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Assassinii e desolazione ad Itri nella seconda metà del Settecento di Alfredo Saccoccio (II)

Posted by on Mar 24, 2023

Assassinii e desolazione ad Itri nella seconda metà del Settecento di Alfredo Saccoccio (II)

   Michele Pezza ringhiò, urlò come una fiera, usò parole roventi  contro i francesi, come solevano uscire dalla sua bocca  negli impetuosi e subitanei furori, per cui divenne tremendo il suo nome.

   Vindice  delle ribalderie dei francesi, “Fra’ Diavolo”, con il suo carattere irruente e con l’animo piagato e bollente, con voce che sembrò un ruggito, proruppe: “Devono pagarla cara “.

   “Maledetti francesi! “ruggì Michele, rabbioso, tra i denti serrati come tenaglie. Il volto di “Fra’ Diavolo” era contratto dalla tensione e dall’odio, senza più nulla di umano, i capelli rizzati sulla testa. Per lui, la morte del padre era un vero e proprio strale nel cuore.

   Oscillarono, commosse, anche le fiammelle delle candele intorno al morto, mentre il cadavere, pieno di lividi e di enfiagioni, fu, di notte, portato, a spalla, dal figlio Giuseppe Antonio nella chiesa di S. Maria Maggiore con grave pericolo della vita, poiché il paese era pieno di soldati polacchi, e fu deposto in una fossa, dietro l’altare maggiore del Sacramento, adorno di candelieri, con torce e ceri, mentre il, sacerdote  cantava : “Libera me, Domine, de morte aeterna… Requiescat in pace. Amen”.

   Nella chiesa parteciparono dodici familiari del Pezza: la moglie Giacinta, “Fra’ Diavolo”, i fratelli e i cognati.

   In questa occasione, dinanzi alla Vergine SS. ma, inginocchiato innanzi alle venerate spoglie mortali del padre, vittima innocente della tracotanza  e dell’infamia dei francesi,  che aveva camminato per le vie del Signore, Michele Pezza giurò odio e tremenda vendetta contro gli empii: “Vendicherò mio  padre! Vendicherò mio padre! Scaccewò dal regno di Napoli i francesi!”. Questa imperativa frase gli picchiava e ripicchiava nel cervello, come un martello invisibile, sull’arroventata incudine del pensiero, Le sue parole, turgide di collera, screziate di sangue, echeggiarono nella notte.

   Domenico Petromasi riferisce che Michele Pezza, prima di deporrre piamente nella tomba il cadavere di Francesco, lo baciò giurando su di lui eterna vendetta verso i francesi. Da questo momento, egli si era votato allo sterminio di essi.

   Questo influì molto sulla futura condotta del capomassa e dei suoi fratelli, che intendevano vendicarsi. “Fra’ Diavolo”mantenne la solenne promessa, da fiero itrano, discendente del  bellicoso popolo aurunco, spesso in lotta contro i Romani. Alessandro Abbruzzese, uno dei suoi più irriducibili gregari, fatto prigioniero dai francesi e legato su un mulo per essere condotto a Fenestrelle, celebre fortezza nella valle superiore del torrente Chisone, nel lunghissimo viaggio, non emise un lamento, perché non voleva dare al nemico la soddisfazione di vederlo soffrire.

   Quando poi Joachim Murat fece costruire una fontana ad Itri, “molti, come scrive lo storico itrano Ernesto Jallonghi, in “odium auctoris”,  giurarono di voler piuttosto morir di sete che bere di quell’acqua”. L’esercito invasore non può maivaspettarsi molto calore ed amicizia dagli invasi. Questa volta fu molto odiato e con ragione.

   In casa Sferra, scassinando porte, armadi e cassetti, con i calci dei fucili, rovistarono dappertutto, appropriandosi, con avidità, di danaro, argenterie, orologi, abiti, biancherie, posate, calamai, fibbie d’argento : un bottino di 2000 ducati; in casa De Fabritiis, presero danaro, argenteria, fracassando le imposte a colpi di scure. Dalla stessa abitazione asportarono una cassa piena di scritture e di documenti antichi, oltre ad alcuni libri, che furono bruciati il mezzo alla via S. Gennaro. Fu appiccato il fuoco anche a molti libri della “Universitas”, a molti protocolli notarili, ad atti pubblici.

   Essi eressero “l’albero della libertà”nella piazza antistante il convento di S. Francesco, divenuta teatro della prima manifestazione festiva giacobina. La pianta, un tronco di quercia, terminava con il berretto frigio ed il caduceo ed era  adorna del tricolore francese. I conquistatori danzavano, attorno ad esso, la Carmagnola, al grido di “libertà, uguaglianza, fratellanza”, che i francesi praticavano a parole, dandosi ad orge sfrenate con alcune donne del paese, da allora ritenute “svergognate” dalla popolazione locale.

   Nessun ufficiale osò intervenire  per porre freno alle soldatesche, ebbre di sangue e avide di bottino, che provocarono lacrime e dolori. I polacchi di Dombrowski rubavano ai cittadini, per via, abiti e biancherie per vestirsene, avendone addosso delle cenciose, togliendo loro anche le scarpe.

   Singoli razziatori si dettero,”à  la marverde”, in cerca di viveri, saccheggiando i casolari, razziando il bestiame. Alla“Porcareccia”, nei pressi del santuario della Madonna della Civita, essi spararono ad un branco di porci, che furono rosolati allo spiedo e da cui si ricavarono ottime cotolette.

   Tutti i mariuoli e gli ubriaconi che si trovavano fra gli invasori si sparpagliarono in ogni direzione per saccheggiare e trincare. I soldati, che solo qualche giorno prima erano stati valorosi, disciplinati, obbedienti, ardenti solo di impazienza per ciò che è chiamato “gloria”, ora erano imbestialiti, somiglianti più ad un branco di iene, vomitate dalle regioni infernali per la distruzione dell’umanità, che commettevano ogni sorta di oltraggio, in maniera così brutale che un resoconto fedele (“il modo ancor m’offende”) sarebbe troppo indecente e troppo obbrobrioso per  il genere umano. Per i massacri e le atrocità commessi, le truppe gallo-polacche  avevano rinnovato e superato in crudeltà ed empietà la barbarie saracena.

   Questi pendagli da forca,arrivati in Italia senza il becco di un quattrino, laceri, affamati, di punto in bianco, si trovano le tasche gonfie d’oro,  di collane, di orecchini, di manate di rubini e di smeraldi da giocare ai dadi. Questi topi da fogna uccidevano, ferivano o bastonavano, senza compassione, vecchi, infermi ed inabili. La loro sfrenata libidine non solo non perdonò ad età puerili o decrepite che fossero, ma li spinse a comnettere su tutti scelleratezze, vessazioni e le più turpi violenze.

   Ladri, però, non erano solo i soldati, ma anche gli ufficiali. Venne per comandante della piazza di Itri un capitano francese. Questi ebbe  la perversa empietà di spogliare con violenza tutto il tesoro del santuario della Madonna della Civita, consistente in oro, argento e gemme, che la pietà dei fedeli, lungo molti secoli, aveva ammassati,e in gioielli, di inestimabile valore, tra cui quello della leggiadrissima e casta contessa di Fondi, Giulia Gonzaga, donati dalla dama in ringraziamento della sua fuga, essendo scampata miracolosamente alle grinfie del corsaro Ariadeno Barbarossa, che la voleva offrire al suo sultano, Solimano I, detto “il Magnifico”.

   Il capitano portò tutto con sè a Gaeta, a farlo liquefare e ridurre in verghe tanto d’argento che d’oro. L’argentiere incaricato adempì al compito formando le leghe e togliendo le gemme. Una volta adempiuto il tutto, le verghe e le gemme furono consegnate al pravo capitano. Che avvenne, però, per divina disposizione?

   L’ufficiale partì per Napoli. Nel passare per il Garigliano, colui che aveva ordinato la spoliazione del sacro luogo pagò il fio dell’orribile sacrilegio venendo ucciso  dagli insorti di Castelforte, a due mesi dal furto empio. L’argentiere che liquefece gli ex voti e i vasi sacri, dopo pochi giorni, fu ritrovato estinto, in un pozzo. Ecco la divina punizione. “Deus non irridetur “.

   Secondo la memoria del canonico Formura, esisteva nel santuario di Itri, nel Settecento, un tesoro composto da 40 donativi d’oro e, d’argento, di anelli e di gemme e 7 lampade d’argento. Il capitano ardì spogliare tutto il tesoro lasciando dei suppellettili per uso della cattolica religione.

   Il popolo itrano, inorridito dal sacrilegio, rifece il tesoro con zelo ed abbondanza.

Alfredo Saccoccio

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