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Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (VIII)

Posted by on Ott 4, 2022

Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (VIII)

Sintesi efficacissima

L’importanza del lavoro effettuato da Arcieri, e che determina a tutt’oggi la validità del suo saggio e la spinta a ripubblicarlo, consiste in un ottimo lavoro di sintesi, finora ineguagliato. Restringere in 120 pagine (nell’originale: qui sono 160) la storia del diritto napolitano non era impresa da poco.

L’impostazione che dà al suo lavoro è giusnaturalistica:

Gli studi di legislazione, ovvero di un diritto positivo, presuppongono la conoscenza del dritto unico, universale, anteriore dal quale il diritto giuridico dipende.[1]

Conseguentemente la legge, nascendo spontaneamente dal basso, anziché essere imposta imperiosamente dall’alto, è

la emanazione del dritto stesso evoluto nella pratica: il dritto che parla in particolar modo a quella nazione, a quel dato popolo, il diritto anteriore in una parola che si svolge nell’e-sterno, e che ha per obietto di far conseguire all’uomo quello sviluppo fisico e morale cui è chiamato per sua propria destinazione.[2]

La lettura del saggio di Arcieri suscita numerosi spunti di riflessione e spinte ad approfondire: un caso eclatante è quello che proviene dalla sintetica descrizione del duello tra Carlo d’An­giò e Pietro d’Ara­gona per stabilire il diritto ad essere Re di Sicilia. Duplicemente interessante, perché da un lato siamo di fronte a un utilizzo della singolar tenzone sempre strettamente legato al giudizio di Dio (e quindi non ancora trasformatosi nella mera risoluzione di questioni d’onore, in cui l’ac­cetta­zio­ne dello scontro in sé risolve la macchia dell’onore, a prescindere dalla parte cui arrida la vittoria); dall’altro perché dimostra come, nonostante la chiamata da parte del Papa per scalzare dal trono Manfredi di Svevia, in effetti Carlo d’Angiò non si sentisse pienamente legittimato per origine a cingere la corona siciliana, come sottolinea Fulvio Delle Donne:

L’unica ipotesi possibile sembra risiedere in una questione di tipo politico propagandistico. Carlo d’Angiò fu il promotore di quella sfida, dalla quale, evidentemente, si attendeva un riconoscimento come sovrano, non tanto da parte dell’apparato istituzionale, quanto da parte dei sudditi del regno. Infatti, Carlo fu messo sul trono unicamente per volontà di papa Clemente IV, che sottolineava la cosa nel suo atto di concessione. Come si desume dalle affermazioni contenute nel Chronicon di Saba Malaspina, che riassume le posizioni di una influente e autorevole fazione, Carlo era considerato privo dei requisiti dinastici ed ereditari a reggere il Regno di Sicilia. Sicuramente l’Angioino doveva sentirsi privo dell’appoggio dei suoi sudditi: e non solo di quelli siciliani che si erano ribellati, ma anche di quelli della parte continentale del regno. Tanto più che ancora, da più parti, si invocavano i privilegi del tempo del buon re normanno Guglielmo, così come formalizzato perfino nei capitoli di San Martino, emanati nel 1283 dal figlio di Carlo I d’Angiò, il principe di Salerno.[3]

La questione – al di là del risibile svolgimento (anzi, non svolgimento) dello scontro – non è da poco, perché ci fa notare che per impugnare lo scettro del Regno di Napoli e di Sicilia non bastava l’investitura papale, pur essendo considerato un feudo della Chiesa, ma avesse enorme importanza la legittimità di origine, che escludeva i Francesi e chiamava gli Ispanici, giustificando così, nel XVI secolo, il passaggio della Corona napolitana dai Trastámara agli Asburgo.

Naturalmente nel lavoro di Arcieri non mancano alcuni passaggi che invece presentano interpretazioni assai dubbie, dovute alla formazione dello studioso lucano e all’aria di positivismo che era costretto a respirare quotidianamente per cui, ritenendo di vivere nell’epoca di maggiore sviluppo culturale, giudicava con eccessiva severità le epoche passate, bollandole di oscurantismo.

Con questo spirito ritiene eccessivamente severe le leggi penali angioine «in cui si ravvisa la ferocia dei tempi»[4], critica il sistema di composizione pecuniaria dei reati, attacca il feudalesimo[5] e, soprattutto, per il periodo imperiale ispanico, ripete la trita vulgata del Viceregno[6], dimostrandosi incapace di comprendere come il Re di Castiglia fosse anche il Re di Napoli (e quindi il Viceré fosse tutt’altro che un proconsole) e come, soprattutto, gli interessi principali delle due Corone fossero identici: la difesa della Fede e quindi la lotta all’eresia protestante[7].

Un altro elemento debole si può riscontrare in una certa piaggeria riservata all’incensamento della Dinastia regnante, presumibilmente dovuta a evitarsi ulteriori problemi. «Molte leggi furono emanate sotto i Borboni, delle quali è os­servabile la saggezza»[8]: una specificazione che stona un po’ in tanta concisione. Ma, al di là di questi elementi, e pur presumendo uno spirito aperto alle novità, l’obbligo della sintesi che il lavoro gli imponeva fa sì che nella maggior parte dei casi si limiti a registrare gli avvenimenti, senza esprimere pareri.

Talvolta, addirittura, la sua oggettività lo porta a giudizi durissimi nei confronti delle novazioni: è il caso della politica rivoluzionaria francese, che critica ferocemente sia dal punto di vista della vampiresca vessazione tributaria:

Il sistema ipoteca­rio innestato in noi dalla legislazione francese era adombrato trent’anni prima, ma non avaro, non finanziario, non vessatorio quale ci venne, ed infelicemente sussiste. Il Regio Archivio era più semplice e meno precettivo.[9]

sia dei gravissimi danni causati dalla distruzione della feudalità, che pure qualche pagina prima aveva esecrato, perfetto esempio di come le teorie astratte illuministico-rivoluzionarie naufraghino miseramente alla prova dei fatti, non senza – purtroppo – causare gravissimi danni alla struttura sociale del Paese. Vale la pena riportare quanto scrive a proposito dell’u­ti­lizzo intensivo delle terre demaniali, divenute private e quindi sfruttate quanto più possibile dai nuovi proprietari:

La feudalità non fu abo­lita, ma perseguitata, spogliata. Lo poteva esser dalla legge, ma lo fu dalla prepotenza umana, che armata d’ingiustizia la fe­rì, e la uccise. La dissodazione dei terreni eseguita senza norme, senza calcolo, con furia, fu produttiva d’ingenti guasti. La picco­la scoria vegetabile scendendo dalle chine dei monti per l’opra dello scuotimento e della saturazione delle acque, distrusse le pia­nure sottoposte, alzò il letto dei fiumi e dei torrenti. I rovesci di essi compirono l’opera della distruzione. Miserando spettacolo, cagione di cresciuta miseria; poiché si perderono le buone terre senza nemmeno acquistarsi le cattive; essendo che i dorsi dei monti presentarono ben tosto la nudità, ed invece del terreno erboso da cui erano tappezzati si videro le croste dei sassi.[10]

In altri casi, con la consueta sintesi e senza prendere particolare partito, ci pone di fronte alle gravi questioni relative al passaggio al diritto nuovo (cioè non tradizionale): dal regalismo (prammatica 16 del 19 dicembre 1761)[11] alla politica del­l’a­malgama (22 maggio 1815)[12], dalla svolta assolutista con l’abo­lizione dei Sedili (25 aprile 1800)[13] alla nuova codificazione con l’introdu­zio­ne del Codice per lo Regno delle Due Sicilie (1° settembre 1819) che abrogò definitivamente il «diritto romano, costituzioni, prammatiche, reali dispacci, consuetudini generali e locali, ed ogni altra disposizione legislativa anteriore»[14], cioè il diritto tradizionale.

Insomma quello di Arcieri, ad oltre 170 anni dalla sua uscita, risulta essere un ottimo lavoro di sintesi, che nonostante qualche piccola “falla”, rimane un testo fondamentale non solo per lo studio del diritto napolitano, ma per la comprensione del mondo (non solo giuridico) medioevale e moderno.

fine

Gianandrea de Antonellis


[1] Gaetano Arcieri, Storia, cit., p. 12.

[2] Ibidem.

[3] Fulvio Delle Donne, Le armi, l’onore e la propaganda: il mancato duello tra Carlo d’Angiò e Pietro d’Aragona, in «Studi Storici», xliv (2003), n. 1 (gennaio-marzo), p. 104-105, che a sua volta rimanda a Claude Carozzi, Saba Malaspina et la légitimité de Charles Ier, in L’État angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle, Atti del convegno (1995), École Française de Rome, Roma 1998. pp. 81-98.

[4] Qui, p. 105.

[5] Cfr. nota 116 a p. 150.

[6] «Questa fu l’epoca più disastrosa del nostro Reame. Soggetti ad un governo viceregnale fummo ad intervalli spogliati dai pro­consoli inviati a governarci. Il nostro oro emigrava nella Spagna, i nostri soldati andavano a militare per interessi stranieri e le nostre sostanze si consumarono, si esaurirono per le continue lotte in cui i principi sempre lontani da noi s’immergevano». Gaetano Arcieri, Storia del Dritto…, cit., p. 239.

[7] Per una corretta visione del periodo imperiale ispanico, non si può che rimandare all’esauriente saggio di Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola, Controcorrente, sei volumi, Napoli 1999-2019.

[8] Qui, p. 141.

[9] Qui, nota 114, p. 142.

[10] Qui, p. 155.

[11] Il regalismo, subordinava la Chiesa allo Stato anche per le questioni religiose. In particolare, con la detta prammatica «si ordinò il regio assenso o exequatur di tutte le costituzioni canoniche, che nel Regno dovessero eseguirsi». Qui, p. 143.

[12] La c.d. “politica dell’amalgama”, imposta il 22 maggio 1815 grazie alle clausole previste dal trattato di Casa Lanza, «conservò in carica tutti gli impiegati esistenti nel decennio del governo straniero e volle che gli affari continuassero a trattarsi nel modo stesso come se la macchina dello Stato non avesse sofferto cangiamento». Qui, p. 156.

[13] Cfr. qui, p. 42.

[14] Qui, p. 158. È vero che venivano anche abrogati «i libri francesi», cioè la legislazione del decennio di occupazione militare, ma il codice napoleonico, introdotto ufficialmente con decreto 195 del 22 ottobre 1808 firmato da Gioacchino Napoleone, Re delle Due Sicilie (cfr. Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1813, p. 571), veniva pressoché interamente acquisito (unica eccezione: il divorzio, abrogato nella revisione ferdinandea), con il semplice cambio di nome del Re che lo promulgava: Ferdinando anziché Gioacchino Napoleone.

Gianandrea de Antonellis

2022 – D’Amico Editore di Vincenzo D’Amico
Via Pizzone, 50 – 84015 Nocera Superiore
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Finito di stampare
nel mese di aprile 2022
presso Infolio srls
via Alfonso Albanese 26
84010 Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno)

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