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IL 1799 Ideali ed eventi nel Salernitano (VIII) intervento di Giuseppe Pianelli

Posted by on Lug 11, 2022

IL 1799 Ideali ed eventi nel Salernitano (VIII) intervento di Giuseppe Pianelli

LA REPUBBLICA NAPOLETANA: MITO ED EPOPEA

Considerata l’atmosfera familiare di questo convegno gradirete un modo di parlare familiare. E così familiarmente, per parlare della repubblica napoletana e della storia in genere del meridione d’Italia, è d’obbligo un immediato ribaltamento di idee.

Quando ad un meridionale fecero la battuta “Cristo si è fermato ad Eboli”, ormai diventata leggendaria, egli rispose: “Sì, però secondo me veniva da Reggio Calabria”. Ciò la dice lunga sulla mentalità secondo cui tutto ciò che è del Sud viene visto come un qualcosa di corrotto, retrogrado, privo di cittadinanza nella storia più generale d’Italia, in un momento storico in cui la storia più generale l’Italia sta per essere velocemente inghiottita, ma non metabolizzata, da una realtà ancora più generale che oggi chiamiamo globaliz­zazione. È chiaro che l’opinione pubblica guarda sconcertata una globalizzazione guidata nei suoi movimenti storici da una potenza la prima del mondo, la quale arbitrariamente, qualsiasi cosa se ne pensi, guida una azione impe­riale, di poliziotto del mondo. Questo movimento globaliz­zatore, evidentemente, non ha termine, è ineluttabile. Sicuramente andrà avanti: è il movimento normale della storia degli uomini. Dostojevsky scriveva che l’unione di tutti i popoli in un’unica storia è stata sempre perseguita dai Papi, da Roma. L’unità che è stata fatta in Italia, diceva Dostojevsky, ha sostituito questo spirito generale con un’unione nazionale di seconda classe. Un grandissimo statista, Cavour, ha fatto un’unione nazionale che però ha degli obiettivi così poveri, così minuscoli rispetto a quello che era il grande disegno unificatore dei Papi e di Roma. E di fatti, l’Italia, subito dopo la sua unità, o almeno quando è cominciato il processo unitario, ha perso la sua centralità. Manzoni è l’ultima delle persone che rappresentano una cultura italiana di tipo universale, ecumenico. Ma dov’è più la pittura italiana, la musica italiana, l’architettura italiana, lo spirito italiano? Finanche fra gli illuministi francesi al tra­ passo del secolo era importantissimo quello che pensavano les italièns. È finito tutto, perché è cominciato tutto male, da quello che ancora oggi viene riconosciuto sia a destra che a sinistra come il primo movimento di un processo unitario che avrebbe dovuto sfociare in una globalizzazione veramente vasta, universale ed ecumenica. Invece è stata quasi una macchietta come è finito tutto ciò che è napoletano. Oggi dire napoletano, nome di un popolo, di una nazione, significa dire qualcosa di deteriore, di piccolo. Sì, ai napo­letani si concede tutto, finanche ‘o core napulitano, purché sia sottomesso e straccione come nelle commedie di Eduardo De Filippo, purché sia pazziariello come nelle sce­nette di Totò, purché sia osceno e verminoso come nelle infami allegorie di Malaparte. Di Napoli capitale europea, e capitale di un popolo di grandezza europea e mediterranea, non è rimasta, come dice un cantautore, che ‘na carta sporca.

Ma ci siamo coinvolti tutti e chissà per quanto tempo an­ cora. Coinvolti noi napoletani, intendo popolo della nazione napoletana, e tutta l’Italia che non si può giovare della for­midabile ricchezza che il popolo napoletano, intendo sempre tutta la nazione del sud, ha con sé. In fin dei conti, alla fine, al resto dell’Italia non è rimasto altro che il gruzzolo di quella rapina risorgimentale, cioè le casse depredate del regno di Napoli, le industrie chiuse e trasferite, roba da ladri di polli, mentre c’è un patrimonio di cui si sarebbero potuti giovare se fossero stati veramente di uno spirito più aperto e più largo. In Italia c’era una nazione napoletana, ma non c’era una nazione italiana. C’era una Koinè italiana, con un significato molto più largo e più vasto, anche più bello se vogliamo, ma non certo una nazione italiana. Nazione italiana ha un significato postrivoluzionario, napoleonico, ma non ha una semantica in sé. C’era una nazione napoletana, di cui la Kainè italiana e il futuro sviluppo di un’unione statuale non ha saputo approfittare perché si è agito da ladri di polli. Perché le idee venivano pilotate dall’estero, perché le idee si rifacevano a processi di globalizzazione, anche a quel tempo, come quelli in atto adesso, perché c’era una superpotenza che si ergeva in virtù della sua potenza economica a poliziotto del mondo, l’impero britannico, perché c’erano interessi di staterelli che erano stati grandi potenze e che ora si dovevano barcamenare. La Francia aveva solamente questa patacca ormai sbiadita di questa sua rivoluzione dei diritti dell’uomo che erano stati inglobati oramai in uno sviluppo che era molto più grande della pax britannica, e altre potenze che guardavano da lontano come sarebbero andate le cose.

La repubblica napoletana fu un’epopea per coloro che stavano dall’altra parte della repubblica napoletana. Del resto è stato un mito che non ha avuto riscontro nella realtà. La repubblica napoletana, con il risorgimento e tutto quel che è successo, ha avuto la miopia di non considerare quello che è sempre stato il motore della nazione napole­tane, della Koinè italiana, delle radici europee: lo spirito cristiano e cattolico. Quando Benedetto Croce diceva e dichiarava che non possiamo non definirci cristiani, diceva una grande verità, ma la diceva come l’asina di Balaam: profetava senza neanche sapere quel che diceva. Il principio religioso è molto più grande ed esteso di come lui l’aveva pensato. La cultura per Croce era un fatto circoscritto al co­siddetto mondo culturale, ad un mondo di addetti ai lavori, ad un mondo di élite.

Non possiamo non dirci cristiani, perché non è com­prensibile né la nascita dell’Europa della cristianità, della Santa Romana Repubblica, senza capire come su uno spi­rito cristiano, che era uno spirito volatile e concretezza assoluta di modelli di politiche, di socialità, di solidarietà di si­stemi. Non si può capire, non si può fare nulla e non ab­biamo futuro se continuano a fare stati i quali presumono di reggersi su un diritto positivo, su delle concezioni econo­mico-politiche, su delle concezioni di forza. Tutto è rias­sumibile, tutto è salvabile, finanche il capitalismo, anche quello più esasperato, purché ricordiamo da dove siamo partiti.

La nazione napoletana nacque su dei criteri chiari e perfetti. Per questo fu l’unica nazione italiana. Durò ben 700 anni. Non c’è un altro esempio in Italia. Fu l’unica nazione italiana che ebbe un’unitarietà fortissima, radicatissima nel popolo. Il popolo conosceva questa. radicalità ed era pronto anche a passare sui difetti dei re e degli amministratori purché fosse salva l’unitarietà della nazione. E questo successe con la repubblica napoletana. Rivoluzione che non ci fu. Ma non ci fu neanche una rivoluzione passiva come dice Cuoco. Ci fu una controrivoluzione. II popolo fece una rivoluzione contro coloro che volevano imporgli un governo che il popolo non condivideva. Nella nazione napoletana ci furono rivolte, non ci furono rivoluzioni passive, e diremo che non ci fu neanche una repubblica napoletana, se la repubblica napoletana fu un direttorio che cambiò continuamente i suoi membri, che non poteva fare nessun editto che non fosse controfirmato dal generale capo delle truppe di occupazione francesi, che non riuscì mai ad emanare la sua Costituzione, che non riuscì a far ricevere la sua deputazione dal direttorio francese, padre di tutti i direttori e di tutte le rivoluzioni, che non riuscì a concludere neanche una resa onorevole. Questa è la repubblica napoletana, i cui membri, travestiti da francesi, dovettero scappare, smasche­rati dagli stessi francesi che li avevano coperti fino ad allora.

Quali editti abbiamo della repubblica napoletana? Degli editti che sono di un ridicolo e di un grottesco! Pensate, uno dei primi editti fu quello secondo cui, bisognava vestire tutti i membri dell’arcontato, questo era il nome del direttorio, con una uniforme regolamentare, che era quanto di più grottesco e ridicolo si potesse pensare. Pennacchi sulla testa, secondo una liturgia dell’epoca già sperimentata ai tempi della rivoluzione francese. Ai tempi della rivoluzione francese, a Parigi c’erano les encroyables, così li chiama vano, questi personaggi che dimostravano con il vestire la loro fede repubblicana. A Napoli editti su come portare la coccarda dai colori giallo, nero e rosso sul cappello, perché i popolani la capovolgevano per farne una coccarda borbo­nica. Ecco il grande editto per cui i colori dovevano essere invertiti, in modo che capovolgendola non diventasse una coccarda borbonica! Questi sono gli editti che ritroviamo in tutto ciò che è stato raccolto e tramandato fino a noi. Gli editti di Aurelio Salfi, che predicava bucoliche quanto utopiche comunità di contadini che avrebbero dovuto cantare al sorgere del sole. C’era di tutto fra quelle persone che costi­tuivano l’arcontato napoletano. Gli editti napoletani sono a volte allarmanti. Fra gli editti c’è quello secondo cui non ci si può più chiamare Ferdinando: si vietava questo nome, si vietava di battezzare un figlio con questo nome, e coloro che si chiamavano Ferdinando dovevano cambiare nome.

Anche le strade di Napoli devono cambiare nome. Non ci saranno più strade dedicate ai re ma le strade verranno intitolate alla primavera, alla speranza, alla mietitura. Cambia il calendario secondo nomi che i napoletani non co­noscono, cambia il rito del matrimonio, fatto intorno all’ al­bero della libertà, cambia la settimana, che diventa di dieci giorni, cambiano i nomi dei giorni della settimana, e se vogliamo la repubblica napoletana è questo. Poi c’è, se vogliamo, il gran-guignolesco. Perché la repubblica napole­tana, pur di patrioti e di eroi, è fatta in buona parte da gente estera o forestiera, che ha preso già una nuova nazionalità. Alcuni hanno già preso la nazionalità francese e sono ritor­nati con le truppe dei francesi. Fra i membri del direttorio c’è la Fonseca Pimentel, la quale è portoghese di nazionalità e morendo sul patibolo chiederà di essere decapitata, more nobilium. Non sarà accontentata, perché non è una nobile napoletana, e verrà impiccata. Ma ci sono editti ben più gravi di quelli che ci fanno sorridere, ci sono gli editti di esecuzione capitale. 1563 ne sono arrivati fino a noi, di processi giudiziari con pena di morte. Non sono combattimenti. Non sono scontri fra truppe. 1563 persone giusti­ziate con un regolare processo della repubblica napoletana. 1563 in meno di cinque mesi, significa dieci vittime al giorno. E cosa sono allora, noi ce ne doliamo, i 97 martiri della repubblica napoletana? La proporzione è di uno a se­ dici. E i martiri della repubblica napoletana vengono giustiziati secondo un regolare processo, per un delitto che al tempo richiede la morte, quello di lesa maestà. Per di più i patrioti martiri napoletani assommavano a questo delitto anche quelli di alto tradimento, di rapina, di cessione al ne­mico di beni.

L’esercito francese di occupazione, pretese a Napoli un milione di ducati di risarcimento delle spese di guerra, in tutto il regno altri quindici milioni di ducati. Ma a Napoli, centro del regno furono vuotati ben cinque monti di pietà. Tutti i banchi napoletani furono portati via: patrimoni d’arte per circa la metà del patrimonio culturale del regno di Napoli. Non sono mai più tornati indietro. Fra il popolo si sapeva, si vedevano i carri francesi portare via le apparec­chiature dell’Istituto Topografico, i volumi delia biblioteca Pontaniana, i pezzi archeologici di Ercolano e Pompei. Napoli fu spogliata in nome della libertà. Non per niente i lazzari napoletani, finita la rivoluzione, cantavano “sono ar­rivati i francesi, ci hanno portato la  libertà…,  ci hanno rubato, ci hanno ben ripulito”.

Voce di popolo. Ma questo popolo avrebbe dovuto essere educato da chi? Dalla De Fonseca Pimentel? Ma la De Fonseca Pimentel, dolendoci della sua immatura morte, era una intellettuale. Una intellettuale neanche di grande valore. Purtroppo, i suoi sonetti, che una volta incensavano il re fino a chiamarlo Numa redivivo, si vede che sono di ben scarso valore. Oggi non sarebbero ospitati neanche da un giornaletto parrocchiale. Questa gente, Salfi, il duca Serra di Cassano, un enfant gatè di 28 anni, che non era mai uscito dal suo palazzo, le sue riunioni rivoluzionarie si tenevano nei caffè, a teatro, nei salotti dorati di Napoli. E questo era il Direttorio napoletano che doveva educare il popolo! Un popolo che nella sua storia di settecento anni, aveva educato il Re. Un popolo che aveva educato il Re, e che per questo lo amava, perché era un suo prodotto. Nessuno potrà capire la storia napoletana se non capirà il perché di questa simbiosi fra popolo e monarchia.

Dice: “ma i Re napoletani erano vigliacchi, scappavano di fronte.” Ebbene il popolo non si aspettava dal re un simbolo, si aspettava una persona con cui condividere il destino. E i re napoletani, comunque, sono re che hanno condiviso fino in fondo il destino del popolo, nel bene e nel male.

Noi siamo di fronte ad una storia del meridione che è in buona parte anti1neridionale e antiborbonica. Signori, come faremo a fare una storia nostra se questa storia sarà sempre antimeridionale e antiborbonica? Non esiste, non c’è un pa­ragone in nessuna parte del mondo. Non c’è uno stato, una nazione che non abbia una storia revisionistica che vede i pro e i contro. Ma è possibile che la nostra storia sia tutta contro? È possibile che questi Borbone fossero dei tali mostri da non avere più nulla da ricordare? Dei mostri, delle mostruosità. L’Enciclopedia Italiana, quando parla di Carlo III di Borbone ne ammette il valore. Per voce di Michelangelo Schipa, ne fa una vera apologia. Quest’uomo, dice Schipa nell’Enciclopedia Italiana, fu un grande rifor­mista, un re illuminato, un uomo amante del suo popolo, dell’arte, della bellezza. Restaurò lo stato, vi profuse le ric­chezze, riportò Napoli ad un livello come nessun altra capi­ tale europea aveva mai conosciuto. Privatamente era un uomo virtuosissimo, religioso senza essere bigotto, amante della famiglia, amante del suo popolo. Dopo questo quadro meraviglioso dice che però dobbiamo considerarlo nell’in­sieme di una dinastia volgare e plebea. Scusate, ma dinastia e plebea è un controsenso già di per sé. Questi venivano dalla più antica famiglia reale di Europa.  I Capetingi avevano Papi, cardinali, Santi nella loro famiglia. Dice che, nonostante tutto, Carlo III non si sollevò dalla mediocrità. E che doveva fare, camminare sull’acqua? Un uomo che è de scritto come uno dei re più illuminati d’Europa, però non si sollevò dalla mediocrità. Signori, è un modo, veramente, di fare la storia vergognoso. Vergognoso e che ci coinvolge tutti.

È ancora più doloroso che la maggior parte della storia napoletana sia stata fatta da meridionali. Fu proprio nella sua terra che Gesù non fu riconosciuto, furono gli uomini del suo popolo che lo misero in croce. Per trovare una sto­ ria di Napoli che non sia un continuo calunniare, un conti­nuo infamare, bisogna risalire ad un inglese a Sir Harold Acton, il quale ha scritto sì una storia un po’ cicisbea, un po’ pettegola, pescando soprattutto nei libri e nelle corri­spondenze dei diplomatici, che certo non dicevano tutto il vero, ma quello che volevano far apparire, ma nonostante questo fa apparire la grandezza, la bellezza, il cuore, l’u­manità di questo popolo, di questo regno, e di questa dinastia. Un romanziere attuale, il Campolieti, ha fatto una biografia di Ferdinando IV, mettendovi tutto. Tutto quel che si dice. Eppure a un certo momento egli stesso si domanda come è possibile che quest’uomo facesse questo e quello, essendo allo stesso tempo un lazzarone e un grande uomo, un uomo religioso e un fedifrago. Com’ è possibile? C’è qualcosa che non funziona. Sì, signori, c’è qualcosa che non funziona: il nostro complesso di inferiorità di meridionali oramai arrivato non so più dove.

Questo popolo ha assorbito per settecento anni Goti, Longobardi, Saraceni, Ebrei, Catalani, Slavi, di tutto. Tutti sono venuti qui e sono diventati meridionali, e null’altro hanno voluto essere se non meridionali. Guardate i nostri nomi, i nostri cognomi, le nostre complessioni: siamo il primo stato multirazziale, multireligioso, multietnico, multiculturale. Quello che Ruggero II il normanno riuscì a met­tere insieme per plebiscito, quello sì un vero plebiscito delle genti meridionali, fu quello che diremmo uno stato moderno e uno stato costituzionale, perché partì ben cento anni prima della Magna Carta inglese tanto celebrata, con una sua costi­tuzione, le assise di Ariano. La sua storia è stata sempre storia d’arte, di cultura, una storia che non ha considerato neanche la misoginia, perché abbiamo avuto anche regine.

Adesso qualche epigona fuori tempo di Edmondo De Amicis, scrive che il regno di Napoli fu misogino e che l’e­secuzione della Pimentel e della Sanfelice fu un atto di ma­schilismo. Suvvia! Siamo un popolo dove la donna ha sempre avuto un posto di responsabilità, di direttive, di re­gina e dove comunque essa è onorata come penso altrove non accada. Ma questo popolo che era sempre riuscito a captare le energie più belle e feconde di tutta l’Europa, e del bacino mediterraneo, respinse ciò che non veniva dalle sue radici cristiane. Respinse i Francesi, respinse la Repubblica napoletana, respinse alla fine l’invasione del Re di Sardegna, non d’Italia, il quale, non a caso diventato Re d’Italia, preferì rimanere Vittorio Emanuele II. Una guerra di invasione dalla quale non si salvarono nemmeno le pentole della reggia di Caserta. Questa storia è celata, questa storia è pervertita. Dopo l’unità ci furono ben venti anni di guerriglia, quella che chiamano brigantaggio, in realtà una resistenza all’invasione di gente che non capiva nemmeno la nostra lingua, e in aggiunta non aveva alcun desiderio come gli altri antichi invasori di fermarsi e mescolarsi fra noi. Era gente che veniva e andava via, che ci considerava cafoni, beduini, mafiosi. Dei presunti liberatori noi conoscemmo solo gli editti dei generali con la erre francese, che non co­noscevano neanche l’italiano, conoscemmo le ordinanze dei prefetti, conoscemmo le manette dei carabinieri.

Signori, c’era un tempo che venivano nelle nostre terre i viaggiatori e dicevano dei nostri padri: “che gente buona, allegra, felice”. La nostra gente cantava. Siamo la patria della musica e del canto. Le nostre donne indossavano ve­stiti sgargianti e avevano collanine di corallo. Oggi i nostri uomini sono torvi e sospettosi nei paesi desolati. Le nostre donne, da oltre un secolo, vestono di nero.

Nel 1861, appena completata l’invasione piemontese, comandata a sua volta da una superpotenza massonica e an­ticristiana, cominciarono a partire da Napoli e Palermo gli emigranti. Un secolo prima, Ferdinando IV di Borbone al cognato granduca di Toscana che gli magnificava i progressi del suo Stato, dice: “sì, però di Toscani se ne trovano in giro in tutta Italia, di napoletani guarda caso non ne vanno in giro. Si vede che son felici a casa loro”. Bene, nel 1861 partirono i primi 1800 emigranti, l’anno dopo erano 2700, l’anno dopo 10.000 e così via. A quel tempo l’Italia meridionale aveva 12 milioni di abitanti. Oggi gli emigranti meridionali nel mondo sono 20 milioni. È una nazione. Una nazione che se ne impipa delle teorie sociologiche, delle teorie politiche delle sorti felici e progressive, delle sorti unitarie, della nuova religione dove sacrari sono quelli dei caduti, altari sono quelli della patria, templi sono quelli dello stato. In effetti di sacro ci rimane solo la sacra corona unita. Tutto sacrale.

All’estero 20 milioni di napoletani ancora a dispetto di tutto quello che si dice, si riconoscono. Non sanno nemmeno da dove vengono, non sanno più neanche perché non cantano più. “Partono i bastimenti, cantano a bordo sono napoletani”. Oggi non cantano più e non sanno neanche il perché. Non conoscono la storia, se non quella storia con­traffatta da libro Cuore, dalle tavole di Beltrame sulla “Domenica del Corriere”, dai libri strappacore di Maria Antonietta Macciocchi, da una storia contraffatta fin sui libri di testo. Una storia alla Franti e Garrone, dove Garrone è il buon liberatore e Franti, “quell’infame sorrise”, siamo noi, che non sorridiamo neanche più. All’estero dopo secoli che non ci conosciamo più e non sappiamo più neanche chi siamo, basta un’inflessione dialettale, un santo familiare, un cibo conosciuto e ci getta le braccia al collo: paisà.

A dispetto di chi suppone ancora che fatta l’Italia biso­gnava fare gli Italiani. Il cardinale Biffi, principe della Chiesa, scrive: “I guai dell’unificazione italiana perché non ha funzionato, sono perché da una parte arrivò la Controriforma e dall’altra parte non ci arrivò”. Arrivò la Controriforma, dice Biffi, in Piemonte, in Lombardia, in Emilia, perché c’erano i Borromeo, Carlo e Federigo, e non arrivò altrove perché non ci fu nessuno che la fece. Quindi una parte di noi italiani è stata pronta all’unificazione, men tre dall’altra è rimasta una religiosità gretta e superstiziosa. Ebbene signori, la Controriforma nel Meridione ha prodotto persino un dottore della chiesa, Sant’Alfonso Maria De’ Liguori, il fiorire di iniziative di solidarietà sociale, le confraternite che erano espressioni del laicato che si muoveva. Altro che le solidarietà di oggi! A Napoli c’erano cinque monti di pietà, il che significa prestito per i poveri. I banchi, i monti frumentari, erano tutti iniziative per il popolo, come pure le scuole gratuite, gli ospedali, i conservatori. Noi ab­biamo la più grande, colossale opera sociale: l’Albergo dei poveri di Napoli. Una realtà che la dice lunga su cosa sono stati i Borboni.

Siamo rimasti veramente senza sapere più chi siamo.

Siamo rimasti col mito di una repubblica napoletana che non ci fu, che non ci fu. E col mito di un popolino sfaccendato, mafioso, camorrista, sfaticato. O ci metteremo a ricercare le fonti che ci riunirono, che ci tennero uniti, quel principio di analogia che riuscì a creare la Cristianità, l’Europa, la civiltà dove tutto e solo si può ricollegare, e ci inchineremo ancora reverenti a quell’Incarnazione che fece partire la nostra era e troveremo i motivi per ripescare tutto quello che ne è seguito, o noi saremo sempre questi cafoni meridionali, i quali dopo Eboli non riescono a far funzionare più nemmeno le ferrovie.

Giuseppe Pianelli
Giornalista-Saggista

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