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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XIV)

Posted by on Gen 16, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XIV)

Parte Seconda

Capitolo III. Ernesto il disingannato

Il Duca si era seduto ad un divano di raso rosso, che era situato in un angolo dello studio, ed aveva invitato l’altro suo compagno, il quale è uopo da questo punto chiamarlo Ernesto, perché non era altri che il protagonista del nostro primo racconto e che in questo secondo non lascerà di avere una parte importantissima a sviluppo delle sue avventure ed a chiarimento di molte cose che pare siano rimaste tronche e senza terminarsi nell’altro.

Ernesto dunque si era anch’egli seduto dall’altro lato del divano e fu il primo che prese la parola, dicendo:

– Signor Duca, ho avuto l’onore di ricevere una lettera, che non diceva niente più che darmi un appuntamento, al quale io sono venuto, aspettando ora sentire dalla vostra bocca ciò che forma l’oggetto della posta datami.

– Mi gode l’animo, signor Ernesto, di vedervi al mio fianco; non vi meravigliate di aver ricevuto un invito di tal fatta da un uomo che sapete per sicuro nutrire nel petto sentimenti totalmente diversi da quelli che avete sempre nutrito voi; ma oggi i tempi sono cambiati e se un giorno avrei potuto temervi come terribile nemico, adesso posso con franchezza stendervi la mano e stringere la vostra come quella di un amico, ed ardisco dire del più cordiale amico!

– Signor Duca, questo discorso…

– Non vi rechi meraviglia sentirlo. Io conosco tutta la vostra storia: essa mi è stata comunicata da una persona che la conosce profondamente e che in un momento molto solenne me l’ha partecipata, rimettendo anche a voi un suo ricordo.

– Una persona… un ricordo… spiegatevi meglio.

– La persona di cui vi parlo è la mia povera nipote Erminia.

– Che, Erminia!…

– La contessa Erminia, che voi non avrete per certo dimenticata.

– E che non dimenticherò mai, perché dessa è stata causa di una immensa quantità di dolori, che ho provato, e che…

– Non avreste sofferto, senza esservi incontrato in chi, immergendovi in un abisso senza fondo d’immoralità, di nequizia, d’infamia, mentre vi salvò la vita, vi fece perdere tutto ciò che avevate di meglio: l’onore.

– Signor Duca…

– Voi siete stato il martire della turpe causa che avete servito; poiché dopo tutto ciò che per quella avevate fatto, dovevate essere retribuito con tutta la possibile profusione. Ma un’o­pe­ra immaginata da Satana, menata innanzi con mezzi che solo il Re delle tenebre poteva mettere in campo; un’opera terribile di spoliazione e di vituperio, eseguita passo per passo, punto per punto mercé tradimenti, turpitudini, immoralità, non poteva produrre che questi frutti, ripeto; e l’ho detto anche ai primi fra i vostri caporioni, perché io ho raggiunto un’età che non mi fa temere la morte e perciò ho avuto il coraggio civile di alzare la mia fronte e la mia voce e l’ho detto. L’ul­tima rivoluzione, che tutti coloro i quali ci si sono trovati in mezzo nelle circostanze nelle quali vi trovaste voi, hanno creduto santa ed onesta, non è stata che la più perfida, la più crudele, la più iniqua ed ha rovinato, oh sì, sappiatelo, signor Ernesto, ha rovinato completamente la nostra bella Italia!

– Signor Duca, è inutile che voi mi parliate in tal modo: è gran tempo che io sono rientrato in me stesso ed avendo veduto e toccato con mano tutto quello che è succeduto, dopo di aver da principio supposto di servire pel bene del mio Paese, ho pur troppo conosciuto di aver contribuito al suo sterminio.

– Non un’ora di riposo pei popoli, non un giorno di respiro; l’avidità di ricchezze, lo sciupio delle forze produttrici di un Paese il più benedetto da Dio, l’impoverimento di una nazione e l’arricchimento di pochi vili e scellerati: ecco quale è stato il movente di una rivoluzione, tanto strombettata e tanto scellerata. Però un sol benefizio ha prodotto questa rivoluzione: che ha insegnato a coloro i quali hanno sempre parteggiato pel giusto e per l’onesto ad essere per l’avvenire più oculati, più cauti, a non fidarsi delle apparenze di calma, a star sempre sull’allarme ed aver sempre coraggio e non ammollirsi negli ozi imbelli che sono stati pel passato la rovina della buona causa; e ad essere più amici del proprio simile, ché questo sacrosanto precetto, sia detto fra di noi, era trasandato assai da diversi, se non da tutti. Erminia, mia nipote, aveva dei peccati, è vero, nella sua coscienza; ma non però[1] non avrebbe potuto rimettersi, mercé un pentimento ed una più regolare condotta per l’avvenire; ma caduta nelle mani di questi demoralizzatori[2], di questi uomini rotti a tutte le nefandezze, ne fecero una Frine, una Aspasia, una perversa, che appena giunta al punto estremo della sua vita si avvide del male che aveva fatto e cercò mercé un, spero, non tardo pentimento, rimettersi in grazia del Creatore ed aggiustare anche le sue cose di questo mondo. Perciò è, mio caro amico, che noi nel punto a cui siamo giunti, nella circostanza in cui entrambi ci troviamo, dobbiamo deplorare tutto il male fatto da questa infamia commessa da così vituperevoli uomini per spirito tenebroso di distruzione e riparare al mal fatto, aiutando con tutta le nostre forze ad aggiustare i mali passati. Ora, se volete, potete leggere la lettera di Erminia.

Ernesto aprì il foglio, lo scorse con tutta la pausa[3] possibile, quantunque fosse piuttosto lungo, e poscia, asciugandosi alcune lagrime, esclamò:

– Tu mi chiedi perdono, Erminia; ebbene: io te lo accordo. Così possa accordartelo il buon Dio e la mia povera Emilia, che tanto sofferse per cagion tua. Ma tutto ciò non mi spiega, signor Duca, lo scopo della mia chiamata presso di voi.

– Voi demoliste: voi dovete riedificare.

– Spiegatevi meglio.

– Io so che voi siete preso da vero pentimento di ciò che avete fatto.

– Ve lo confesso, ma…

– Comprendetemi: Don Emmanuele, vostro e stretto amico mio, mi ha parlato dei sentimenti che al presente vi dominano; ebbene: noi abbiamo posto l’occhio su di voi per far che tutto il passato resti nell’oblio e ritorni a splendere l’iride di pace per l’Italia in generale e pel nostro Reame in particolare.

– Don Emmanuele mi tenne qualche parola circa un tal fatto; ma io gli espressi i miei sentimenti e feci comprendergli che tutto ciò che egli diceva non poteva, almeno per adesso, essere effettuato.

– Sono del medesimo vostro avviso; ma noi non dobbiamo restringere le nostre idee a poche provincie e ad un punto solo del globo: guardate bene intorno, e riflettete a tre nomi che ora vi dirò.

– Quali sono questi tre nomi?

– Roma, Francia, Spagna.

– Capisco; ma…

– Colà si manifattura la nostra salvezza.

– Ed io?

– Come agiste per la causa dei perfidi, dovrete adesso agire per noi.

– E forse recarmi?…

– Come facevate allora, nei luoghi dove la vostra presenza ed esperienza in questa materia può essere più utile.

– Signor Duca, la mia coscienza da molto tempo mi morde, pensando a ciò che ho già fatto pel passato; adesso, sotto la vostra egida, mi si dà il mezzo per poter rimettermi dal mal fatto; ebbene: io accetto il patto.

– Voi partirete al più presto possibile. Visiterete in primo luogo la Francia e colà vi abboccherete con i membri principali del partito e poscia, seguendo le loro istruzioni, percorrerete la Spagna, vedrete diversi illustri personaggi dai quali dovrete dipendere ed a cui in sostanza servirete; le loro disposizioni vi saranno di guida, i loro ordini eseguirete senza rifletterci e se per poco lo spirito rivoluzionario da cui foste un tempo invaso vi ritenterà di nuovo, ricordatevi che al vostro fianco vi sarà sempre un braccio segreto che eseguirà la giustizia nel traditore.

– Signor Duca, non lo fui giammai in altri tempi e molto meno lo sarò adesso, che essendo rientrato in me stesso, posso apprezzare con più conoscenza di causa ove sia il bene, dove il male si nasconda. Le vostre minacce non avrebbero forza di farmi retrocedere dai miei preconcetti pensieri e basterebbe, se io temessi di voi e doppiamente di me, che vi dicessi: «signor Duca, non posso prestarmi ai vostri disegni». Ma no, io lo farò: e come un tempo fui agente segreto della rivoluzione, adesso lo sarò per le vostre aspirazioni. E se giunsi un tempo a far trionfare una causa indegna dell’ottenuto scopo, oggi, lo giuro, sarò completamente capace di fare il contrario! Datemi le vostre istruzioni.

– Le avrete domenica, nell’istesso modo che avete avuto la mia lettera.

– Va benissimo.

– Ed io sarò pronto ad accordarvi tutta la mia stima, nonché avrete quella di tutto il nostro partito, ed a cose fatte non troverete, come trovaste nell’altra occasione, degl’ingrati che [dis]conosceranno i vostri servizi.

– Non m’importa di compenso veruno. Allora era il mio misero stato e la mia famiglia, che mi facevano desiderare di guadagnar tanto per quanto avessi potuto vivere con esso; ma oggi il tozzo di pane nero che posso mettere nella bocca mi è sufficiente, ed avendo perduto ogni bene che avevo al mondo, sarei ben vile se coltivassi pensieri ambiziosi o di interesse. La vendetta, sì!, la vendetta pei dolori fattimi soffrire da genia d’inferno, la vendetta per le pene a cui sono stato condannato mi spingono ad unirmi a coloro che ho traditi o ingannati o che, schiacciati da momentanee circostanze, hanno dovuto piegare il collo innanzi a coloro che non sarebbero nemmeno stati degni di avvicinarli e servirli nelle opere le più basse; ma Iddio è grande ed il Sacro Cuore di Gesù proteggerà tutti coloro che sotto la sua protezione opereranno per il grande riscatto. L’ora si avanza, signor Duca, è uopo che io mi allontani: il vedermi uscire dal vostro palazzo potrebbe destar dei sospetti e se io fossi visto aggirarmi in questi quartieri potrei, invece di far bene, far molto male alla causa che ora di tutto cuore imprendo a difendere.

– Siamo intesi.

– Completamente!

– Un abbraccio.

– Mille.

– Il Sacro Cuore di Gesù ci protegga.

– Esso ci guidi nello scabro sentiero.

Pronunziate queste parole, Ernesto, preso ancora commiato dal Duca, partì velocemente e, prendendo per alla volta del Ponte di Chiaia e salendo l’erta montagna, si ridusse a casa sua, giurando in cuor suo di essere il più fedele della causa abbracciata, come un tempo ne era stato il più acerrimo nemico, modellandosi in tal modo sull’antico apostolo delle genti San Paolo, che da persecutore della Fede, mercé la grazia di Dio, ne diventò il principale sostegno ed il difensore e la fiaccola la più splendente.

Contemporaneamente quasi ad Ernesto, uscì dal palazzo un altro personaggio, che anch’egli era rimasto fin allora nel­l’om­bra, ed i lettori avranno indovinato che io intendo parlare di Carlo, il quale, per una semplice combinazione, si era trovato a sentire il discorso che avevano fatto i due ed aveva subito macchinato nel suo interno di profittarne, non solamente per lo scopo tante volte indicato, ma anche per qualche altro fatto, che anche prima di giungere al possesso della mano di Giuseppina avrebbe potuto abbisognargli.

Capitolo IV. Un po’ di storia

La storia è la maestra della vita: essa con aguzzo ferro incide sopra il marmo i fatti che giornalmente succedono e questi, letti e considerati da chi vi getta gli occhi sopra, rendono edotti gli uomini dei fatti passati. Qui parleremo di poche cose contemporanee, passate quasi sotto gli occhi di tutti noi e che vanno veramente studiate con attenzione, perché sono le conseguenze di un cataclisma di somma importanza, che hanno fatta cadere la nostra Penisola nel pianto e che hanno avvilito tutti i buoni, i quali sono stati travolti dal terribile torrente dei mali nell’abisso della miseria e della depravazione.

Tutti gl’Italiani e specialmente gli abitanti delle meridionali province, che spinti da un vero amore di patria avevano con ingenuità seguito i novatori ed avevano giurato sotto la parola del Maestro[4], che gli affari sarebbero andati meglio, si erano già da gran tempo ricreduti e si addoloravano di non aver saputo considerar prima quello che dopo le circostanze sopravvenute avevano fatto da loro. Anche coloro che erano stati gli agenti subalterni della rivoluzione e che ne avevano affrontati tutti i rischi e pericoli avevano compreso che avevano fatto male, perché anch’essi – tutti, tutti, niuno escluso – avevano ottenuto in compenso disprezzo, miseria ed oppressione.

I soli che godevano dei grandi cambiamenti fatti erano i satrapi rivoluzionari: coloro che, come dice il nostro volgo, sono pronti a dire «armiamoci ed andate», senza mai muoversi dal loro posto; costoro si consolavano, perché avevano saputo bene agguantare il ciuffo della fortuna ed insediatisi su posti eminenti, o di Deputati o di Senatori o di Prefetti e di quanto ci era di meglio, gavazzavano, imbrodolandosi nel sangue e nell’oro dei poveri loro compagni, e spesse volte sconoscendo perfino coloro a cui avevano stretta la mano nei momenti esecutivi della rivoluzione e sconoscendoli se questi di loro avessero avuto bisogno, dicendogli che i tempi erano mutati e che inutilmente piativano, essere più urgenti i bisogni della patria in generale, che quegli di chi per i cambiamenti avvenuti, quantunque del medesimo colore, avesse bisogno di aiuto, di sostegno, di compenso.

Le tasse, novella piaga, più terribile di quelle che il sommo Dio mandò in Egitto, avevano con le loro branche avvinghiato tutti gli uomini, i loro beni e loro industrie e l’avvilimento il più terribile regnava in quelle classi che un tempo erano state le più fertili e produttive di ricchezze.

I commercianti, e specialmente quelli che esercitavano il piccolo commercio; gli avvocati, essendo talmente divenuto ingarbugliato e costoso il procedimento delle cause; gli artisti avviliti, non potendo più le classi agiate incaricarsi di loro, dovendo versare nelle grinfie del governo tassatore il superfluo delle loro rendite e tante volte anche il necessario; i letterati, caduti nell’infimo della miseria, non potendo più ricavar frutto dai loro talenti; e per conseguenza tutto il codazzo degli altri che vivevano alle spalle di queste primarie classi erano precipitate precisamente a valle e non potevano più ergere la lesta e respirare un istante.

I costumi erano corrotti e guasti in maniera che la nostra non si poteva più né si può chiamare una società civile, ma una riunione di uomini depravati, di tagliaborse, assassini, meretrici e cose simili; uno schifo, insomma, per ogni cuore ben formato; e per quanto si fosse guardato per distinte[5] l’avvenire si vedeva più e più[6] nero, senza speranza di poter ritornare indietro, senza illusione alcuna di un piccolissimo miglioramento.

Quello poi che aveva posto il colmo al disinganno ed al dispiacere di tutti, o specialmente dei buoni Napolitani, era il disprezzo in cui si era fatta cadere la Religione di Cristo, Palladio principale del benessere delle Nazioni: l’aver permesso il sorgere di tante Chiese Protestanti, seminate per tutta la Città, l’impianto di una quantità di scuole Evangeliche nelle quali s’insegnano l’immoralità e l’atei­smo e in cui ogni giorno i dispregiatori della Chiesa Romana esercitano pratiche false ed oscene.

Proibite le processioni, proibite le luminarie, proibito il suono del Campanello innanzi il Santo Viatico; e mentre nel primo articolo della Costituzione bandita come legge fondamentale del Regno si proclamava la Religione Cattolica quella di esso[7], nell’applicazione poi singolare delle cose la si disprezzava, la si opprimeva e con essa i suoi ministri, perseguitandoli e spogliandoli; e perfino le Sacre Vergini, che tranquille e devote, non facevano che alzare le loro preghiere nei chiostri, ne erano barbaramente cacciate per elevare in luogo degli antichi Monasteri e Case, teatri ed ogni altra specie di alberghi nei quali le oscenità ed il vizio trovavano ricetto.

Gli spregiudicati da principio simulavano, perché speravano che tutto questo male avrebbe, se non altro, prodotto un bene materiale al Paese, il quale avesse in qualche modo equiparato lo sterminio fatto di tutto quello che si era distrutto; ma a poco a poco anche essi si erano persuasi che il bene era terminato completamente e che non altro rimaneva, e sarebbe seguitato a rimanere, che il terribile sperpero, la fatale demoralizzazione e lo sciopero[8] tremendo che era fatto di tutto; ed erano anch’essi pentiti di ciò che avevano eseguito, riandando col pensiero al passato prospero, tranquillo e felice, sperando che tutto potesse ritornare indietro, aspirando ora al contrario di quello che avevano di già aspirato.

Tutte queste cose formavano un cumulo di malcontento, che a poco a poco minava la grandiosa e soprannaturale unità d’Italia, la vita del novello Stato sorto sulle rovine dei sette – più piccoli è vero, ma prosperi e beati – e preparavano ciò che per ora non ancora si vede, ma che non tarderà certamente fra non moltissimo tempo.


[1] Perciò.

[2] Uomini contrari alla morale.

[3] Calma.

[4] Giuseppe Mazzini (1805-1872).

[5] Per distinte: con attenzione.

[6] Più e più: sempre più.

[7] Statuto Albertino (1848). Art. 1. «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana, è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi».

[8] Disordine.

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