Alta Terra di Lavoro

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RICORDI E APPUNTI DI ANIELLO GIANNI MORRA

Posted by on Giu 15, 2023

RICORDI E APPUNTI DI ANIELLO GIANNI MORRA

Per i nipoti Anna, Gabriele, Davide e Yulan.

Ho messo insieme questi ricordi e appunti, ritenendo che avreste potuto, col tempo, trovarli interessanti, ma anche per farvi conoscere meglio la vita di vostro nonno. Come vedrete in seguito, io non conoscevo bene quella dei miei.

La prima parte è autobiografica, e con i ricordi dalla tenera età. C’è poi qualche accenno alla storia del nostro territorio, al lavoro all’Enel, alle nostre tradizioni, all’ambiente, alle energie rinnovabili. A questi ultimi due argomenti ho dedicato più spazio: mi interessano di più e mi sono più congeniali.        

Vi è anche il ricordo dei viaggi in Grecia, che furono tra i più belli e interessanti.

Questa copia aggiornata è stata ampliata soprattutto nella prima parte, dove sono inseriti altri ricordi da bambino, riaffiorati durante la scrittura di questo libretto e che nemmeno i figli conoscono. Quest’opuscolo che è uno spaccato della periferia sud napoletana degli anni 40/50, è dedicato anche a loro e a qualche amico di vecchia data. Inoltre tra le vecchie carte ho ritrovato due raccolte di versi che sono il riaffacciarsi in alcune occasioni di una sorta di vena poetica. Sono inseriti dove si parla di Marzano e pastiera.

Questo opuscoletto poteva essere scritto meglio, ma non sono molto bravo, e per me era più importante di scriverlo per il contenuto che volevo comunicare.

I primi ricordi.

Nei primi anni dell’infanzia i genitori mi raccontavano tra le tante cose, che i nonni materni avevano una cantina-osteria, gestita da nonna Maria chiamata “Maria e mieziuorn”; il marito l’aiutava in quest’attività, ma lavorava anche al porto. Erano molto devoti e andavano al santuario di Montevergine col calesse del nonno e prima della salita di Monteforte facevano una sosta per riposarsi e rifocillare il cavallo, dandogli da mangiare alcune sciuscelle, (carrube) procedendo poi fino a Mercogliano e andare a piedi al santuario.

La nonna, dopo la morte del marito, nel giorno dell’onomastico, in suo ricordo organizzava una “tavola per i poveri”: un buon pasto per i più poveri del quartiere nel vasto atrio del palazzo dove abitava, forse erano più di 25 persone. In quell’occasione per la preparazione dei pasti e della tavolata, veniva aiutata anche dalle tre figlie. Mi rimane un personale ricordo di almeno uno di quegli eventi.

Il nonno paterno rimasto vedovo era responsabile di un mulino-pastificio di San Giovanni a Teduccio, e mio padre lavorava in una fabbrichetta artigianale di cioccolato. Era quella la zona di nascita dei miei genitori, dove sono nato anch’io e vissuto fino al matrimonio.

S. Giovanni a Teduccio, che per abbreviare in seguito sarà S. Giovanni, era l’area industriale di Napoli, vi erano mulini, pastifici e molte fabbriche per la conservazione del pomodoro. A fine ‘800, anche il piemontese Cirio aprì alcuni opifici per queste lavorazioni. Vi erano, inoltre, tutte le attività dell’indotto: lavorazione delle trafile di bronzo per la pasta, fabbrichette per la produzione di scatolami di latta per la conservazione di salsa, di pomodori pelati ed altro.

All’inizio degli ‘50, poco dopo la fine della guerra, mio padre, avendo perso il suo lavoro per la chiusura della ditta in cui lavorava, non trovandone un altro per i tempi difficili, in cui versava il nostro paese, s’industriò a comprare residuati bellici, per ricavarne ricambi per mezzi ancora funzionanti e metalli vari che uscivano dalla rottamazione, molto utili e ricercati per la penuria di quei materiali nel dopoguerra. Quei residuati erano depositati nel campo A.R.A.R. (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) di una caserma militare ancora oggi esistente a San Giovanni, ed erano prevalentemente carcasse di camion militari che, dopo l’acquisto, mio padre portava in una strada non trafficata nei pressi del forte Vigliena, in vicinanza del porto, dove venivano smontati. Era quella la zona dove sono nato, e dove abitavamo prima della distruzione della nostra casa per i bombardamenti al porto. (L’edificio era chiamato palazzo delle cento camerelle)

Per fortuna mio padre aveva portato la famiglia nel tranquillo paese di Boscoreale, non lontano da Napoli, dove rimanemmo fino alla fine della guerra.

Al rientro da Boscoreale, nella stessa zona di San Giovanni fu trovata una casa più piccola nel vico Catari, dove abitavano una trentina di famiglie. Era una comunità molto affiatata. Si faceva il cippo di Sant’Antuon, grande falò del 17 Gennaio, (una tradizione molto antica in onore di Sant’Antonio Abate) c’era un pastoraio e una stalla con le mucche. Qualche volta si organizzavano acquisti di pizze che si pagavano “a quand chiove”. Era un sistema basato sulla fiducia, e funzionò sempre (in quell’epoca i soldi in circolazione erano pochi ma la pizza non poteva mancare). Spesso arrivava un “rammariello” vendeva biancheria di ogni genere che portava in un grande involucro di stoffa nera. Era comodo acquistare da lui piccole cose, per gli acquisti più importanti si andava ai negozi al rettifilo.

Nei pomeriggi estivi arrivava nel vicolo anche un gelataio con un bici-triciclo e il gelato si comprava con 5 o 10 “AM lire” era una moneta che stamparono gli americani dopo il loro sbarco in Sicilia e fu utilizzata per tutti gli anni ‘40.

Nello stesso vicoletto mio padre prese in affitto anche un deposito con uno spazio antistante dove poteva svolgere il suo lavoro, avevamo un cane lupo che si chiamava Gemma e mio padre gli costruì una bella cuccia di legno. Gemma era molto affettuosa e giocherellona. Alla sua morte che ci rattristò moltissimo, fu sepolta nello stesso deposito in una cassa militare di ferro e una buca molto profonda. Nello stesso deposito abbastanza ampio, crescemmo anche un piccolo maiale che veniva nutrito con gli avanzi di cucina e frutta di scarto. Quando arrivò il momento della macellazione, fu portato via quando noi fratelli stavamo a scuola, fummo molto tristi: eravamo affezionati al maialetto ed a Gemma e giocavamo molto con entrambi.

In quello stesso periodo, avendo la nostra casa un piccolo giardino, i genitori lo utilizzavano per fare la lavorazione delle provviste. Si faceva la conserva di pomodoro asciugata al sole, oppure le spaccatelle di pomodoro in bottiglia, la sterilizzazione avveniva bollendole in un grande bidone. Si facevano inoltre le conserve di prodotti acquistati nel periodo migliore: melenzane sotto sale e sott’olio, alici salate, un grosso pezzo di lardo con la cotica salata, sugna ecc. ma anche liquori fatti in casa come nocillo, caffe, limoncello ecc.

Nel quartiere in quell’epoca c’era un vinaio (Simmon a Rocca) che nei primi giorni di Dicembre allestiva un bellissimo presepe con pastori antichi. Ci fermavamo ad ammirarlo per lungo tempo e mia madre, intuendo il fascino che quel presepe esercitava su noi bambini, decise di realizzarne uno. Aveva una buona manualità e incominciò a costruirlo con materiali recuperati come vecchi giornali, che accartocciati e incollati con colla di farina e sistemati opportunamente, costituivano il paesaggio montuoso con alla base due grotte: una per la natività e un’altra dove usciva un carro con botti guidato da Ciccio Bacco (zibacc). Utilizzava inoltre varie scatoline di cartone per costruire le case, tra cui la locanda, il macellaio ecc. il tutto veniva sistemato su un foglio di legno di misure adeguate allo spazio disponibile. Dopo questo primo e più grossolano lavoro si passava alle finiture: la pitturazione del paesaggio e delle case. Occorreva la pittura in varie colorazioni; si vendeva in polvere e si scioglieva in acqua. Occorreva inoltre una colla più resistente “colla di pesce” per sistemare casette e pastorelli. Queste cose si acquistavano da un ferramenta al corso S. Giovanni, dall’altro lato della strada, ed era un compito che veniva affidato a me che ero il più grande dei figli e che avevo imparato ad attraversare la strada dove passavano tram, bus, e all’epoca ancora poche auto. Alla fine si addobbava il presepe con “resdina” e rametti di pungitopo con le bacche rosse, prima di sistemare definitivamente tutti i pastorelli. Dopo l’Epifania, veniva smontato, si recuperavano i pastorelli e il resto veniva bruciato sul “cippo di Sant’Antuon”.Per fare un buon “fucarazz” (falò) tutti i ragazzi del vicinato raccoglievano legna e fascine molto tempo prima. Questo è anche il giorno d’inizio del periodo carnevalesco, e le signore più anziane presenti, durante il falò cantavano vecchie canzoni inneggianti proprio a Carnevale. Al termine del falò, tutti i presenti riempivano il proprio braciere con la carbonella ancora accesa, era così che si riscaldavano le case. Questo era l’inizio di un periodo festoso dove si mangiava la lasagna (qualche volta), il migliaccio e le chiacchiere col sanguinaccio, che allora si faceva col sangue fresco di maiale.

Tornando al vicoletto, nelle vicinanze di casa c’era un artigiano, che realizzava piccoli prodotti di terracotta, ma soprattutto pastori. Aveva un figlio molto giovane che aveva imparato bene quel lavoro ed era più bravo del padre a dipingere i pastorelli.

Durante la lavorazione, permettevano ad alcuni ragazzi del vicinato di osservare da vicino il loro lavoro, e spiegavano anche i dettagli della lavorazione. Si partiva dagli stampi o “forme” realizzate con gesso liquido che si versava sulla parte anteriore dell’oggetto che si doveva riprodurre. La parte posteriore veniva immersa nell’argilla e il tutto veniva messo in una piccola scatola di cartone, che versato il gesso si presentava come la parte esterna della forma. La stessa cosa si faceva per la parte posteriore, e quando le due forme erano ben asciutte e indurite, si potevano già usare per riprodurre l’oggetto di partenza inserendo argilla nelle due mezze forme, che venivano accostate e pressate affinché le due parti di argilla si “incollassero” dopo pochi minuti si poteva sformare, e l’oggetto che poteva essere un pastorello, veniva ripulito dalle sbavature prima che indurissero. Questa operazione era molto delicata ed era una prima rifinitura.

Per creare un pastore, c’era difficoltà soprattutto con le braccia che si dovevano realizzare in altre forme per poi essere attaccate al busto. Ciò avveniva senza colla: si accostavano le parti da attaccare, ammorbidendo l’argilla con poca acqua e una volta asciugata diventava un pezzo solidale. Infine con adeguate stecche di legno si faceva l’ultima rifinitura modellando opportunamente eventuali accessori e particolari.

Nell’immediato dopoguerra i piccoli artigiani non possedevano forni elettrici per la cottura di manufatti d’argilla, e usavano metodi rudimentali che spesso provocavano la rottura di qualche pezzo. Vediamo come procedeva il nostro: aveva un bidoncino di ferro di circa 1 metro d’altezza con diametro intorno ai 60 cm. Era completamente bucherellato, anche nel fondo, e dopo l’appoggio sul treppiede di ferro, sotto il quale veniva acceso il fuoco, si sistemavano i pastori su strati alterni di carbone di legna. Acceso il fuoco sotto il fornello, bruciavano anche gli strati di carbone, portando i pastori alla giusta temperatura di cottura. Dopo l’accensione di tutti gli strati, si aspettava che si raffreddasse il tutto per poter tirare fuori i pastorelli. Era questo il momento per verificare la buona riuscita dell’operazione. Alcuni pastori uscivano rotti per quel metodo rudimentale: gli strati di carbone, consumandosi facevano collassare la pila di pastori, che talvolta si rompevano, procurando poi, ire e bestemmie del pastoraio. Era questo il momento che un gruppetto di ragazzi aspettava per prendersi i pastori rotti. Quella presenza in quel momento non era gradita e veniva interpretata come portatrice di iella e quando era più nervoso mandava tutti via. Il giorno seguente, quelli sani venivano verniciati dal figlio, che aveva occhio buono e mano ferma. 

Tra le signore che partecipavano ai falò, ce n’era una che raccontava a mia madre delle visite che faceva al “cimitero delle fontanelle” dove andava a pregare per l’anima di tutti quei defunti anonimi. Questo cimitero si trova in alcune grotte nel rione Sanità e raccoglie i resti mortali per antiche pestilenze, e di quelli che in passato erano interrati nelle numerose chiese di Napoli. Dopo una certa epoca fu vietato e i resti recuperati furono portati alle fontanelle. Vi sono cataste di ossa e le persone che si recano in quel cimitero spesso si scelgono un teschio per pregare e chiedere protezione per la propria salute o dei propri cari. Ai teschi più supplicati è stato dato anche un nome: “a capa e Pascale” è uno di questi. I ricordi e la curiosità per quelle notizie apprese da ragazzo, da adulto mi hanno stimolato a visitarlo. Credo che nel mondo ci siano pochi posti come questo: merita una visita.

A proposito di cimiteri, mi fa piacere ricordare che nel periodo Borbonico fu costruito il cimitero delle 366 fosse. Fu il primo cimitero pubblico in Europa e forse nel mondo. Fu progettato e costruito dal famoso architetto Fuga e commissionato direttamente dal Re Ferdinando IV. Una fossa per ogni giorno dell’anno, compreso gli anni bisestili, che consentivano la sepoltura ordinata dei morti secondo il giorno del decesso. Chi voleva pregare per un proprio caro, si recava sulla fossa che portava il numero del giorno e l’anno del decesso.

Ritornando al vicoletto.

In quei tempi, nelle famiglie non c’erano macchine fotografiche, e periodicamente arrivava un fotografo per fare foto a quanti ne avevano bisogno, e consegnava quelle fatte in precedenza. Il suo nome era Lulù ed era molto bravo. Molti ragazzi quando arrivava Lulù chiedevano ai genitori se potevano fare una foto con qualche amichetto o col loro cane. Anche noi ne facemmo una dei tre fratelli e due gattini.

Come dicevo prima, da figlio più grande mi venivano affidate quasi tutte le piccole compere: la salumeria, gestita da una signora chiamata (a scigna dint o specchio) stava dall’altra parte della strada; l’acquisto del latte giornaliero si faceva direttamente da una stalla con 5/6 mucche, non lontana da casa. Vi andavo volentieri per osservare da vicino la mungitura, che si faceva al momento e si vedeva il capezzolo spremuto e lo spruzzo di latte che arrivava nella bottiglia. La stalla era ubicata in un piccolo appezzamento agricolo, dove si compravano anche altri prodotti che venivano coltivati. In quel terreno c’era un pozzo nero in quel momento scoperchiato, nel quale, per giocarci intorno, vi cadde un cuginetto. Per sua fortuna ero molto vicino e riuscii a tirarlo fuori, attivando tutte le mie forze. Ci fu solo molto spavento e dopo i rimproveri, mia madre gli fece subito una buona ripulita.

Sempre in quel periodo, nel giorno dell’Immacolata si allestiva il presepe e iniziava la novena di Natale: venivano i zampognari tutti i giorni fino all’anti vigilia e noi ragazzi li aspettavamo per ascoltare le loro zampogne. L’ultimo giorno c’era l’usanza di offrire loro un bicchierino di liquore. Non potendo bere tutti i liquori che venivano loro offerti, li svuotavano in una sacca di pelle. Ovviamente mischiandoli. I liquori più consumati in quei tempi erano anice, strega, e liquore al caffe e si facevano in casa. Anche da piccolo mi sono sempre chiesto come si potessero bere quegli intrugli.

Oggi queste usanze sono da tempo scomparse e i zampognari si vedono solo in particolari manifestazioni.

Di quei tempi che non c’era ancora la televisione, spesso alcune famiglie si riunivano per giocare a tombola e la persona che tirava i numeri dal “panariello”, quando estraeva un numero gli associava anche il significato della “smorfia” il numero 65 è “il pianto”; il 66 “le due zitelle”, il 4 “o puorco” ecc. Le signore che conoscevano il significato dei numeri della smorfia, li utilizzavano anche per associarli all’interpretazione dei sogni, per giocarli al banco lotto e quando i sogni erano molto articolati, si ricorreva al “postiere”, era il gestore di una ricevitoria del lotto ubicata al corso S. Giovanni in adiacenza al vicolo. Questi era bravissimo nell’interpretazione dei sogni, e a seguito di buone vincite riceveva anche una ricompensa.

In quell’epoca vi erano persone che organizzavano le riffe. Si metteva in palio qualcosa di valore e vinceva il numero estratto dal panariello. Alla presenza di molte persone, per prima cosa si mostrava mano e panariello pronunciando: “chest è a mano e chist o culo do panar” dando a intendere che non c’erano trucchi.

Un mio personale ricordo: fu organizzata una riffa con un cappone come premio. Mia madre mi fece scegliere il numero, che poi risultò vincente. Fummo tutti molto contenti per la vincita di quel saporito cappone.

Fino ad alcuni decenni orsono, a Napoli c’era l’usanza di “tirare sul prezzo” sugli acquisti di qualsiasi genere.

Credo che i commercianti, conoscendo queste abitudini lo aumentassero preventivamente.

Ricordo che quando si doveva acquistare qualcosa per me come indumenti scarpe ecc., individuato il prodotto giusto, mia madre ne chiedeva il prezzo, che per lei era sempre altissimo e che quel prodotto valeva la metà o anche meno. Dopo 3 o 4 tira e molla, se si era lontani dal prezzo che lei riteneva giusto, mi diceva di andarcene, ma lei camminava molto lentamente per dare modo al negoziante di chiamarci e dire di tornare che ci saremmo accordati, come poi avveniva. Insomma era una sceneggiata.

Ora, con i prezzi fissi in partenza non è più possibile usare questi sistemi “levantini”, che però mi sono serviti nei viaggi fatti in Tunisia, Egitto e Turchia, paesi dove ancora sul prezzo si deve mercanteggiare. Riporto un episodio durante una crociera sul Nilo. Durante la navigazione, nei momenti che il battello procedeva piano o si fermava, arrivava una miriade di barchette per vendere varie mercanzie. In una occasione che offrivano un prodotto che mi interessava, ne chiesi il prezzo che però era molto caro. Immediatamente lo lanciarono sul battello, stimolandomi all’acquisto. Prontamente lo rilanciai nella loro barca, e misi in atto l’antica tecnica di mia madre, alla fine fecero un prezzo equo che forse era maggiorato rispetto a quello dei negozi ma pure loro dovevano campare. Quelle scenette erano anche divertenti e fui molto osservato dagli altri crocieristi. Alcuni di loro, con gli acquisti più costosi, per avere il prezzo giusto, chiedevano il mio aiuto.

Anche Sibylle era incuriosita da quelle sceneggiate. In Germania non si facevano.

All’età di circa 10 anni mi piaceva seguire da vicino il lavoro di mio padre. Ero affascinato dalle strumentazioni di bordo di quei mezzi già citati, e potevo smontare tutto ciò che volevo. Ero maggiormente attirato da quelli più complicati, di cui ne osservavo i meccanismi e i particolari costruttivi.

In quella zona nelle vicinanze del forte Vigliena c’era una centrale elettrica confinante con una bellissima spiaggia, dove spesso si andava a giocare con gli amichetti del vicinato e d’estate a fare il bagno. Sulla stessa spiaggia, nel periodo estivo, venivano allestiti alcuni stabilimenti balneari portati successivamente altrove per fare posto alla costruzione di una nuova e più grande centrale elettrica, tuttora funzionante.

Un altro posto di svago per noi ragazzi era il forte Vigliena. Stimolava la nostra fantasia e fantasticavamo sulle cose successe in quegli ambienti dove si giocava. In quegli anni il forte era diventato una discarica abusiva. Venivano a sversare frequentemente camion con ceneri di fonderia di qualche fabbrica delle vicinanze.

Da grande, ho appreso che il forte fu costruito poco dopo il 1700 dal viceré spagnolo Viliena per la difesa della città. il nome fu italianizzato in Vigliena. Si potevano osservare le navi in arrivo al porto, e quelle nemiche potevano essere cannoneggiate dallo stesso forte che in quella posizione strategica aveva il totale controllo del mare antistante.     Fu parzialmente distrutto nel conflitto del 1799 tra la Repubblica Partenopea appoggiata dai francesi di Napoleone e i Sanfedisti del cardinale Ruffo fedeli ai Borbone, che dopo l’occupazione francese si erano rifugiati in Sicilia protetti dalla flotta inglese presente per proteggere le loro importazioni di zolfo e vino Marsala.                    I partenopei che difendevano la struttura, prima di capitolare fecero esplodere l’arsenale pieno di esplosivi, per causare forti perdite al nemico, ma procurando anche ingentissimi danni al forte.

In quei tempi mio padre incominciava a darmi la paghetta settimanale, che spesso serviva per andare al cinema. Ricordo ancora uno dei film (Luciano Serra pilota). Nella zona ve ne erano due: il Partenope con una sala molto piccola e il Supercinema con sala più grande e un palcoscenico dove si faceva anche la rappresentazione della “la cantata dei pastori”. I due attori che piacevano maggiormente a noi ragazzi erano Razzullo e Sarchiapone.

In quegli stessi anni il lunedì in albis andavo a vedere il transito dei fujenti che arrivavano con cortei e molti stendardi con l’effige della Madonna dell’Arco per recarsi al santuario di S. Anastasia. Mi piaceva osservarli nei pressi di una edicola votiva dedicata alla santa, ubicata nelle vicinanze. Arrivavano a piedi nudi sventolando gli stendardi e in prossimità dell’edicola proseguivano in ginocchio o carponi. La vista della Vergine dell’Arco nella cappella, provocava stati di forte emotività che spesso sfociavano in pianti, e scene convulsive.…..continua

Aniello Gianni Morra

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