Alta Terra di Lavoro

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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (VII)

Posted by on Feb 11, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (VII)

La sveglia di Como

Ancora non son suonate le ore tre del 15 maggio che Garibaldi è già in piedi e sorseggia un caffè bollente preparato dal frate spogliato Giovanni Froscianti, un umbro cinquantenne di Collescipoli, che gettato il saio è diventato un bestemmiatore turco.

Il generale fischietta allegro, come un fringuello che svolazza nel bosco in cerca della femmina. Forse in sogno ha avuto notizia della vittoria? O è felice perché va in battaglia per fare l’Italia?

Dolci squilli di tromba avvisano i volontari della sveglia. È l’ora della battaglia! Ma è un suono dolce e lieto. Il generale ricorda di averlo già sentito la mattina della vittoria di Como, l’anno passato, così manda a chiamare il trombettiere. È Giuseppe Andrea Maria Tironi di 28 anni, della compagnia dei bergamaschi. Durante la guerra con l’Austria del ’59 ha disertato dall’esercito di Francesco Giuseppe e si è arruolato nei Cacciatori delle Alpi, divenendo trombettiere di battaglione. Egli è parente di Donizetti, il quale gli ha insegnato a suonare la cornetta. È un istintivo e un irruente, questo musicante bergamasco, tanto che da ragazzo è stato espulso dalla scuola per aver messo uno spillo sulla sedia del professore di tedesco, odiato da tutti gli scolari perché insegnava la gutturale e sgradita lingua dell’oppressore. Insieme al fratello Giovanni e ai cugini Giacomo Cristofoli e Pietro Invernizzi è accorso a Genova al richiamo di Garibaldi, arruolandosi nella compagnia di ferro comandata da Bassini. Ma nell’8a non sono ammesse trombe, poiché Bassini esige di dare gli ordini tramite i suoni del suo fischietto. Tironi, però, non si è rassegnato e stamattina, mentre tutti dormivano, ha tolto la tromba a un picciotto e, senza pensarci due volte, ha suonato la sua bella sveglia di Como. Ora riceve i complimenti del generale, oltre a una mancia.

Son passati dodici anni da quel 15 maggio del ’48 quando lo spergiuro Borbone ha rinnegato la costituzione, ha fatto massacrare i rivoltosi nelle vie di Napoli dai suoi mercenari svizzeri e ha chiuso il parlamento, tradendo la nazione. Oggi si deve riscattare quell’infausto giorno.

Al suono della tromba, Giò si sveglia di soprassalto e, man mano che i suoi occhi escono dalla nebbia del sonno, si fa chiara la vista dell’amico Paolo che si sta allacciando gli scarponi, felice nell’espressione, ché stamane è giunto il momento di battere il nemico. Giò si stiracchia, rabbrividendo per il fresco della notte, indossa la giubba azzurra, lentamente, abbottonando ogni bottone con lunghe pause, quasi ripensando su ciò che sta facendo. Indossa i calzoni chiari, le ghette bianche, gli scarponi, il chepì e, infine, il cinturone di cuoio nero con correggiola e giberna con venti cartucce. I sottufficiali incitano gli uomini ad affrettarsi, distribuendo equamente parolacce ed urla.

È l’alba, e i garibaldini sono schierati in Piazza San Francesco, dove il generale li passa in rassegna e legge l’ordine del giorno. Il fresco della mattina e l’umidità pizzicano le carni dei volontari inquadrati, ancora intorpiditi dal sonno. A valle comincia ad apparire la campagna da cui sale lenta la bruma. I salemitani affollano le strade e le piazze, salutando con incitamenti e sventolando fazzoletti le colonne di garibaldini e di picciotti che escono dal centro abitato verso tramontana.

È una fresca giornata di primavera e il cielo limpido allieta gli animi. Le piante, ancora bagnate dalla pioggia di ieri, emanano profumi soavi. Si scende per la valle verdeggiante e fiorita, in una strada a forma di scursuni[1], che va a incassarsi tra il Monte Polizo a ponente e il Monte Baronia a levante, perforato da numerose niviere. Giò, osservando distrattamente i pochi casolari accanto ai vigneti e agli uliveti, indirizza un pensiero a casa, alla madre. Poi pensa al nemico. Dista appena dodici chilometri e forse è già pronto all’agguato: dove si dormirà stanotte? Forse sotto un metro di terra nera?

Il generale ha diviso la brigata in due battaglioni: il 1° agli ordini di Nino Bixio, costituito dalle compagnie 1a, 2a, 3a e 4a;il 2° ai comandi di Giacinto Carini, comprendente le compagnie 5a, 6a, 7a e 8a. La 1a compagnia, perso come comandante Bixio, passa agli ordini di Giuseppe Dezza, ingegnere civile, un trentenne lombardo reduce delle guerre del ’48 e del ’59, dove si è guadagnata una medaglia d’argento. Nella 2a, trasferito nell’artiglieria Orsini, ha preso il suo posto l’anziano palermitano Antonio Forni. Alla 3a il barone calabrese Francesco Stocco ha deciso di combattere come semplice milite e ha passato le consegne al valoroso compaesano Francesco Sprovieri, un professore di filosofia che ha combattuto a Venezia con Guglielmo Pepe e l’anno passato con i Cacciatori delle Alpi. La 6a, lasciata da Carini per andare a comandare il 2° battaglione, è guidata adesso dal suo concittadino Alessandro Ciaccio di 42 anni.

Figura 49 – Militi garibaldini in Sicilia nel 1860.

Si procede con prudenza, rispettando le regole della guerra. Nell’avanguardia a cavallo ci sono gli ufficiali dello stato maggiore e del quartier generale, Nullo e Missori, alcuni siciliani e il generale, il quale non monta più la candida Marsala, ma un piccolo e vispo morello. La brigata marcia su due colonne: in testa c’è l’8a dei bergamaschi, segue la 7a dei pavesi, poi la 6a e la 5a; al centro sta l’artiglieria e il genio; dopo marciano le compagnie 4a, 3a, 2a e il corpo sanitario; chiudono e fanno da retroguardia la 1a e i carabinieri genovesi. Ai lati, sui campi, marciano i picciotti di Sant’Anna e di Coppola, con le compagnie 1a, 3a, 4a e 5a dei Cacciatori dell’Etna, mentre la 2a è rimasta a Salemi a copertura del tergo. Sono circa millecinquecento uomini che vanno incontro al più del doppio dei regi arroccati a Calatafimi.[2]

Si fa un breve sosta e la bandiera, custodita dalla 6a compagnia, è portata dall’ufficiale palermitano Giuseppe Campo e consegnata alla 7a di Cairoli. Il giovane mantovano Stefano Gatti scopre il vessillo, togliendo l’incerata. Appare il tricolore che ha in una faccia una donna dorata e incoronata che rappresenta l’Italia, con catene infrante ed armi varie. Nella faccia opposta c’è la scritta che individua i donatori: “A Giuseppe Garibaldi. Gli Italiani residenti a Valparaiso”. Dalla cima dell’asta pendono tre nastri e ognuno ha una scritta che rappresenta i sogni e gli obiettivi dei volontari: “Indipendenza, Unità, Libertà”; e questo era il sogno anche di quegli emigrati italiani partiti per le lontane Americhe, ancora privi dell’orgoglio di avere un’unica Patria.[3]

La colonna garibaldina si rimette in marcia ed i volontari cantano l’inno al Tricolore:

E la bandiera di tre colori / sempre è stata la più bella: / noi vogliamo sempre quella, / noi vogliam la libertà! / E la bandiera gialla e nera / qui ha finito di regnare, / la bandiera gialla e nera / qui ha finito di regnare / Tutti uniti in un sol patto, / stretti intorno alla bandiera, / griderem mattina e sera: / viva, viva i tre color!

I carabinieri genovesi devono andare avanti, appena alle spalle dell’avanguardia montata. L’orologio tocca le 6,30 e Giò osserva sul pendio della collina di fronte un piccolo agglomerato di case bianche e grezze. È il borgo di Vita.

Figura 50 – Tricolore garibaldino


[1] Serpente.

[2] La descrizione dello schieramento è del memorialista garibaldino Giuseppe Cesare Abba nel suo Storia dei Mille, Bemporad & figlio, 1926.

[3] La descrizione della bandiera fatta sventolare da Garibaldi a Calatafimi è stata fatta con precisione da Giuseppe Cesare Abba  in Storia dei Mille, Bemporad & figlio, 1926.

Domenico Anfora

tratto da

1 Comment

  1. Povero Francesco…giovane re circondato da generali vecchi!… e quelli più giovani in divisa curiosi che strizzano l’occhio alla fortuna…salvare la pelle! non salvare il regno e’ il loro obiettivo…ormai il destino è segnato!… ancora in mare il nemico andava fatto fuori…ma così non avvenne! caterina

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