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Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, Sugarco

Posted by on Feb 21, 2023

Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, Sugarco

[24] Il cambiamento in effetti era stato fatto, se noni altro per evidenti ragioni di opportunità spettacolare: era improbabile che un qualsiasi pubblico potesse aver lo stomaco sufficientemente robusto dal sopportare una parata di mostri in azione come quella suggerita dal copione originale.

In più c’erano l’ambientazione, e la collocazione storica: il periodo della Repubblica di Salò, che davano una patente di serietà al film. Quest’ultimo fatto, nonostante tutte le argomentazioni giustificative di Pasolini, non persuadeva troppo e lo ritenevo niente più di uno stratagemma per poter impunemente guazzare nelle immondizie, coprendosi le spalle con la comoda bandiera dell’antifascismo.

Mi recai comunque a Roma, per discutere direttamente con lui della cosa. Era chiaro che, se facevo il viaggio, ero già in buona parte convinto e aspettavo solo una spintarella di rassicurazione finale. Il fatto è che, in quei giorni, più ci pensavo e più mi interessava di provare la singolare esperienza che mi veniva proposta. Avevo potuto sistemare i miei affari in modo da avere un certo tempo libero, e in più mi si assicurava che avrei avuto ogni tanto qualche giornata disponibile per tornare a Milano, dato che il film sarebbe stato girato non lontano, a Mantova e a Bologna.

Pasolini mi aspettava nella sua casa di via Eufrate che ora, dopo il delitto, è stata descritta abbondantemente, se pure spesso con imprecisione, dai molti giornalisti che l’hanno vista solo dall’esterno.

È una palazzina condominiale, all’EUR, di costruzione recente, come tutto il quartiere che la attornia.

Si tratta di un sobborgo residenziale di lusso [25] abitata soprattutto da una borghesia pervenuta di recente alla ricchezza, ma […] e senza radici, dato che solo gente senza radici può scegliere per la propria residenza, in una città magica come Roma, un quartiere cosi anonimo e privo di carattere.

L’appartamento di Pasolini occupa un piano della palazzina, e l’arredamento, perlomeno del salone che ho visto io, se pure senza ricercatezze, dà calore e intimità alla struttura architettonica altrimenti gelida nella sua struttura geometrica senza fantasia, ad angoli retti. La stanza, al tempo della mia visita, aveva ai muri varie scaffalature piene di libri, e parecchi altri erano accatastati sul tavolo accanto al quale parlavamo. Ne vidi diversi di edizione recentissima, tra cui notai con curiosità Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli accanto a testi di sociologia e di politica. Pasolini era un lettore accanto, anche se non onnivoro, limitato dal fatto che, per quanto ho potuto notare, leggeva solo testi in italiano (altro curioso contrasto della sua personalità, lui noto come linguista). Se in effetti conoscesse le lingue moderne non so: l’ho sentito parlare in maniera stentata il francese, ma resta il fatto che leggeva solo in traduzione italiana i testi di Klossowski e di Blanchot da cui traeva materiale filosofico per il film, e che non gli ho mai visto tra le mani un libro in altre lingue. Era anche limitato dai suoi gusti personali. Non ammetteva niente di irrazionale o fumoso, e quindi tutto il lato insolito, esoterico, arcano del pensiero universale era cancellato dal suo orizzonte. Non ammetteva, ad esempio, un autore come Carlos Castaneda, di cui sapeva vagamente, e anche imprecisamente, che era “un guru dei drogati”; questo bastava perché fosse relegato nel ghetto, dato che lui contro i drogati nutriva la stessa avversione impietosa che si lamentava di subire, lui omosessuale, da parte dei “normali”.

[42] Ricordiamo a questo proposito quello che era accaduto con “Accattone”.

Dopo il successo della “Dolce vita” Fellini si era accordato col suo produttore Rizzoli per iniziare una attività produttiva collaterale, in cui venissero lanciati autori nuovi.

Pasolini, che aveva fatto la gavetta proprio sotto Fellini, collaborando alle sue sceneggiature, ottenne di girare alcune scene di prova di un soggetto che lo appassionava.

Quando Fellini vide il risultato di questo esperimento, dichiarò che il materiale era completamente inutilizzabile, perché tecnicamente sbagliato da cima a fondo, e consigliò a Pasolini di restare fra i suoi libri e di rinunciare all’idea del cinema, per cui era chiaramente e fuori d’ogni dubbio negato.

[53] Quando giravamo a Bologna la scena in cui noi cattivi scegliamo da una schiera di ragazze rapite [54] le otto più belle, la massa di queste figliole, che dovevano solo apparire per pochi istanti, era stata reclutata in un liceo locale. Arrivarono piene di entusiasmo culturale, ma appena interrogarono le loro coetanee che stavano girando con noi fin dall’inizio, non poterono credere alle loro orecchie.

«Di cosa parla questo film?»

«Non lo so.»

«E tu che parte fai?»

«Non lo so.»

«Ma come fate a recitare?»

«Ci dicono di volta in volta quello che dobbiamo fare.»

«Non è possibile!» gridò una delle bolognesi. «Siete qui da due mesi trattate come oggetti. Come potete adattarvi a uno sconcio simile? Dovreste fare un lavoro di gruppo, riunirvi ogni sera col regista, discutere insieme la produzione, così che ognuno dia il suo apporto.»

Ma le nostre otto ragazze non erano così impe­gnate come le bolognesi, e non si scaldavano a que­sti problemi. Se ne andarono, e la liceale terminò di sfogarsi con me:

«Non posso ammettere che si tratti la gente in questa maniera colonialistica e che sia proprio il mostro sacro delle sinistre a farlo, e non posso ammettere che voi siate così squallidi da lasciarvi conculcare così.»

Pasolini ovviamente non era presente. Quando ri­dendo gli riferii la scena, lo vidi diventare ancor più pallido e le sue guance presero a fremere come nei momenti di odio represso. A me era sembrato un dialogo da ridere, ma mi accorsi che lui invece ne soffriva molto

[96] Suo fratello partigiano era stato, nel periodo di Salò, braccato, mezzo massacrato e (cito le parole con cui “L’Espresso” riferisce il fatto): « …ferito fugge, cerca scampo in casa di una donna, è scovato I in fin di vita e sterminato.»

Forse Pasolini stava rivivendo uno strazio della sua gioventù. Però ne aveva stravolto il significato: suo fratello era un partigiano “bianco” della Brigata Osoppo, e a sterminarlo, con tutti i suoi compagni, erano stati partigiani comunisti. Per lui la via d’uscita agli orrori contro cui combatteva non era certo l’avvento del comunismo, né certo aveva alzato il braccio a pugno chiuso di fronte ai propri assassini.

[103] Pasolini cominciava la giornata al mattino presto, come noi tutti, però lavorava più di noi tutti, perché era sempre in ballo durante le ore di lavorazione, (sempre in piedi (la tradizionale “sedia del regista” non esisteva neppure) e, dato che stava in macchina, non conosceva intervalli: quando non si girava stava allestendo l’inquadratura successiva, e quando si girava era lui a lavorare. Tutto questo in continuazione, dal mattino alla sera, incurante di orari sindacali e della stanchezza fisica dei suoi sottoposti, che faceva lavorare come bestiame senza alcun riguardo. Non aveva momenti di riposo, di meditazione, come gli altri registi. Si metterà a lavorare e continuava con lo stesso ritmo, come un automa, un’inquadratura dopo l’altra, macinando incredibili quantità di pellicola in una corsa che non conosceva rallentamenti.

Grazie alla sua reputazione di comunista e amico del popolo (una copia dell’”Unità” bene in vista tra le mani tutte le mattine all’inizio del lavoro), riusciva a sfruttare la sua gente fino all’esaurimento fisico. D’altronde per la maggior parte erano niente più che poveri coolies incapaci di protestare, e chi vi si provava veniva minacciato dal direttore di produzione di boicottaggio in ogni possibile futura attività cinematografica (« Tu non lavorerai mai più »). Quei pochi che avevano coscienza professionistica (e io con loro) abbandonarono più di una volta il set quando le ore di lavoro si protraevano in maniera inumana, ma tutti gli altri erano degli umili sprovveduti che venivano, col miraggio di una carriera cinematografica, sfruttati senza ritegno.

Umberto Paolo Quintavalle

Sugarco, Milano 1976

segnalato da Gianandrea de Antonellis

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