edmondo Burke, compendiate e per ciò che risguarda le materie ecclesiastiche, volgarizzate distesamente da un Giornalista Romano, Roma, 1791, pag. 189

[15] A. Turchi, Omelie, orazioni funebri, lettere, pastorali, editti ed indulti, Venezia, Editori Foresti e Bettinelli, 1820, pag. II, p. 4

[16] F. – R.  Chateaubriand, Saggio sulle rivoluzioni, Milano, Medusa, 2006, pagg.276 – 277

[17] K. L. von Haller, Sulla costituzione spagnuola, In Modena e in Bologna, per Luigi Gamberini e Gaspare Parmeggiani stampatori Arcivecovili, 1821,   pagg. 62 – 63

Francesco Maurizo Di Giovine

continua………

2 Comments

  1. Un tema come qui leggiamo infinito da affrontare, da quando la questione religiosa e il potere politico sono stati messi a confronto dalla rivoluzione francese in poi… credo che abbia dato origine ad una letteratura prevalente che continuera’ peraltro a riempire biblioteche…Complimento all’autore dell’articolo, peraltro ricercatore indefesso, che si adopera con passione ad affrontarlo!
    caterina ossi

  2. Oltre a questa tradizione antirivoluzionaria cattolica, nel Regno delle Due Sicilie si è sviluppata una grande corrente riformista cattolica che ha avuto inizio da Giambattista Vico (vedi mio libro Vico Pop. La Scienza Nuova della politica, Marotta & Cafiero, 2019). Allievo di Vico è stato Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Cardinale Fabrizio Ruffo, Carlo Afan de Rivera, Pietro Callà Ulloa e altri. Per non parlare del siciliano Francesco Paolo di Blasi che comincia come riformista e collabora con i viceré Caracciolo e Caramanico, nella stagione riformista e illuminista durata 15 anni, e ostacolata da questa corrente antirivoluzionaria, ma prima anti-illuminista. Di Blasi, per disperazione, si trasforma in giacobino e viene giustiziato nel 1795 (stupenda la descrizione della trasformazione di Di Blasi nel romanzo Il consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia). Più resiliente Afan de rivera, per fortuna, il quale ha fatto lavorare l’ing. Luigi Giura, malgrado abbia fatto il direttore generale del Corpo di Ponti e Strade, etc. sotto il presidente del consiglio Giuseppe Ceva Grimaldi Pisanelli, marchese di Pietracatella, molto vicino a questi autore. Del marchese di Pietracatella si ricorda che nei suoi scritti, spesso, ha usato “espressioni impietose verso i gruppi sociali più sfortunati e contrarietà agli interventi dello Stato a favore della collettività in tema di lavori pubblici”. Una iattura gli antirivoluzionari cattolici duosiciliani per tutto il periodo borbonico: si sono opposti decisamente alla soluzione del problema delle usurpazioni dei territori demaniali e comunali che, per legge, dovevano essere messi a disposizione dei lavoratori senza terra.

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