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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (V)

Posted by on Feb 9, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (V)

Il decreto della dittatura 

All’alba del 14 giunge il cambio e Giò, con gli altri genovesi, rientra in Salemi sotto l’acqua. Tutta la brigata Cacciatori delle Alpi si aduna su una spianata nei pressi della porta che da Salemi conduce a Trapani e a Calatafimi. Il generale, in groppa al suo cavallo, passa in rassegna la truppa, poi, sentiti gli esploratori inviati verso Vita, decide di sciogliere l’adunata e di rimandare tutti agli alloggiamenti.

Oggi non si combatte, poiché bisogna organizzare e armare i picciotti arruolati in questi giorni. Stamattina sono giunte le squadre del cavalier Giuseppe Coppola da Monte S. Giuliano e di don Michele Martino Fardella barone di Mokarta da Trapani. Oggi il colonnello Sirtori ha registrato 477 nuovi arruolati da iscriversi sul libro paga. Con gli uomini di Sant’Anna e di Coppola si costituisce un nuovo battaglione, battezzato Cacciatori dell’Etna. Sono male armati e per nulla equipaggiati. Davanti al nemico si batteranno o fuggiranno? Intanto s’invia in esplorazione verso il villaggio di Vita la 1a compagnia dei Cacciatori dell’Etna, comandata da Stefano Sant’Anna, col compito di informarsi del nemico, del numero e delle posizioni, e di riferire entro il giorno.

Figura 44 – Fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano dei Mille

Da Calatafimi sono giunti due patrioti, Pietro Adamo e Antonino Colombo, i quali confermano che nel loro paese si è arroccata una colonna mobile borbonica al comando del generale Landi. Garibaldi incarica anch’essi di andare a Vita, di osservare il nemico ed inviare periodicamente delle staffette per informarlo sulle novità.

Alcuni dei Mille organizzano e addestrano i picciotti. Gli insegnano i fondamenti del mestiere del soldato: caricare e scaricare il fucile, usare la baionetta, volgere a destra e a sinistra, marciare in avanti, ammazzare il prossimo. Una cosa non bisogna insegnar loro: ad andare indietro. Nel frattempo, gli artiglieri di Orsini, in particolare Giuseppe Orlando e Achille Campo, hanno organizzato una rustica officina, dove lavorano per riparare o costruire gli affusti per i tre cannoni e per la colubrina, utilizzando i poveri attrezzi presi in prestito dai carradori del paese.

Il generale è ospite nel palazzo del marchese Torrealta, dove è alloggiato insieme agli ufficiali dello stato maggiore. Durante la cena di ieri sera, tra i commensali c’era un frate francescano, un certo Giovanni Pantaleo da Castelvetrano[1], oratore, amante della libertà e novello Ugo Bassi. Dopo aver superato le aggressioni di mangiapreti quali Francesco Montanari, Luigi Gusmaroli e Nino Bixio, è entrato nelle grazie di Garibaldi e ora è il cappellano dei Mille.

Adesso, in un momento in cui la pioggia ha cessato di cadere, dal balcone del massiccio palazzo nobiliare, il generale annuncia al popolo che ha assunto la dittatura:

«Italia e Vittorio Emanuele. Giuseppe Garibaldi, Comandante in capo le forze nazionali in Sicilia, sull’invito di notabili cittadini e sulle deliberazioni prese dai comuni liberi dell’isola, considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari sieno concentrati in un sol uomo, decreta di assumere nel nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia la dittatura di Sicilia».

Garibaldi riceve le ovazioni della folla, ma, in realtà, per far firmare la deliberazione con la quale si richiede la dittatura, Crispi ha dovuto scovare il sindaco e molti decurioni che si erano imboscati. Puzzano di borbonico!

Suona il mezzogiorno e Giò e i suoi camerati vagano per la cittadina sudicia, dall’aspetto saraceno, col suo dedalo di vicoli stretti e di scalette ripide, attraversati da colatoi puzzolenti, da donne velate e da monelli scalzi. Lo stomaco bussa insistente, così i giovani entrano in una taverna a un livello più basso della strada. L’aspetto non attira, ma sulle tavole imbandite ci sono ciotole di legno piene di maccheroni al sugo fumanti. Si chiudono gli occhi e si mangia in quel contenitore che pare fatto per i cani. Poi il tutto è innaffiato con abbondante vino rosso, corposo e molto alcolico, spremuto dalle uve coltivate in quelle soleggiate colline, come lo zibibbo, il grillo e l’insolia. Ma il pranzo non è finito qui. Si friggono centinaia di uova e si sfornano piccoli pani raffiguranti animali, chiamati cuddureddi. Poi si passa alla frutta e al dolce con arance e sfinci di S. Giuseppe. Ora che la pancia è piena e che la fame è abbondantemente smorzata, si va al convento di San Francesco di Paola, dove dei magnifici pagliericci permettono ai quei giovani di godere di un riposino pomeridiano.

A quell’ora torna dall’esplorazione Stefano Sant’Anna. Il generale è nella sua stanza del palazzo Torrealta, dove, con un toscano spento in bocca, osserva la cartina donatagli dal sindaco. Andare verso Alcamo e poi su Palermo o gettarsi sulle montagne, verso l’interno, e attuare la guerriglia? Sant’Anna pensa a quest’ultima alternativa, perché la brigata borbonica schierata a Calatafimi, con artiglieria e cavalleria, è troppo forte anche per l’eroe di Nizza. Saputa la notizia, Garibaldi riunisce i suoi aiutanti, ma nulla trapela sulle decisioni. Türr emana gli ordini sulla disposizione dei reparti: una compagnia all’estremità degli avamposti sulla strada per Marsala; una compagnia al bivio tra le strade per Palermo e per Marsala, poco fuori Salemi; una compagnia sulla collina a sinistra della strada, in posizione elevata; due compagnie in riserva a Salemi; i carabinieri genovesi sotto l’alloggio del generale.

Suona il vespro e Giò, alzatosi, si incammina per le viuzze di Salemi, nome che deriva dall’arabo Salem, cioè pace. Domani, però, si andrà in battaglia e si dovranno scannare altri uomini, altri italiani. Improvvisamente lo stato d’animo del giovane ligure ha un crollo e un fortissimo desiderio di pace lo invade. Nella piazza nota una chiesa aperta e vi entra. In fondo c’è l’altare maggiore con un grande quadro della Trasfigurazione, ma Giò preferisce andare in un altare laterale dedicato all’Addolorata[2]. Lui non ha più fede e non ricorda come pregare, allora cerca di richiamare alla memoria le preghiere che sua madre recita in casa, a tutte le ore, con devozione profonda alla Vergine Maria. Giò teme di non vedere più la madre, il suo borgo, i suoi boschi, di non poter più sentire l’odore dei fiori che colorano le radure in mezzo agli alberi, o l’odore di salsedine portato dal vento che soffia da sud. Le sue ginocchia si piegano e, finalmente, chiede alla Madonna:

Fammi vedere mia madre, almeno un’altra volta.

È un bel dilemma per la Madonna: chi proteggerà col suo sguardo amorevole, il garibaldino o il borbonico?

I due patrioti di Calatafimi inviati in osservazione a Vita, Colombo e Adamo, hanno svolto il loro compito ed inviano un dispaccio al generale[3]:

Signor Generale, un espresso pervenutoci da Salemi partecipavaci che forse erale giunta notizia che gli sciagurati e vili satelliti della tirannide erano per la volta di Vita, per avvicinarsi a Lei. In contradizione le assicuro che non è vero quanto fu rapportato, né a noi si son fatti vedere far mossa da Calatafimi. È certo però che sono in Calatafimi e che hanno occupate le alture tutte che sovrastano Calatafimi, cioè: alla punta del paese che dà a ponente e, precisamente, sul monte che sovrasta Calatafimi ove vi è il castello, sonovi la gran parte di quei scellerati, ed al mezzo di quel monte, siccome ci sono le grotte, in quel punto hanno portato un cannone; nella parte di levante e precisamente sul monticciolo detto di S. Vito vi è altra quantità delle truppe pervenute di Castellammare; a tramontana, sulla montagna delle Tre Croci, ed a mezzodì e a levante, sull’erta della montagna così detta del Nanno, sonovi in questo momento dei picchetti. Le truppe ci si assicura che sono in tutto 2500, meno di mille, per quanto noi le dicevamo con nostro avviso precedente.[4] I dispacci, che la ci onorava stamane inviarci, furono in gran parte mandati in Castellammare, con un corriere da quel comune venuto: egli ci assicurava dappoi che dimane verrà una squadra di quel paese; noi li abbiam incoraggiati a tutt’uomo. Fur spediti i dispacci per Calatafimi; e per Vita li abbiamo noi stessi fatto affiggere. Generale, è Lei la speranza di Sicilia ed ogni cuore desidera felicità e salute sulla di Lei sacra vita. Ci creda invariabilmente Antonino Dr. Colombo, Pietro Adamo.

Al suono del de profundis giunge alle truppe l’ordine di Garibaldi per l’indomani, ripetuto dai sottufficiali ad alta voce:

«Sveglia alle tre antimeridiane, riunione in Piazza S. Francesco e adiacenze, e mezz’ora dopo partenza per Calatafimi».


[1] Fra Giovanni Pantaleo, lettore di filosofia nel convento Angeli dei Riformatori di San Francesco in Salemi, nacque a Castelvetrano nel 1832 e morì povero a Roma il 3 agosto 1879. Dopo esser diventato cappellano dell’Esercito Meridionale di Garibaldi, partecipando a tutta la campagna, lasciò la tonaca e si sposò, avendo quattro figli: Elvezia, Imbriani, Giorgio e Clelia. Partecipò alle campagna d’Aspromonte nel 1862, del Trentino nel 1866, di Mentana nel 1867 e di Francia nel 1870-71. Non approfittò mai della sua posizione e non ebbe né gradi, né titoli, né denaro. Su esso, Garibaldi così si espresse:

Caprera, 13 ottobre 1866. Pantaleo è la personificazione del progresso italiano, morale e materiale. Frate, egli fu dei primi che si gettò nelle file dei Mille in Sicilia e, colla croce alla mano, so­vente colpito da piombo borbonico, predicava la fratel­lanza della famiglia italiana, ed era esem­pio del come si affrontano le pugne per la redenzione della propria terra. Più avanti egli capiva, primo il dovere del sacerdote: lasciar la religione degli idoli ed ab­bracciare la religione del vero, la santa, la sublime religione di Cristo. Soldato Pantaleo non chiese gradi, ai quali poteva pretendere; ma, impu­gnato un fucile, si gettò dovunque era maggiore il pericolo. Raccomando questo mio fratello d’armi, io intendo compiere un dovere. G. Garibaldi.          

[2] In effetti è dedicato.alla Madonna della Confusione, cioè del turbamento per il dolore della morte del figlio.

[3] Cataldo Carlo, Prima e dopo Garibaldi – Sicilia occidentale 1789-1870, Arti Grafiche Campo, Alcamo 2007, pag. 284.

[4] Con l’arrivo del 2° btg del 10° rgt di linea la sera del 14 maggio, Landi aveva a disposizione circa 3.300 uomini.

Domenico Anfora

tratto da

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