Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (III)

Posted by on Feb 6, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (III)

Verso l’ignoto 

A Marsala la notte è trascorsa tranquilla. Le guarnigioni borboniche di Trapani e Sciacca sono rimaste al loro posto.

Il sole fa capolino dalle colline ad oriente e sveglia la natura ed i garibaldini che hanno riposato dalle fatiche del lungo viaggio. Il nuovo dì, sabato 12 maggio, inizia col suono delle campane delle numerose chiese di Marsala, richiamo ai fedeli per la prima Messa, mentre i contadini ed i pastori lasciano le case per recarsi nelle campagne, dove cominciare la dura giornata di lavoro. Il mare è calmo e in lontananza si notano le navi napolitane che rimorchiano il Piemonte. La giornata è soleggiata ma fresca, con l’erba bagnata dalla rugiada.

Figura 41 – Garibaldi in groppa alla giumenta Marsala

Le trombe suonano la sveglia e poi l’adunata, e le compagnie si inquadrano nelle piazze. I carabinieri genovesi marciano dentro la città, attraversando viuzze strette e deserte, accanto a casupole basse ed aperte, dentro le quali si vede in qual miseria vive quel popolo.

Tutta la brigata si riunisce nel borgo prossimo alla porta che mette sulla via di Palermo. Di fronte alla brigata inquadrata appare il generale su una giumenta bianca che ha ribattezzato Marsala, appena donatagli da un certo Sebastiano Giacalone. Indossa la camicia rossa di flanella, i calzoni grigi, il cappello all’ungherese e al collo ha annodato un fazzoletto di seta. Sulla groppa del cavallo tiene ripiegato il poncho. Attorno ci sono alcuni ufficiali dello stato maggiore e le guide. Garibaldi guarda negli occhi gli uomini schierati. Il suo sguardo esprime serenità e fiducia e riesce a trasmetterle ai volontari.

Sono pochi i marsalesi che hanno risposto all’appello: Tommaso Pipitone, Gerolamo Italia, Federico Messana e la moglie Maria Giacalone che segue la colonna come vivandiera. C’è anche un frate di nome Francesco. Troppo poco, ricordando ciò che avevano raccontato e promesso i siciliani Crispi e La Masa.

A Marsala rimangono tre garibaldini malati, ricoverati presso l’ospedale: Davide Antonio Balboni, Giovanni Pasini e Antonio De Paola. Per loro si teme la rappresaglia borbonica, se la truppa nemica dovesse ritornare, così sono stati affidati al console britannico Collins.

Le trombe suonano e inizia la marcia quando da circa tre ore si è levato il sole. Aprono la marcia le guide di Missori. Seguono i carabinieri genovesi di Mosto. Poi le compagnie per numero d’ordine: Bixio, Forni, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Cairoli e Bassini. I cannoni, le munizioni e le salmerie sono caricati su una quarantina di carri e carretti e scortati da pochi artiglieri e marinai. I carretti sono tipici veicoli locali, trainati da un singolo equino, con due ruote molto alte, indispensabili a superare i numerosi fossi delle trazzere. Gli scacchi dei masciddàri[1]e del puttèddu[2]sono dipinti con scene che ritraggono madonne e santi, ma anche scene di battaglia con paladini, crociati e saraceni. Chiudono la colonna la sanità, gli intendenti e il genio. Si marcia su due file ai cigli della strada e il generale, smontato dalla cavalcatura, si affianca un po’ qua e un po’ là parlando e incoraggiando i suoi ragazzi.

Si passa tra campi di grano quasi maturo, vigneti ed uliveti, dove gruppi di contadini sospendono il lavoro e guardano sorpresi e con la bocca aperta quegli strani soldati. I volontari, allegri, iniziano a cantare La bella gigogin[3]:

Rataplan! Tamburo io sento / che mi chiama alla bandiera. / Oh che gioia, oh che contento, / io vado a guerreggiar! / Rataplan! Non ho paura / delle bombe e dei cannoni, / io vado alla ventura, / sarà poi quel che sarà. / E la bela Gigogin / col tromilerilerela, / la va a spass col sò / spincin,tromilerilerà. / A quindici anni facevo all’amore. / Daghela avanti un passo, delizia del mio core! / A sedici anni ho preso marito. / Daghela avanti un passo, delizia del mio core! / A diciassette mi sono spartita. / Daghela avanti un passo, delizia del mio core! / La ven, la ven, la ven alla finiestra. / l’è tutta, l’è tutta, l’è tutta insipriada. / la dis, la dis, la dis che l’è malada / per non, per non, per non mangiar polenta, / Bisogna, bisogna, bisogna avè pazienza, / lassala, lassala, lassala maridà. / Le baciai, le baciai il bel visetto. /  Cium, cium, cium! / La mi disse, la mi disse: -Oh che diletto, / Cium, cium, cium! / Là più in basso, là più in basso in quel boschetto, / Cium, cium, cium! / andrem, andrem a riposar. / Ta-ra-ra-tà-tà.

Ma il sole che comincia a picchiare sodo come fosse luglio e la polvere che s’infiltra nei vestiti, in bocca, nelle narici, negli occhi, ha infine ammutolito quei giovani sudati, affaticati e assetati. Dopo aver percorso un tratto della via consolare, si devia su un angusto sentiero che penetra in una distesa di vigneti.

Dove si va? Qual è la meta? Dove sarà la prossima sosta, visto che le gambe cominciano a cedere e la sete brucia la gola? Si va verso l’ignoto! È scoccato mezzogiorno e si è giunti in contrada Buttagana, una conca fitta di vecchi ulivi al centro della quale si erge una grande fattoria bianca, proprietà della famiglia Alagna. La tromba suona l’alto e si concede mezz’ora di sosta. I giovani, stanchi e sudati, si buttano all’ombra sotto gli alberi. Vicino alla casa c’è un gran contenitore con vino mischiato ad acqua, e quella miscela è servita con delle scodelle ai volontari che passano da lì. Altri vanno a riempire le fiasche nel pozzo in mezzo all’aia. Giò beve con avidità quella fresca linfa che porta via la polvere e toglie l’arsura dalla gola, provando una sensazione di rinascita. Poi assapora quel pane saporito e profumato di Marsala che, condito dalla fame, assume le sembianze di un gran banchetto. Anche il generale, seduto su un cippo all’ombra di un ulivo, mangia del pane e del cacio, guardando con pena alcuni volontari privi di borracce, messi in fila per bere la miscela.

La mezz’ora è trascorsa e bisogna rimettersi in cammino, ma non bastano le urla e le minacce di Bixio e degli altri ufficiali a far alzare quei ragazzacci affaticati stesi all’ombra. Ci vuole l’ordine del generale, allora, in pochi minuti, la colonna si ricompone e riprende la marcia. Superata la collina che chiude la conca, davanti agli occhi dei garibaldini appare una superficie ondulata priva, di alberi, di case, di colture, di corsi d’acqua. Solo erbacce assetate da un sole estivo. Un deserto! O le Pampas, come dice Antonio Pagani, vissuto in Argentina da ragazzo. Di chi è la colpa di tutta quella miseria? Del disboscamento? Del latifondo? Del feudalesimo? Del clero? Il fatto è che quel deserto sgomenta i cuori dei volontari.

Il sentiero è sassoso, ripido, pieno di curve e il fucile diventa sempre più pesante. Il fratello di Antonio Mosto, Carlo, sembra cedere alla fatica, allora Giò si mette addosso il suo fucile, mentre Paolo Fasce lo sostiene sotto l’ascella. Sono dei Simone di Cirene in camicia rossa. C’è un grande spirito di corpo tra i genovesi!

Un tal Rosario Calamuso, contadino di Calatafimi, fa da guida e ha annunciato che le squadre di picciotti si stanno raccogliendo a Monte San Giuliano per poi unirsi a Garibaldi. Infatti, ecco arrivare l’avanguardia dei rivoltosi. È formata da un gruppetto di uomini a cavallo e armati di doppiette, comandati da Stefano Triolo dei Baroni di Sant’Anna, accanito oppositore dei Borbone. Il generale li accoglie con gioia e affettuosamente, ricevendo la notizia che il Sant’Anna può raccogliere circa cinquecento uomini. Finalmente, dunque, arrivano i siciliani!

Quando il sole arrossato va a nascondersi dietro le colline verso il mare, si arriva finalmente nel feudo di Rampingallo, proprietà del marsalese barone Genna, previsto come stazione per la notte. Tra vigneti e campi di fave si erge un colle sul quale è sita una massiccia e malmessa masseria che i contadini del luogo chiamano castello. Il generale è accolto dal fittavolo, signor Alberto Maria Mistretta di Salemi, il quale mette a disposizione la proprietà e tutto ciò che vi è dentro[4].

Giò si guarda intorno, cercando di che dissetarsi. Prima mangia qualche baccello di fave, poi scende in un dirupo, al buio, inciampando sugli ostacoli, ma trovando infine una fresca sorgente, dove sazia la sua sete, eliminando la terribile arsura. Lasciando il fortunato luogo ai suoi commilitoni in fila, risale e guarda il maniero, le stalle, le terre attorno e i contadini che vi lavorano, e tutto gli appare antico, medievale, feudale, ricettacolo di privilegi e di prepotenze.

Gli uomini, per compagnie, si accampano davanti a quell’ampio casamento su di un pendio erboso, sistemando i fucili in fasci, e sdraiandosi sul campo umido. Il cielo è coperto di nuvoloni grigi e non promette nulla di buono, ma l’aria carica d’umidità rinfresca quei giovani stanchi e arsi dal sole che durante la marcia li ha fiaccati.

Sono arrivati altri insorti: alcuni appartengono ai Sant’Anna, altri a Michele Oliveri di Partinico. I capi montano su alti cavalli bardati e imbracciano lungi fucili monocanna. Gli uomini a piedi sono armati di doppietta e hanno la cartucciera allacciata alla vita. Pendono dalle cinture coltellacci di vario genere. Molti vestono da pastori con giacche e copripantaloni di pelli caprine e cappellacci a cencio. Le loro facce scure e coperte da barba incutono timore. Il generale non si vuol fare sorprendere da un eventuale attacco dei regi e ordina di costituire degli avamposti e di inviare in esplorazione alcune squadre di picciotti. Egli dà incarico ai fratelli Sant’Anna di arruolare siciliani in nome di Garibaldi e gli consegna un decreto a questo scopo:

In nome dell’Unità e dell’Indipendenza d’Italia sotto il Re Vittorio Emanuele II, eletto dalla Nazione; Giuseppe Garibaldi, generale del popolo italiano, disceso in Sicilia per rendere a questa nobilissima isola l’antica gloria e libertà, concede licenza di levar gente ….

Per dare più credito ai Sant’Anna gli affianca due sottufficiali garibaldini. Francesco Bonetti e Bartolomeo Marchelli.

La fame attanaglia gli stomaci dei volontari, ma c’è il buon commissario Bovi che ha pensato bene di acquistare quattordici pecore, prese da un gregge che pascolava in quei campi. Le vittime sono sacrificate sotto le grezze mura del maniero. Poi sono squartate e messe sui fuochi, emanando quel tipico puzzo di carne ovina bruciata. Arricchiscono la scarsa porzione di carne un po’ di pecorino e di pane, il tutto innaffiato dal vino.

Giò ha tolto gli scarponi e massaggia i piedi dolenti. Poi, stende una coperta a terra e messosi addosso il cappotto, si sdraia e si addormenta di colpo. Si sveglia dopo qualche ora, infastidito da una pioggerella che l’ha inzuppato, dandogli una sensazione di forte disagio. Il generale, pur avendo a disposizione una camera da letto nel maniero, ha deciso di stare sul campo con i suoi volontari, protetto solo da due coperte poste a mo di tenda.


[1] Le sponde fisse del carretto.

[2] Il portello posteriore.

[3] La bella Gigogin è una canzone popolare risalente al periodo della seconda guerra d’Indipendenza e divenne così famosa che fu quasi un inno del Risorgimento e fu adottata come canzone ufficiale dai Bersaglieri. Pare che la prima esecuzione sia avvenuta al teatro Carcano di Milano la sera di S.Silvestro, 31 dicembre del 1858. In una Milano ancora occupata dagli austriaci, che applicavano una ferrea censura su tutto ciò che veniva pubblicato, anche questa canzone (Gigogin è il diminutivo piemontese di Teresina ed era usato dai carbonari anche per indicare l’Italia), acquistò subito un significato patriottico e quel verso “Daghela avanti un passo…” era un chiaro invito all’insurrezione per cacciare gli austriaci. Lo capirono subito tutti coloro che erano presenti a quella prima esecuzione, tanto che, quasi in segno di sfida nei confronti dei numerosi soldati austriaci presenti nel teatro, l’orchestra fu obbligata ad eseguire ben otto volte di seguito la canzone.

[4] Nel testo Prima e dopo Garibaldi di Carlo Cataldo si legge a pag. 272: La sera del 12 maggio, Giuseppe Domingo, patriota mazarese rifugiatosi a Rampingallo dal 9 aprile, apprestò i viveri per 1163 garibaldini: tanti erano (a suo dire) i garibaldini, prima dell’arrivo della squadra dei Sant’Anna.

Domenico Anfora

trattto da

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.