Alta Terra di Lavoro

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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XIII)

Posted by on Gen 11, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XIII)

Parte seconda

Capitolo I. La lettera

lla destra del Largo Antignano[1] si apre una via che conduce, dopo non molto cammino ad un’osteria, indicata dai Napolitani nel loro vernacolo col nome della Pigna, perché nelle sue adiacenze si veggono sparsi molti alberi di pino che ne rendono, se vogliamo, un poco malinconico l’aspetto, ma che le danno tono romantico e celebrità. Ivi c’è uno spiazzale molto largo avanti in dove i popolani nei giorni festivi e specialmente in quelli dei due mesi di villeggiatura, settembre e ottobre, traggono a mangiare, bere e divertirsi.

Erano in effetti i quindici del mese di ottobre dell’anno 1871, giorno di Santa Teresa, nel quale tre uomini di mezza età, della classe di quelli che si direbbero medio ceto, percorrendo quella via andarono a metter capo nell’osteria, chiamando appena arrivati l’oste col nome di Nicola.

– Dove sei, Nicola? – disse il primo, il più attempato, uomo tarchiato e basso, un poco butterato dal vaiolo, il quale dal modo di camminare accennava ad essere stato un tempo di professione auriga, poiché costoro hanno nel loro andamento un certo che, che non li fa mai sbagliare e che fa indovinare a prima vista essere tutti discendenti dal celebre omerico Automedonte[2].

– Dove sei Nicola? Fatti avanti, abbiamo bisogno di te.

– Non ti ricordi della giornata d’oggi, il quindici ottobre, il giorno di Santa Teresa?

– Giorno onomastico tu sai di chi[3], per Bacco!

– Lo so, lo so, me ne ricordo, – disse Nicola avanzandosi – lo so, giorno onomastico della… eh! Dio buono, quante ne abbiamo dovuto vedere!

Questo Nicola, oste della Pigna, era un uomo che non si dava per vinto in faccia al primo dei tre personaggi indicato, perché se quegli era come abbiamo detto tarchiato, ma basso, egli era alto come un gigante e grasso da sembrare veramente un maiale, con voce stridente e tale da spaventare con una sola parola un intero esercito di bambini; teneva quell’osteria, che era riuscita ad accreditare e s’aveva fatto di lei quattrinelli, spendendo sulla fame e sulla sete dei buoni mariti e padri del popolo, che spesso andavano ad onorarlo con le loro compagne e con un esercito di figli per trincare ed empirsi l’epa di gustose vivande e di vino, se vogliamo un poco misturato[4] anziché no.

– Per conseguenza, – rispose il secondo dei tre avventori, anch’egli uomo di mezzana età, ma che dall’importanza che si dava faceva comprendere di essere qualche cosa di più alto che il suo collega, cioè uno di quelli che praticavano nelle anticamere, invece che nelle stalle o rimesse – per conseguenza, per onorare chi tu capisci, bisogna c’imbandisca una tavola squisita e ci porti qualche fiasco di quello di prima qualità.

– E poi all’ultimo faremo un brindisi fra di noi, come ben potrete comprendere, al prossimo ritorno di… ah, ah, ah!, di… voi ben mi capite!

– Né credere, – prese la parola il terzo di quelli che avevano ordinato il pranzo – né credere che la nostra venuta qui sia senza pensare un poco a questo secondo scopo: ormai le mosse non debbono essere prese troppo da vicino, né si vuole precipitare la faccenda; abbiamo ricevuto dai nostri medesimi nemici, che il cielo disperda tutti in un momento!, l’esempio della perseveranza posta in campo da essi per lo spazio di molti anni, ci deve rendere avvertiti, che anche noi dobbiamo regolarci con prudenza e non essere troppo Napolitani, cioè intolleranti e precipitosi. «Col tempo e con la paglia si maturano le nespole»: ricordiamoci di questo proverbio e badiamo a noi!

– Ne correranno delle nespole[5], a tempo e luogo! – disse l’oste.

– A tempo e luogo. – soggiunse quello che aveva parlato per l’ultimo – Per ora dimmi: quel tale signore?

– È ancora ritirato nel suo piccolo casonetto[6] alle spalle dell’osteria.

– All’ora solita?

– Indubitatamente verrà qui a prendere il suo parco desinare; per questo intanto non manca mai.

– Ci renderai avvisato quando egli comparirà, perché noi non lo conosciamo di persona.

– Ve lo farò conoscere io. Intanto ordinate che cosa volete mangiare.

– Non lo sai? Il solito piatto col quale principiano tutte le tavole napolitane.

– Maccheroni ben conditi! Lasciate fare a me, vi servirò a dovere!

Ciò detto l’oste corre in cucina ed indi a poco apparecchiò il desco intorno al quale sedevano i tre personaggi indicati, attendendo che Nicola li avesse serviti degli appetitosi maccheroni.

Una quantità di avventori seguirono i tre primi indicati ed in brevissimo tempo tutte le tavole della accennata osteria furono occupati, producendosi in tal modo quel solito baccano che regna in siffatti luoghi, specialmente quando gl’interessi vanno bene e la gente affluisce; ed in fatto la giornata richiedeva tanta baldoria ed allegria perché, quantunque alla metà di ottobre, non spirava aura di vento, il cielo era sereno come un pensiero di vergine ed il sole, che qualche volta in quella stagione saetta ancora fortemente i suoi raggi, non era tanto bruciante da far, per un esempio, sembrare sgradito il sedere in mezzo ad una aperta campagna.

Le vivande gustose andavano da una tavola all’altra, l’umore di Bacco scendeva senza misura negli stomachi ed avresti in conseguenza inteso un avvicendarsi di motti spiritosi, di botte e risposte di parole allegre, che era un vero divertimento; a questo si univano i vari suoni di chitarra, flauti ed altri strumenti campestri suonati da molti girovaghi professori, a cui si sposavano le voci piuttosto rauche di cantatori e cantatrici, i quali cercavano allietare le brigate, ricavandone poscia un meschino compenso, girando intorno chiedendo qualche cosa.

Nel mezzo del più forte del tripudio degli avventori e mentre ognuno giubilava di tutto cuore, i tre primi comparsi, che ancor’essi godevano di un buon pranzo ed ingozzavano molti boccali di quello del monte[7], rimanevano però quasi in disparte, ragionando tra di loro e quasi infastidendosi che la persona tanto attesa non si vedeva comparire.

– Sarebbe curioso – diceva uno di essi – che egli, assiduo ogni mattina, giusto in questa giornata non dovesse comparire.

– Ciò potrebbe essere, stante la ricorrenza della giornata, la quale richiamerà alla memoria dell’amico un nome, che non troppo gli piacerà di sentire.

– Forse sarà così.

– V’ingannate: egli adesso è tutt’altro. Fu pel passato uno dei più accaniti e bravi fra i nostri nemici, ma adesso il pentimento si è di lui impossessato ed ora pensa assai diversamente da quello di prima ed è perciò che si avranno tutti i modi di trarlo completamente al nostro partito e farne, come un tempo fu un membro attivissimo dell’opera nefanda della rivoluzione, un agente proficuo per ciò che noi intendiamo fare.

Seguitavano a mangiare e seguitò il baccano dell’osteria per qualche altro tempo e quando furono circa le ventidue ore e mezzo italiane[8], si vide comparire un uomo molto pallido di volto, con un aspetto che dimostrava essere completamente preda di greve malinconia, il quale difilatamente[9] andò a sedersi nell’angolo più remoto di quello spiazzato, luogo il quale per la sua lontananza dalla osteria non era stato occupato da nessuno e, fatto un piccolo segno ad un garzone, sedette ad un piccolo tavolino situato in quel punto.

Il garzone, conosciutolo per un avventore consueto del locale, gridò:

– Apparecchio al solito.

La parola solito scosse i tre che bevevano e mangiavano, per fortuna poco lungi da quel luogo dove il sopravvenuto si era assiso, e guardandolo bene in viso l’uno dei tre, che più degli altri aveva mostrato premura di conoscerlo, esclamò:

– Dalla figura dovrebbe essere lui.

– Interroghiamo l’ostiere.

– Nicola, Nicola! – fu pronunziato dal terzo, e un forte colpo di coltello dato nella pancia di un bicchiere di vetro fece accorrere immantinente Nicola, che in quel momento preparava un manicaretto di sua invenzione per la tavola di una sposa, che con tutto il suo corteggio era venuta a passare quella giornata in campagna.

– Eccomi a voi! – gridò Nicola, non appena comprese che la chiamata era venuta dalle tre persone di sua conoscenza – Che cosa avete a comandarmi?

– È forse quello l’amico? – disse il primo dei tre, indiando il novello arrivato.

– Precisamente così, è desso. E quello sempre è il suo posto ogni mattina.

– Va benissimo, servilo e lascia poscia a noi cura del resto.

Nicola si affrettò a servir bene il romito[10] avventore e dopo si rimise a badare a tutto ciò che occorreva nella sua osteria, lasciando ai suoi amici il compito di fare ciò che dovevano.

Il pasto dell’uomo sopraggiunto poteva dirsi molto frugale e ben presto fu giunto al suo fine ed i tre, che questo volevano, colsero l’occasione per accostarsi quand’egli era alle frutta ed offrirgli un bicchiere di Capri bianco spumante che avevano con loro portato, iniziando il discorso così:

– Perdonate, signore; ma vedendovi situato in un posto nel quale siete completamente solo, ci facciamo un dovere di presentavi un bicchiere di questo spumante di Capri, il quale servirà a farvi godere un poco di più il pranzo già fatto.

Meravigliato da principio, il personaggio a cui erano rivolte simili parole stette un poco in forse riflettendo se gli conveniva o pur no di accettare l’offertogli complimento; ma dopo un istante di esitazione, rispose cortesemente:

– Accetto la buona grazia di voi altri signori; desidererei per altro, se non vi dispiace, conoscere le persone che vogliono onorarmi con tanta gentilezza.

– I nostri nomi sembraci inutile declinarli: basti a voi, che ci faccia conoscere questo biglietto di visita.

Ed in ciò dire il terzo dei tre cavò dal taccuino un biglietto di visita, fregiato da uno stemma gentilizio, e l’offerse a colui che lo interrogava.

Questi lo guardò, e dopo averlo bene osservato, esclamò:

– Sarebbe possibile! Il Duca di ***!

– Precisamente, signore, ed unitamente a questo biglietto, egli per nostro mezzo v’invia questa lettera. – e gliela porse nascostamente per sotto la tavola – In essa – seguitò – non si parla che di un appuntamento, però il Duca vorrebbe sapere se voi annuite[11] a fare la sua volontà e perciò è necessario di leggere.

– Lo farò.

– Eseguite questa lettura con destrezza, mentre noi nasconderemo alla generalità degli avventori la vostra persona.

Il personaggio incognito apri la lettera e, mentre i tre lo coprivano con l’ombra del loro corpi, egli scorrevolmente lesse le poche parole che si contenevano nella medesima e quindi, dopo di aver riflettuto per pochi momenti come aveva fatto prima, disse a bassa voce a colui che gliel’aveva consegnata:

– Direte al Duca che all’alba del giorno di domani sarò all’appuntamento.

– Benissimo. Ora, un altro bicchiere di Capri bianco; allontaniamoci, perché non è regolare farci vedere insieme.

Bevvero dell’altro vino, quindi con la massima disinvoltura si separarono e l’individuo che aveva ricevuta la lettera pianamente traversando la folla sparì, dopo di che i tre amici, chiamato di nuovo Nicola e pagato lo scotto[12], partirono anch’essi, consolati di aver ottemperato all’oggetto pel quale erano andati fin là.

L’osteria rimase ancora fino a notte ripiena di tutta quella gente festevole, fino a che, fattasi la sera piuttosto scura, ognuno si ritirò e tutto rientrò nella quiete, rimanendo l’ostie­re a numerare il denaro guadagnato ed a pensare ancora a quello che la ricorrenza del giorno di Santa Teresa gli aveva ridestato nel pensiero.

Capitolo II. Sul Monte di Dio

Il Monte di Dio è una strada di Napoli nella quale sempre si è riunita la primaria nobiltà della Città e specialmente in questi ultimi tempi, dopo la rivoluzione, è divenuta quasi la contrada nella quale si è tutta ritirata, o almeno in buona parte, la coorte dei Nobili, per rimanere più unita e lontana dal centro della città e degli affari, facendo quasi tutta una vita ritiratissima e poco unita col resto della popolazione.

In uno dei grandi palazzi che si trovano in quella contrada abitava il Duca di ***: colui che aveva inviata la lettera accompagnata dal suo biglietto al misterioso individuo nella Pigna.

Erano circa tre ore prima di giorno, quando dal pontone del supportico Astuti s’intese un acuto fischio, che indicava esser quello o di un ladro o di un innamorato: ed in effetti colui che lo emetteva non era altro che un giovinotto dalla bella figura, dalla cera geniale e dagli abiti lindi, quali ad un gentiluomo si addicevano. Dietro il[13] fischio emesso dal giovinetto, una piccola finestra posta al pian terreno del palazzo suindicato si aprì con precauzione e la testa di una giovinetta si fece vedere; a cui seguì la mano, che fece segno al zerbino[14] di attendere per poco ancora; costui si addossò al muro ed aspettò con somma pazienza per ben dieci minuti che il portellino del palazzo si fosse aperto e, quando ciò successe, s’introdusse con tutta la precauzione possibile; strinse la mano alla giovinetta che gli aveva aperto, la quale non era altri che la figliuola del guardaportone, e consegnandole un pezzo d’oro da dieci franchi, s’immise per le scale e con passo sollecito ed il più tacito che potette salì al secondo piano, dove era atteso da un altra donna, la quale, fissa[15] dietro una piccola porta di soccorso della casa, appena intese un piccolo colpo sulla stessa l’aprì ed introdusse il sopravvenuto appo[16] una terza donna, la quale in sostanza era l’innamorata del fischiatore, Giuseppina, la figlia secondogenita del Duca di ***, ragazza di diciotto anni, di bella figura, di volto angelico e che andando a marito avrebbe portata con sé la non piccola somma di centomila franchi di dote.

Chi era però il suo innamorato?

Carlo si chiamava costui, giovine istruitissimo, ma di molto bassa estrazione; e ciò sarebbe stato poco male, perché moltissimi uomini nati nelle ultime classi della società, a forza di fatiche, di studi e di buoni costumi arrivano a mettersi a livello dei più grandi signoroni e superarli in tutto il possibile bene della società; ma quantunque abbiamo detto che Carlo istruitissimo era e ripieno di grandi e svariate cognizioni, pure in fatto di costumi lasciava molto a desiderare e l’amore che portava alla bella Giuseppina non partiva veramente dal cuore, ma era dettato dal turpe pensiero dell’interesse, che era l’unico movente di quest’essere, ricolmo a ribocco di tutti i vizi e negato completamente alla virtù sotto tutti gli aspetti.

Egli erano sei mesi e più che amoreggiava la buona e candida Giuseppina; il suo pensiero era precisamente quello di volerla indurre ad una fuga, perché sperava che mercé un tale fatto il padre, che in altro modo non si sarebbe mai e poi mai piegato ad accordargliela, avrebbe subito accondisceso per garantire l’onore della famiglia; e la somma testé indicata – ed il di più della eredità, che all’epoca della sua morte sarebbe spettata alla famiglia – avrebbe potuto con un matrimonio capitare in mano sua e fargli fare una vita come egli sperava poter sfarzosamente tirare innanzi.

Giuseppina era innamorata fortemente di Carlo, perché questi era stato il primo che avesse fatto palpitare il suo cuore e quantunque anelasse ardentemente di diventare sua moglie, pure, sebbene persuasa delle ragioni che l’amante l’adduceva, non si sentiva in forza di effettuare la proposta fuga; e solamente si era piegata in accogliere nella sua remota stanza il giovine per due volte la settimana. Carlo aveva guadagnato molto con questo primo passo, perché supponeva che dopo ciò non gli sarebbe stato difficile di ottenere l’intero scopo a cui aspirava, e spendeva quanto più gli riusciva per gettar polvere negli occhi dei servi della ragazza, servendosi per far questo della sua somma abilità nel giuoco delle carte e del bigliardo, mercé le quali occupazioni si trovava sempre il borsellino ricolmo dei bei napoleoni e pezzi da cinque franchi.

Quella notte era una di quelle destinate al ritrovo dei due giovani e già da diverso tempo erano insieme, quando l’alba che incominciava a spuntare dava il segno alla coppia di doversi separare, per non far sì che il vecchio padre della donzella avesse potuto scoprire il loro amore.

Mentre però Carlo si apparecchiava a partire, la vecchia Maria accorse a fermarlo e lo fece nascondere in uno stanzino contiguo alla sua stanza, perché aveva visto a quell’ora il suo padrone di già alzato dal letto e passeggiare fra la galleria, le due anticamere e lo studio; perciò l’innamorato della signorina non poteva farsi vedere, poiché necessariamente, quantunque avesse preso la medesima piccola porticina, pure per quelle camere doveva passare. Rimase dunque egli nascosto e ciò stimò in certo modo buona ventura perché disse a se stesso: «Se sono scoperto, potrò far tanto che la mia presenza in questa casa a quest’ora produca lo stesso effetto di una fuga».

Dopo circa un quarto d’ora di aspettazione sia per parte di Carlo che del Duca, il quale non cessò mai di passeggiare, un secondo piccolo colpo, ma questa volta alla porta principale, fece avvertito costui che la persona attesa era giunta; aprì l’uscio: pel primo si presentò il guardaportone, il quale con il berretto in mano annunziò al signore che colui che attendeva era giunto.

– Sia il ben venuto, – disse il Duca – sia il benvenuto: io l’attendevo con ansia.

Il guardaportone diede luogo e l’incognito della Pigna si i­nol­trò nella sala e poscia tacitamente seguì il Duca nell’interno del suo studio, dove si chiusero.

Carlo dal suo nascondiglio ebbe occasione di veder bene il sopravvenuto e di riconoscerlo, e dopo aver messo un piccolo grido di sorpresa, quasi preso da un lampo d’ispirazione, disse a se stesso: «E colui che viene a far qui? Gatta ci cova, bisogna osservare bene e pescare nel torbido», e dopo questo, invece di seguire il consiglio della vecchia cameriera, che l’invitava ad andar finalmente via, disse:

– No: ho veduto qualche cosa che può interessare la futura felicità mia e di Giuseppina, ed invece di partire è necessario nascondermi di nuovo per sentire ciò che dicono quei due.

La cameriera da principio cercava opporsi a questa risoluzione di Carlo. Ma poi, avendone vista la fermezza e compenetrandosi di ciò che egli diceva, l’aiutò a penetrare non più nello stanzino dove era rimasto fin allora, ma in un altro, che rimaneva alle spalle dello studio del Duca.

Colà nascostosi, Carlo stette tutt’occhi e tutt’orecchi a sentire il dialogo, che si faceva dai due nella stanza precedente.


[1] Antignano (che porta ad Agnano) è una delle zone più antiche del Vomero.

[2] Auriga di Achille.

[3] Della Regina delle Due Sicilie Maria Teresa (1816-1867), consorte di Ferdinando ii. L’affetto verso di lei fa parte della maggior considerazione che nel romanzo trapela nei confronti di Ferdinando rispetto al figlio Francesco.

[4] Annacquato.

[5] Gioco di parole sul doppio significato di nèspola: frutto e percossa.

[6] Appartamentino.

[7] Di vino.

[8] Cioè un’ora e mezzo prima del tramonto. Cfr. pag. 1, nota 2.

[9] Senza farsi notare.

[10] Solitario.

[11] Acconsentite.

[12] Il conto.

[13] Dietro il: a seguito del.

[14] Giovane elegante in modo ostentato. È più comune nella forma zerbinotto.

[15] Ferma.

[16] Presso.

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