Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Itri: all’ombra del secolare santuario della Madonna della Civita

Posted by on Gen 31, 2023

Itri: all’ombra del secolare santuario della Madonna della Civita

Pittoresca cittadina, posta a 170 metri sulle pendici dei monti Aurunci, all’ombra del secolare santuario della Madonna della Civita, meta di frequenti pellegrinaggi dalla regione, dalla Campania e dall’Abruzzo, per venerarvi la miracolosa immagine della Vergine, che la tradizione locale vuole  dipinta da S. Luca Evangelista.

In una sala annessa al famoso santuario, che si aderge, ermo e maestoso, sono esposti numerosi ex voto, lasciati dai fedeli  per grazie ricevute. Sono dipinti ad olio su tavola o su tela, di cui i più antichi risalgono al Settecento. Vi è, inoltre, una galleria di ex voto moderni come fotografie, oggetti simbolici in argento, che testimoniano il perdurare del forte sentimento di religiosità popolare.

 Si giunge sul monte Fusco percorrendo la serpeggiante strada della Valle del Liri, n. 82, molto pittoresca, con magnifico panorama, vasto e vario. Nell’ estremo orizzonte scintillano, tra le velature sottili dell’aria, le isole di Ischia, di Ponza, di Palmarola, di Zannone, di Ventotene, di S.Stefano, emergenti dalle onde come immensi gusci di testuggini.  A destra, il lago di Fondi incorniciato dai monti  delle Fate, del Romano e del Tavanese, dal promontorio del Circeo, con le sue mura ciclopiche, da Rerracina, guardata dal tempio di Giove Anxur, mentre, al di qua di Porta Napoletana, si slargano, in cerchio, come un mezzo anfiteatro,  le catene dei monti Ausoni, Lepini, Ernici, Aurunci.   In questa sacra  solitudine la rande voce dell’infinito parla  al cuore. Pertanto la scelta di erigervi un santuario degno della Madre di Dio non poteva cadere più a proposito. Sorvoliamo sulla leggenda, secondo cui l’icona della Vergine, posatasi tra i rami di una quercisa, presso Itri, fu venerata da un bue genuflesso, che pascolava nei dintorni, e da un pastore. Una tradizione asserisce che l’immagine è venuta dall’Oriente ed è antichissima riproduzione di un originale tenuto in grande venerazione in Costantinopoli, perché appartenente al gruppo di quelli creduti di S. Luca Evangelista e facilmente  eseguita sul Monte Athos. In seguito, per metterla in salvo dal furore iconoclasta, fu trafugata da due monaci, soprannominati “Calogeri”, in Sicilia e forse proprio a Messina. Di qui, dopo un periodo di sosta, forse per il desiderio di allontanarsi da luoghi troppo esposti alle violenze bizantine ed in vista di altre persecuzioni risorgenti, gli stessi monaci che l’avevano sottratta  raggiunsero le spiagge di Gaeta e dopo il monastero di Fgline , eretto prima del Mille dai benedettini. Ivi  sostò alquanto’immagine preziosa, che adornò poi le cime del  monte Civita e vi ebbe stabile dimora, essendo stata costruita una chiesetta  con il convento, nata con l’occasioine stessa del quadro.  Infatti  è storicamente documentato  che la chiesetta esisteva fin dal 1137. Essa, però, non era  costruita soltanto allora. In quell’anno veniva riedificata da un tal Padre Riccardo, abate del monastero di S. Giovanni Evangelista in Figline, alla dipendenza del quale era posta. Nel 149l la chiesetta fu restaurata e solennemente consacrata dal vescovo di Gaeta, Patrizi, e il santuario ingrandito. Nel 1826 la vecchia chiesa  fu sostituita  dalla presente, a tre navate: quella di mezzo di mediocre grandezza e le due laterali più piccole, tutte a volta, con quattro cappelle. Lo stile è un  frammisto di romanico e di Rinascimento. Il campanile, notevolmente slanciato, è intonato allo stile della  chiesa. La pittura della venerata icona, una  tela grossa su tavola, incastonata nel tabernacolo marmoreo dell’altare maggiore, è in “linitura di gesso”, cioè uno di quei preparati a base di quel tipo di assorbenti, quali sono la tela e l’intonaco fatto di gesso e di creta, cui si deve la conservazione di molti quadri antichi come in tal modo giunsero inalterati fino a  noi.

   La Madre di Gesù è seduta sul trono in atteggiamento di soave tenerezza e con le braccia protese. Ella regge il Bambino sulle ginocchia , il quale solleva la destra benedicente e posas l’altra sul globo, sormontato da una Croce. Con la presenza della taumaturgica  effigie, la Civita  è divenuta centro di vita religiosa e morale.  Molte le grazie e i favori ottenuti dal popolo itrano e da altri popoli limitrofi, con il patrocinio di Lei. Un’epigrafe murata nel nartece della chiesa ricorda le due solenni incoronazioni (1777 e 1877). Il grande prodigio della liberazione dalla pestilenza, che devastava il regno di Napoli, ispirò  l’istituzione della  festa ill 21 luglio 1527. Su questo colle trasse conforto Pio , esule da Roma, per un trionfo effimero dei nemici della Chiesa, seguito da Ferdinando II, il re delle Due Sicilie, dal cardinale Antonelli e dal conte Spaur. Un affresco della volta della chiesa e due lapidi marmoree, nell’entrata,  ne ricordano  l’avvenimento. Vi sostarono e vi pregarono il B. Paolo  Burali d0Arezzo, S.S. Paolo della Croce, il B. Gaspare  del Bufalo, la B. Maria de Mattias, il Ven. Giovanni Merlini, il Ven. Gaetano Errico, o principi Don Prospero Colonna e Alessandro Ruspoli e innumerevoli folle di popolo in devoto pellegrinaggio per implorare perdono e pentimento. L’amministrazione  e la rettoria del luogo pio si alternarono, attraverso i secoli, tra sacerdoti secolari e vari Ordini e Congregazioni religiose. Dal 1947, esso è affidato, per benevolo compiacimento di S. E., Mons. Dioni Casaroli, Arcivescovo , alle cure zelanti dei Figli del Servo di Dio Don Luigi Guanella (1842-1915), la cui opera è conosciuta e diffusa in Italia e fuori. Sotto l’impilso del fervore religioso di questi benemeriti, il santuario è tornato ai pristini splendori.  Lavoro, preghiera e discipina ne caratterizzano la vita di comunità. Un camerone del santuario accoglie già un notevole numero di Ordini, mentre fervono i lavori per sistemarvi anche un ricovero di mendicità. La sala dei pellegrini  viene, man mano, guarnita di letti a tavole. Purtroppo l’insigne santuario, che irradia  luce soprannaturale dappertutto, ‘ privo di luce elettrica.

   Siamo certi, però, che la generosa corrispondenza dei benefattori e dei devoti non renderè vana ogni iniziativa di bene e di progresso sociale dei Figli di Don Guanella.

  Da“Lazio rustico e sconosciuto” di Livio Jannattoni, per le edizioni Newton Compton, stralciamo un breve  brano significativo sul luogo santo, che attesta la magnificenza dell’ambiente : “Una vallata incredibile, quasi non contrassegnata da insediamenti umani. Solo, ad ogni curva, appare e scompare il Santuario della Madonna della Civita, stimolando tutte le nostre curiosità e vincendo sul desiderio di una pennichella su quell’erba. Dai 550 metri del bivio saliamo così ai 573 del Santuario, confortati dai cippi stradali di un tempo : “59 da Napoli”, ovverossia miglia. Siamo ancora nel Gruppo degli Aurunci, e gli Ausoni sono a portata di sguardo. Il cielo si rispecchia nel frastagliato contorno del Lago di Fondi, ma il panorama, punteggiato da boschi di carrubi, di lecci, di querce e di faggi, arriva al Circeo, alle Isole Ponziane”, la cui natura emana, esaltandosi, la sua anima abbondante e segreta.

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Il grazioso paese, centro agricolo e commerciale (oliva in salamoia e olio), che  consta di due parti, separate dal torrente Pontone, è dominato da una fortezza dalla  singolare articolazione dell’insieme (resta, ben conservata, una torre cilindrica con solida base scarpata, che si collega al  corpo principale più arretrato tramite una lunga cortina merlata). Passando all’analisi del castello, spiccano un’alta torre quadrata, il mastio, ed una poligonale, molto danneggiata dai bombardamenti angloamericani. Le tre torri sono state erette sulla cima della collina, nella parte più antica, disposta ad anfiteatro, con anguste strade a spirale, con lenzuola stese al vento e a gradoni ripidi.

Nomi celebri hanno soggiornato qui. Il pensiero va  a Torquato Tasso, al pontefice Urbano VI, a Michele Pezza, ma anche alla contessa Giulia Gonzaga, dama bellissima, che riparò nel munito fortilizio di Itri per sfuggire alle grinfie del corsaro Ariadeno Barbarossa. Entro la cerchia delle mura furono costruite le chiese  di Santa Maria Maggiore e di San Michele Arcangelo: la prima ha un campanile risalente alla seconda metà del Duecento, caratterizzato da una decorazione policroma, di origine e di gusto bizantino, sugli esempi di Caserta Vecchia, di Ravello e della costiera amalfitana; la seconda, la più antica di Itri, innalza la sua poderosa struttura con la cella campanaria dalle trifore coronate ad archi intrecciati in laterizio rosso sanguigno, motivo di origine araba, mentre, nella parte sottostante, vi sussistono forme locali ispirate alla tradizione. Una elegante trifora si apre nel mezzo della parete. Essa è formata da sottili colonnine in marmo, alcune lisce ed altre a tortiglione, su cui poggiano i già citati archetti intrecciati in mattoni. Gli archetti, a sesto acuto, con l’imposta molto rialzata, hanno una leggera cornice in tufo che delimita e riquadra il motivo.

Itri è nota per aver dato i natali a Michele Pezza, meglio conosciuto come “Fra’ Diavolo”, eroico colonnello e duca di Cassano allo Ionio, vissuto durante il periodo napoleonico, che lottò con coraggio e valore contro le armate francesi tra la fine del Settecento e l’inizio del XIX secolo rendendosi protagonista di avvincenti battaglie.

   E’ nato ad Itri anche il papa Urbano VI, che, secondo il canonico Ludovico Antonio Muratori, storico e letterato, possedeva grande probità e molte altre virtù. Il Prignano era considerato uomo onesto, stimato per il rigore morale e per la profonda conoscenza delle norme di diritto canonico, per cui era considerato il più idoneo fra i candidati al soglio pontificio. essendo poi uomo gradito al partito dei francesi, in quanto suddito fedele della casa d’Angiò di Napoli. Erano sedici i cardinali entrati, il 7 aprile 1378, nel conclave di Roma, di cui quattro erano italiani, uno spagnuolo ed undici francesi, del gruppo dei cosiddetti limosini. Bartolomeo, arcivescovo di Bari e vicecancelliere della Chiesa, era stato uomo di curia (aveva prestato servizio presso la Cancelleria Apostolica per più di quattordici anni, già dal 1364, in maniera esemplare, mostrando straordinarie abilità), che pretendeva un comportamento consono alla dignità della porpora ed una estrema severità di costumi esigendo la riforma dello sfarzo cardinalizio, lui che indossava, a detta dell’Oldoino,  una tunica talare di un mediocre panno di lana e un penoso cilicio, quando dormiva. Il Prignano fu intollerante verso tutti, per cui i cardinali, partitisi da Roma, per le ferie estive, convennero in Anagni e lì, con a capo Robert di Ginevra, dichiararono nulla l’elezione dell’itrano, incoronato dal cardinale protodiacono Giacomo Orsini, intimandogli la rinuncia al trono, essendo essa estorta dalla violenza popolaresca. Dietro i cardinali infedeli, che lo avevano eletto e partecipato all’incoronazione, il giorno di Pasqua (8 aprile), e riconosciuto per mesi, proclamandolo con “magnum gaudium”al mondo intero con lettere circolari, eccetto l’Orsini, si ergeva la potenza francese, che, per 70 anni, aveva tenuto in soggezione servile il papato,.vincolato agli interessi francesi. I porporati si trasferirono  poi a Fondi, un luogo meglio munito e più sicuro, sotto la protezione del conte Onorato Caetani, nemico giurato del papa, eleggendo nuovo pontefice lo zoppo ed orbo Robert da Ginevra, lo stesso che, ad elezione avvenuta del Prignano, gli porse rivererenza ed ossequi, assieme ad altri cardinali, indirizzando lettere all’imperatore Carlo  e ai principi del Belgio e d’Inghilterra. Inizia il doloroso, tempestosissimo “Grande scisma d’Occidente”, che procurò grandi danni e turbamenti alla Chiesa: il popolo cristiano, in questi tempi burrascosi, si divise in due fazioni. Si divisero anche le università, i Dottori della Chiesa, i principi, i santi. Santa Caterina da Siena, al secolo Caterina Benincasa (la mistica sublime, che ci ha lasciato, con le “Lettere”, uno dei più singolari e più vivi documenti della nostra letteratura, fu il braccio destro di Urbano VII scrivendo a questo valoroso campione della Chiesa due lettere per animarlo alla vittoria contro l’Anticristo e ad essere generoso con i vinti)  e Santa Caterina di Svezia, due sante che irradiarono le tenebre di quell’età, il beato Pietro d’Aragona e Gerardo Groote sostenevano il pontefice di Roma, mentre San Vicent Ferrer, uno dei più famosi predicatori del Medioevo,  e il beato Pietro di Lussemburgo, morto a diciotto anni, in concetto di santità, parteggiavano per l’avignonese, imparentato con diverse case principesche. Tutte anime elettissime. Le ragioni nazionali e politiche si aggiungono a quelle ecclesiastiche. Francia, Aragona, Castiglia, Svezia, Savoia, Napoli stanno per Clemente VII; Carlo IV e gli altri Stati cattolici per Urbano VI. A Nocera, auspice Carlo di Durazzo, ultimo erede della stirpe angioina, nel maggio del 1384, sei cardinali si accordarono per assassinare Urbano VI. Essi congiurarono per deporre il papa volendo porlo sotto la tutela di alcuni di loro, e lo dichiararono simoniaco, scismatico ed eretico. Svelata la congiura, i cardinali sediziosi furono arrestati con l’accusa di lesa maestà, deposti dalla loro carica e  messi in dura custodia nelle segrete del castello di Nocera, appartenente al nipote di Urbano VI, Francesco Prignano, per strappare da loro le confessioni. Intanto i soldati regi avevano posto l’assedio al castello, dove si trovava il pontefice, e saccheggiavano e tormentavano gli abitanti della zona, sobillati contro di loro da Urbano VI. La  tradizione ci ha tramandato un Urbano inflessibile nella resistenza, il quale, nel giugno del 1384, tre o quattro volte al giorno, dall’alto della torre centrale della fortezza, malediceva e scomunicava gli assedianti, al suono di una campanella nella mano destra e una fiaccola accesa nella sinistra, mentre i soldati del re Carlo di Durazzo rispondevano con sberleffi di varia natura. Il Prignano scomunica anche il perfido Carlo III di Durazzo dichiarandolo decaduto da re di Napoli. Il durazzesco non si accontentò del solo assedio, ma trascese fino a porre una taglia  di diecimila fiorini sulla veneranda persona del Vicario di Gesù Cristo.  Egli aveva voluto calpestare la tiara pontificia e male gliene incolse. Carlo di Durazzo si era mostrato dissennato, irriverente ed ingrato, considerato che Urbano VI gli aveva prodigati grandi benefizi, aiutandolo nella guerra contro la scismatica Giovanna d’Angiò con ottantamila fiorini, ricavati dal pignoramento di calici e di altre preziose suppellettili chiesastiche.

  Bartolomeo, nel passato, si era servito anche del grande condottiero Alberico da Barbiano, conte di Cunio, comandante della “compagnia di San Giorgio”, che fu la scuola dei più famosi condottieri italiani. Il 21 aprile 1979 il legittimo pontefice aveva emanata la bolla contro Giovanna regina di Napoli, dichiarandola scismatica  ed eretica, perché sosteneva l’antipapa Clemente VII, ovvero il “boia di Cesena”, la cui mano grondava del sangue versato in questa città, paragonato da S. Antonino, Arcivescovo di Firenze, ad Erode e a  Nerone per le sue crudeltà.  Il Prignano aveva invitato Alberico a difenderlo. Allora si chiarì lo spirito proprio di quella compagnia, che era decisamente cristiano, o meglio “filo pontificio”. Alberico risponde all’appello e si porta a Roma per ricevere dalle mani del papa un vessillo benedetto. A pochi chilometri dalla Città Eterna, lo aspettano i Bretoni dell’antipapa, comandati da Bernardon De La Salle e dal conte di Montjoie. Lo scontro avviene nell’aprile del 1379, presso Marino. Cinque ore di battaglia, alla fine delle quali la compagnia di Alberico  risulta vincitrice. Per la prima volta, le armi nazionali avevano riportato la vittoria su una banda di predoni stranieri. L’Italia si risvegliava dal suo letargo. L’occupazione di Castel Sant’Angelo e la vittoria di Marino  assicuravano ad Urbano il totale controllo di Roma costringendo Clemente VII e gli scismatici a ritirarsi prima a Napoli e poi ad Avignone. A Roma per Alberico  c’è il trionfo. Urbano VI era diventato ormai il vero padrone di Roma. La vittoria di Marino gli aveva dato la forza di sedare una rivolta provocata forse dai suoi modi dittatoriali o da agenti dell’antipapa.

   Urbano VI celebra una grande festa, che culmina in una solenne processione di ringraziamento da S. Maria in Trastevere  fino a S. Pietro,  e assegna al suo glorioso capitano, nominato “Cavaliere di Cristo”, uno stendardo che diventerà l’insegna della compagnia, “Italia liberata dai barbari”. Da qui la retorica patriottico-risorgimentale. La lunga, imponente processione, composta da cardinali, da vescovi, da sacerdoti e da chierici, mosse salmodiando da S. Maria in Trastevere fino alla basilica di S. Pietro. Urbano VI, su suggerimento  di Caterina da Siena, la sua più sincera e strenua sostenitrice, compì l’intero tragitto a piedi e senza calzari. Il vicario di Cristo, vestito dei paramenti più solenni, camminava a piedi nudi tra le pozzanghere e la sporcizia delle strade romane.Per questo fatto, Santa Caterina da Siena, una delle maggiori  figure femminili della storia ecclesiastica, lodò il papa per la sua umiltà, lei che già aveva sostenuto, con vibrante passione, la legittimità di Urbano, che accorcia la celebrazione del Giubileo portandolo a 33 anni e fissandone, con la bolla  “Salvator  noster unigenitus”, la data al 1390. in ricordo della durata della vita terrena del Salvatore. Voleva bandirlo, ma, indebolito dall’età, affranto da tante cure,  la morte lo afferrò improvvisamente, spirando il 15 ottobre 1389 in S. Pietro, dopo undici anni, sei mesi e sei giorni di pontificato, dove fu sepolto. Dietrich von  Nieheim, che fu il suo segretario, ebbe a dire, a sua lode, che Bartolomeo non si occupò mai di traffici simoniaci, né fece mercato delle cariche ecclesiastiche e che, nonostante ciò, alla sua morte, nelle casse della Chiesa lasciò molto più oro di quanto ne avesse trovato.

   La memoria di questo pontefice è troppo smodatamente vilipesa, essendosi mescolato il verosimile al vero, usato da scrittori accorti e non benevoli verso la Chiesa cattolica. Bartolomeo era paziente nelle avversità, soccorreva gli infelici nelle loto calamità ed osservava rigorosamente tutti i digiuni ecclesiastici. Tale era Bartolomeo Prignano nel sessantesimo anno di età, quando Dio lo chiamò a reggere la sua Chiesa in tempi eccezionalmente turbinosi, la cui navicella  era sbattuta da tanti marosi. Dietrich von Nieheim gli riconosce preclare virtù, l’amore della giustizia, la castità, l’odio ai doni e alla simonìa, il mercanteggiamento delle cariche ecclesiastiche, un peccato in grande uso in quel secolo, la benevolenza verso i buoni ed i dotti uomini, la diligenza e la coscienziosità nel trattare gli affari, la pietà e la modestia, ma soprattutto   l’intransigenza nel difendere il diritto della Chiesa di fronte a tutti, non cedendo davanti a nessuno, persuaso dell’inviolabilità del proprio diritto. La sua volontà è ostinata ed intransigente nell’esigerlo e nel difenderlo, anche al di fuori dell’utilità pratica .Lo dimostra nella causa contro Francesco del Balzo, duca di Andria, usurpatore dei beni ecclesiastici della diocesi di Acerenza.

   Ci muove, quindi,  carità di patria  nel rivendicare la memoria del nostro illustre concittadino, che ascese il soglio pontificio  per le sue molteplici virtù; ci spinge l’amore verso la Chiesa cattolica per difendere un papa troppo ingiustamente calunniato da pochi scrittori antichi e moderni, la maggior parte francesi che vivevano alla Corte dell’antipapa Clemente VII, che avevano tutto l’interesse a denigrare la memoria dell’autentico vicario di Cristo in Terra, che, con innegabile volontà riformatrice, intendeva purificare la Chiesa estirpando  la bruttissima pianta della simonìa. Le loro dicerie, che oggi si ripetono, sono perlomeno sospette, e non possono formare, quindi,  argomenti validi contro la memoria di Urbano VI, un uomo dotto e santo, la cui elezione fu “canonica” e “libera”, quindi valida, essendosi i porporati posti in fila per rendere omaggio al Prignano baciandogli i piedi, le mani e la bocca, secondo l’uso corrente, e  cantando il “Te Deum”.

   Nelle Grotte Vaticane. trovasi ancora il suo sarcofago, che mostra S. Pietro che consegna al pontefice la chiave bipartita. Urbano è inginocchiato dinanzi al visitatore.

Alfredo Saccoccio

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