Alta Terra di Lavoro

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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (VI)

Posted by on Dic 24, 2022

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (VI)

Capitolo IV. La Cospiratrice

Chi era mai quella signorina veduta da Ernesto nella grotta di Posillipo? Una di quelle donne perdute, che non avendo altro capitale che la loro bellezza, cadute in un primo peccato, non avendo altra via da scegliere per tirare innanzi in qualche [altra] maniera la loro esistenza, sono costrette a vendere i loro vezzi ed il loro corpo al primo offerente, prostituendosi per pochi scudi e diventando a poco a poco non più donne, ma larve e, come le ha chiamate con molto acume e verità un nostro gentile e chiaro scrittore[1], ombre vaganti, non aventi dell’umano che solo la forma e le passioni volgari?

No: Erminia non apparteneva disgraziatamente[2] a quella classe disprezzabile sotto tutti gli aspetti, quantunque anche compatibile[3], perché spinta dalla miseria e spesso dalla fame a commettere il male. Erminia apparteneva alla primissima aristocrazia napolitana, il suo cognome era più che conosciuto nei fasti della nostra vetusta nobiltà; ricca ed avvenente, aveva sortito dalla natura un carattere vulcanico, serpeggiando nelle sue vene per parte della sua genitrice il sangue insulare siciliano.

Bella, di una beltà greca, ardente come l’Etna dalle cui vicinanze veniva sua madre, piena d’ingegno e di perspicacia, era stata educata nella più fina e sublime galanteria. Istruita nelle lettere, nelle arti donnesche ed in tutto ciò che può abbellire lo spirito ed il corpo di una giovinetta, era divenuta a quindici anni una fanciulla quanto cara, altrettanto desiderata ed amata, si può dire, da tutti coloro che la conoscevano. Cominciata la sua gioventù e guidata da sua madre nei primari e geniali[4] ritrovi della nostra città, ne era divenuta l’ornamento e la più sontuosa gemma: circondata da mille adoratori, non aveva saputo resistere alle dolci parole dei corteggiatori ed aveva risposto a più d’uno di essi con la magica parola “sì”, passando da adorazione in adorazione ed acquistando in tal modo l’istinto del civettare, che fomentato dalla coltura del suo ingegno e dal suo spirito, l’avevano fatta divenire una delle donzelle più alla moda di tutte le sue coetanee, una delle più amabili seduttrici del giorno e contemporaneamente, stante le sue ricchezze, uno dei più golosi partiti che ritrovarsi potevano in una città come la nostra.

Due, fra gli altri adoratori, avevano ferito uno il suo cuore, l’altro il suo amor proprio: il primo, un giovine commediante dalle belle forme, dagli eletti modi, dalla facile parola, nativo della superba città delle Lagune ed in quel tempo in Napoli, ingaggiato nella primaria compagnia di prosa; l’altro, un nobile signore, ricco di titoli e di sangue illustre, ma povero piuttosto di mezzi e ridotto a tale che, per poter sostenere il lustro del suo casato, andava in cerca di un matrimonio cospicuo, cui più che la sposa fosse stato oggetto principale una buona dote.

Entrambi questi giovani si erano incontrati con Erminia nelle diverse società che frequentavano, dappoiché il commediante, famoso nell’arte sua e gentilissimo, era ammesso e girava le adunanze, dove divertiva gli assembrati, anzi li consolava, declamando ora quel pezzo, ora quell’altro di classico scrittore, con arte tanto squisita e sopraffina, da imparadisare[5] chi lo ascoltava. In diverse occasioni Erminia, che anch’essa era esperta declamatrice, s’era unita con Carlo ed avevano recitato ora un brano del Metastasio, ora una scena dell’Alfieri, del Niccolini, del Pellico e si erano in tali occasioni avvicinati talmente fra di loro, che in una bella sera, mentre si apparecchiavano[6] ad una di tali recitazioni ed in disparte prendevano delle misure d’intelligenza[7], il commediante, reso ardito dalla circostanza ed animato dalle dolci parolette che la giovinetta gli volgeva, fece sentire alla stessa accenti d’amore ed essa senza esitare ne corrispose delle altre, che alimentate poscia in seguito da lettere e segrete visite, produssero fra di loro una confidenza tale, che fece in fin dei conti essere più che necessario il matrimonio fra Erminia ed il Contino, il quale, mirando allo scopo pecuniario a cui aspirava e nulla conoscendo di ciò che era succeduto, né sospettandolo nemmeno, diede il suo nome alla bella fanciulla; la quale divenne Contessa senza però il volo del suo cuore e solo per convenienza, per riparare ad un primo fallo che non tardò ad essere seguito da diversi altri, poiché, essendo il Conte un marito preso per necessità, non poteva certamente ispirare verun affetto nel cuore della consorte.

Il commediante partì; di lui la Contessa non ebbe più notizia e fu soppiantato nel di lei cuore da un giovine capitano di cavalleria, da un elegante Baroncino ed in ultimo da un grazioso giovinotto che nella casa della signora faceva da segretario e non solamente aveva voluto conoscere i segreti del suo padrone, ma anche quelli della signora, e dei più intimi si era brigato, ed entrambi lo facevano con tanta scioltezza e noncuranza che un bel giorno il marito non potette far di meno di accorgersene e di sorprenderli come Vulcano colse Venere e Marte; solamente, invece di rinchiuderli nella rete di acciaio, si armò di una buona sentenza di separazione di corpo e la nobile Contessa, quantunque ricca di denaro, si vide costretta a disunirsi dal consorte ad a vivere di un piccolo assegno, essendo il Conte il legittimo, se non naturale, amministratore della roba dotale appartenente ai due figliuoli, il primo di provenienza comica, il secondo forse anche d’ignota provenienza.

Rimasta sola la signora, né potendo pei primi tempi della sua disgrazia mostrarsi più troppo in pubblico e girare da per ogni dove, come[8] dotata di spirito indipendente, per non restarsene in ozio ed in disparte e potersi applicare a qualche cosa di strano e solleticante, si era affiliata ad una di quelle tante società segrete che in quel tempo, quantunque nascostamente, ricominciavano ad alzare la cresta, ad onta della vigilanza dei governi che cercavano di distruggerle.

Nei primi tempi, siccome la sua avventura aveva prodotto un certo scandalo e qualche po’ di fracasso nella società napoletana, ella dovette contentarsi di fare una figura secondaria, servendosi però dei suoi vezzi ed eletti modi per spingersi innanzi, adescando i capi di quella corporazione che a poco a poco, avendo conosciuto i suoi meriti intrinseci, l’avevano spinta innanzi e posta quasi alla testa della Loggia a cui apparteneva, elevandola ad una delle cariche principali, la quale la metteva alla testa di molte altre facili bellezze; e siccome il tempo tutto attutisce, passato il primo impeto del fatto accaduto né più parlandosene troppo, ella ardì ricomparire con faccia dura[9] in pubblico, rifrequentando quella società dalla quale aveva dovuto allontanarsi, immischiandosi di nuovo pienamente in mezzo alla primaria aristocrazia in dove reclutò molti affiliati alla Loggia, in modo che diventò una delle più benemerite sorelle di quella corporazione.

Venuto il tempo di dover agire per mettere in su la rivoluzione e formato un comitato dirigente per la nostra città, i membri dello stesso, quasi tutti affiliati delle società segrete, posero gli occhi sulla nobile Contessa; la quale, chiamata a far parte dell’assemblea, promise di far tutto per parte sua onde giungere allo scopo di rovesciare il governo e stabilirne un altro, liberando l’Italia dalla schiavitù e dall’ignavia in cui, secondo essi, era caduta.

Ricevuti moltissimi incarichi e moltissimo denaro, la Contessa si era slanciata in mezzo all’impresa con animo deliberato e con forza ed astuzia straordinaria: ed ora facendo giocare la virtù del dio Pluto[10] e seminando oro a piene mani, ora giovandosi della forza di Venere, prostituendosi senza rossore con chi credeva che per questa via era più facile guadagnare più con questo che con l’altro, aveva subornata tutta quasi la primaria classe dei Napolitani, strascinandola nel precipizio. [Corruppe] vecchi, adulti, giovani, ricchi, poveri, uomini dotti ed ignoranti; ed aggiogando al suo carro, e per esso a quello della rivoluzione quasi tutti gli uomini più influenti ed eminenti di questa nostra città.

Questa donna però, che aveva sacrificato tutto all’ambi­zio­ne, al desiderio d’imperare, alla libidine di comparire importante, non aveva del tutto perduto il cuore e di quando in quando si sentiva presa da una qualche simpatia per una novella vittima, che poscia sacrificava ad un novello amore o, come meglio vorremmo dire, ad un novello capriccio o stimolo libidinoso.

Questo donna, facile ad accordare i suoi favori quando mercé questi poteva giungere al suo fine, era poi più casta di una vestale quando non sentiva nel cuore una qualche scintilla di affetto; ed allora si potevano porre ai suoi piedi tutti i tesori della California e del Perù, che non avrebbe accordato nemmeno una stretta di mano, una parola lusinghiera, uno sguardo al più fervido ed appassionato amatore.

Nel tempo che succedevano le cose che narriamo, la signora Contessa si trovava in uno di questi casi, che un nobilissimo signorino e ricco a dismisura da molto tempo le gironzava d’intorno, assediandola con tutt’i modi, considerandola, come era effettivamente, una facile fortezza, quantunque nelle circostanze indicate più su diventava la rocca più inespugnabile che immaginare si possa. Il nobilotto, sia per mezzo di fogli profumati, sia d’intermediari, sia di vistosi presenti, non aveva potuto in verun modo guadagnare un palmo di terreno nel suo cuore e, spumando di rabbia e gettando veleno da per ogni dove, giurava che se avesse potuto arrivare a scoprire un qualche rivale, lo avrebbe sacrificato alla sua vendetta, perché egli non era uomo da soffrire un’ingiuria cotanto terribile ed essere posposto ad un altro, qualunque questi fosse stato.

La Contessa però, per quanto avesse in uggia il Cavaliere, tanto si era incapricciata di Ernesto, avendolo appena veduto una volta sola nella grotta; ed in quella sera con mille maniere di moine, di parolette e di grazie aveva cercato fargli capire le sue brame; ma niente ne aveva potuto ricavare, perché il povero giovine in quella occasione pensava a tutto, fuorché ai suoi vezzi ed alle sue provocanti occhiate ed alle moine oltremodo spinte. Vedendo perciò la cortigiana che in quella occasione non aveva potuto essere capita dal bel giovinotto, non trovò migliore espediente che invitarlo in casa sua con la scusa di dovergli comunicare cose d’importanza circa la sua novella carica, cosa che riusciva molto a proposito, e che quantunque capita dai principali componenti quella assemblea, pure non faceva sensazione ad alcuno, perché da tutti conosciuta, ma da tutti rispettata, stante la sua influenza negli affari. Perciò nessuno, nemmeno lo stesso don Antonio – il quale, sebbene uno dei capi della rivoluzionaria combriccola, era uomo dotato di cuore – si diede premura di mettere Ernesto nell’avviso per non contrariare i disegni della più che necessaria Contessa.

Capitolo V. Il Banchiere

È necessario mettere sotto gli occhi del lettore un altro personaggio principale della nostra storia, prima di continuare la narrazione dai molti avvenimenti dei quali va tessuta e dimostrare anche di quali uomini si serviva la rivoluzione per la così detta rigenerazione del «Bel Paese là dove il sì suona».

In un largo e comodo appartamento, abitava il signor Bartolomeo, ometto in su i cinquant’anni, di figura piccola e spiacevolissima: magro quanto un bastone di eremita, con certi occhietti sulla fronte grifagni e verdastri, con pochi peli sul cocuzzolo, con un nasaccio nel quale egli di quando in quando introduceva una quantità di tabacco leccese per lo meno di mezz’oncia per volta, sporcandosi con quello tutto il sottostante[11] vestito. Il signor Bartolomeo, in origine garzone di cuciniere in una bettolaccia dei bassi quartieri di Napoli, aveva cominciato ad ammassar denaro rubando al suo padrone poche grana al giorno e mettendole a profitto, dandole alle comari, che ne chiedevano coll’obbligo di restituire la sera ciò che avevano preso la mattina con un tanto di più, che siccome nella proporzione non era molto poco, così piano piano lo posero nel caso di raggranellare un bel gruzzoletto di scudi, che lo fecero trovare alla portata di non aver più bisogno di quella meschina speculazione per avanzare il suo peculio, ed invece pose su la più onesta speculazione di dare a prestanza sommette un poco più importanti che quelle di poche grana a tutte le donne di malaffare, le quali erano le migliori pagatrici, stanti i facili guadagni che facevano, e [in] più, siccome era un esperto giocatore di carte e baro, girava tutto il giorno per le bische e colà, associandosi con altri galantuomini del suo stampo, spogliava con la sua abilità e prendeva la porzione dagli altri che sotto di lui esercitavano il nobile mestiere di ladri e bancarottieri, spogliando gl’inesperti figli di famiglia che colà capitavano, nonché i viziosi di sfere più avanzate d’età, i quali venivano a rifondere in quei luoghi di perdizione i denari guadagnati con sudore e che servivano o servir dovevano per sostentamento della famiglia e per portare innanzi speculazioni[12] e negozi atti al benessere della gente.

Da questo secondo scalino il signor Bartolomeo era salito più su, avendo estesa la speculazione, succhiando il sangue dalle vene dei poveri pensionisti dello Stato, anticipando ad essi pochi ducati e prendendone in pegno i titoli e facendo loro pagare – per mille ragioni di interessi, fedi, assicurazioni e regalie – il quadruplo di quello che incassavano.

Postosi su questa via, la ricchezza del signor Bartolomeo si era di molto accresciuta ed egli, dandosi il pomposo titolo di capitalista, sostituito a quello di usuraio, aveva molto ingrandito le sue speculazioni ed era in tutto e per tutto diventato un banchiere, avendo posto un formale studio nell’appartamento da noi indicato.

Il signor Bartolomeo, come [se fosse stato] il più onesto e nobile banchiere della nostra città, era stato prescelto dai salvatori dell’Italia pel cassiere del comitato e nelle sue mani si versavano tutti i denari che dalle diverse città e dai diversi contribuenti erano erogati per la grandiosa opera del riscatto nazionale; però il banchiere, che non aveva cessato mai di essere un birbante, come fin dal principio della sua famosa carriera commerciale, invece di conservare in cassa ed amministrare il denaro a lui affidato, lo negoziava per suo conto e s’impin­gua­va di più, alla barba degli sciocchi, che pelati in prima linea dalla santa causa, lo erano poi del cassiere, che rideva e guardava fare, facendo buon viso a tutti gli scerpelloni[13] che gli si venivano a contare, né sborsando giammai un grano senza prima prendere tutte le cautele possibili, come se in effetti avesse erogato moneta di sua spettanza.

A questo signore la mattina dopo la notte della riunione fu da don Antonio presentato Ernesto, accompagnato da un ordine del comitato col quale gli si faceva obbligo di ricevere quel giovine come commesso viaggiatore, fingendo di affidargli degli ordini circa speculazioni ed incombenze per i paesi che gli erano indicati e sborsargli intanto la prima rata dello stipendio promesso, cioè i primi sessanta scudi.

Don Bartolomeo, letto l’ordine, inorridì all’idea di dover cacciare dallo scrigno per darla ad uno sconosciuto una somma, che se non era molto cospicua, era di una certa importanza relativa e che ai suoi istinti usurari pareva al di sopra di un milione e gli faceva torcere il muso, obbligandolo a metter mano nel tesoro, che in sostanza non era suo, ma che egli considerava come suo e niente meno; perciò, prima di venire al punto di aprire la cassa dove era conservata la ricchezza, don Bartolomeo cominciò ad intavolare una conversazione, che ci piace far presente al lettore per esilararlo da una parte e farlo inorridire dall’altra, tanto ha del ridicolo e del perfido insieme.

– Avete letto l’ordine del presidente? – domandò don Antonio, impazientito un poco del volgere e rivolgere che don Bartolomeo faceva della carta che gli era stata consegnata nelle mani.

– Ho letto, ho letto, ma…

– Che cosa? – replicò il primo.

– Ma… è obbligo mio, senza offendere alcuno, di verificare bene le cose, prima di sborsare un obolo a me affidato. È questo veramente carattere[14] del presidente?

– Ohé! badate come parlate, badate, che sono io, che ve lo presento.

– Mi levo il cappello innanzi alla vostra degnissima persona, ma siamo in epoca tanto trista, che bisogna dubitare di tutti e di tutto, ed è perciò…

– Ma non è questa certamente la prima carta di carattere del presidente che vi sia capitata nelle mani e son certo che dovete conoscerlo a menadito, perciò è inutile che affacciate dei dubbi vani ed insussistenti.

– Capisco che migliaia di ordinativi, lettere ed altre specie di carte di carattere del presidente mi sono capitate, ma perdonate, senza offendere alcuno, siamo tanto innanzi con l’arte calligrafica, che i caratteri – e soprattutto le firme – si falsificano con una facilità spaventevole, e mi capite…

– Dunque?

– Senza offendere nessuno!

– O sia per offendere me, che vi ho portato lo scritto e che se non sono il presidente, sono uno dei principalissimi componenti del comitato, e tale a cui voi dovete ciecamente ubbidire; e poi, sapete pure chi io mi sono ed un sospetto su di me non dovrebbe ricadervi per la miserabile somma di sessanta scudi.

– Miserabile somma, miserabile somma… voi dite benissimo, e voi siete persona degna, di ogni eccezione; ma però, senza offendere nessuno, le precauzioni sono sempre ottime.

– Via, bando a queste smorfie ed eseguite ciò che vi è stato imposto, altrimenti potreste correre il rischio di perdere la carica di cassiere del comitato.

– No, no, per amor del cielo! Perché farmi perdere questa carica, la quale, sebbene, mi conduca seri imbarazzi ed impicci, pure, trattandosi di cosa buona pel riscatto d’Italia, mi è tanto cara che non mi farebbe dispiacere nemmeno se dovessi rifonderci tutto quel poco che posseggo.

– Lo credo! Ah, ah, ah! Lo credo! – rispose don Antonio – Lo so, ma nonpertanto eseguite ciò che è obbligo vostro.

E batté con molta forza su questa espressione.

– Sono prontissimo; ma però prima di tutto: il signor presidente ha ponderato bene sulla persona a cui affida l’importante incarico di commesso viaggiatore, o sia di agente segreto per la cospirazione? Questo signore mi sembra troppo inesperto e…

– Di ciò voi non potete giudicare; egli è espertissimo, di una età conveniente e queste son cose che non spetta a voi di esaminare; replico: non più ostacoli e passiamo all’esecuzione di ciò che vi si è imposto.

– Imposto! Troppo giusto: eccomi qui pronto ad eseguire quello che debbo. Farò nella giornata preparare delle lettere commendatizie a diversi miei corrispondenti nei luoghi qui indicatimi, farò che si preparino effimeramente[15] diverse spedizioni di campioni di mercanzie per accreditare la sua qualità, e dico effimeramente, ma se per caso ci fosse da poter fare qualche cosa di positivo, io non sdegnerei di… però sempre con tutte le debite precauzioni, con tutti i riguardi, perché si tratta di interessi e gli interessi, capite bene…

– Si prenderanno tutte le possibili precauzioni; ma trattandosi di finzione, solamente di finzione, non vi potrà arrecar nessun danno, mio caro signor banchiere, ed invece potrà farvi del bene e del sommo bene in tempi i quali non saranno molto distanti.

– Lo credete?

– Ne sono più che sicuro.

– Ma, sotto vostra correzione… ma questa rivoluzione che noi prepariamo?…

– Trionferà completamente, non ne dubitate,

– Lo spero, però vi vedo molti ostacoli e forse le cose, invece imprendere quella piega che tutti speriamo, potrebbero andare a rovescio, ed allora…

– Saremmo tutti rovinati, lo so.

– Che il cielo ne liberi, ed allora poi nel caso si verificasse questa ipotesi…

– Correreste il rischio di perdere la carica di cassiere! – disse ridendo don Antonio.

– Né questa sarebbe la più gran disgrazia, potrebbero andarci di mezzo…

– Le nostre vite.

– Ed anche…

– Tutti i nostri beni, le nostre sostanze, quelle ricchezze che voi, negoziando usurariamente, avete accumulato; ma via, via, e non mi fate più salire la mosca al naso, sbrigatevi, sollecitate, fatemi il piacere di far che io ed il mio amico possiamo allontanarci da questa casa, dalla vostra presenza, che siete per me l’uomo il più antipatico e di cattivo augurio che esser vi possa. Eseguite, sbrigatevi, voglio partire.

Don Bartolomeo non replicò più verbo, ma spinto dalla necessità corse finalmente ad aprire lo scrigno e ne trasse i sessanta scudi che consegnò contandoli ad uno ad uno ad Ernesto, accompagnando ognuno che metteva sul tavolo con diversi sospiri che indicavano lo sforzo che egli faceva nel separarsene. Dopo che li ebbe contati la prima e la seconda volta, li ripassò per la terza, e non li consegnò definitivamente al giovinotto, che allorquando costui ne segnò ricevuta, a cui pretese di esser apposta anche la firma di don Antonio, e dopo di aver guardato in tutti i modi di nuovo l’ordinativo del presidente del comitato, che conservò accuratamente in una filza di carte, rinchiusa in un tiratoio segreto dell’armadio d’onde aveva tratto il denaro, promettendo che le lettere e la finta incombenza commerciale sarebbero state pronte pel giorno vegnente. Don Antonio salutando di mal garbo il cassiere ed Ernesto stabilendo che al domani alla stessa ora sarebbe tornato per prendersi le carte concertate, partirono, restando il sordido Arpagone[16] solo e cogitabondo, immerso in mille riflessioni fra le quali, forse, non ultima era quella del dubbio della riuscita della rivoluzione e perciò del pensiero, che da lontano si affacciava, che nella circostanza d’infortunio ci sarebbe stata per salvarsi la via più spedita, cioè quella di denunziare tutto al governo, rovinando in tal modo ogni cosa; però si astenne dal fermarsi su questo pensiero all’idea che certamente, se avesse commesso una simile defezione, sarebbe stato incontanente ucciso dai fratelli, i quali erano uomini che non perdonavano giammai a simili tradimenti; perciò allontanata tale diabolica tentazione, si accinse a preparare la finta commissione e le commendatizie, cercando nella sua mente espedienti tali che gli avessero fruttato il più che gli era possibile, accreditandolo anzi, invece che screditarlo, con la società di cui faceva parte


[1] È un eco da William Shakespeare, Macbeth, V, 6: «Life’s but a walking shadow…». «La vita non è altro che un’ombra vagante: […] è il racconto privo di senso recitato da un povero idiota».

[2] Non apparteneva disgraziatamente: non aveva la disgrazia di appartenere.

[3] Da compatire.

[4] Brillanti.

[5] Far sentire in Paradiso.

[6] Si preparavano.

[7] Si mettevano d’accordo.

[8] Siccome era.

[9] Con faccia tosta.

[10] Dio greco della ricchezza.

[11] Nel testo: «sottoposto».

[12] Investimenti.

[13] Svarioni, errori grossolani.

[14] Scrittura.

[15] Fittiziamente.

[16] Personaggio teatrale, protagonista della commedia L’avaro (1668) di Molière, personificazione dell’avaro integrale.

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