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GUERRA ALL’AUSTRIACO E GUERRA ALLA PANDEMIA: SIMILITUDINI

Posted by on Giu 23, 2023

GUERRA ALL’AUSTRIACO E GUERRA ALLA PANDEMIA: SIMILITUDINI

Leggendo tesi e saggi che analizzano il primo dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo, ho trovato delle sorprendenti similitudini col periodo attuale, dove la guerra alla pandemia giustifica atti che altrimenti sarebbero considerati lesivi di diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione.

L’Italia del primo dopoguerra era una nazione sfinita e prostrata da tre anni di durissimo conflitto. Nonostante la vittoria sugli Imperi Centrali, l’Italia si trovava in una profonda crisi economica e sociale. Gli Alleati non avevano concesso i guadagni territoriali promessi nel Trattato di Londra e si erano divise le colonie perse dalla Germania. Nasceva il mito della “Vittoria mutilata”, sfruttato con abilità dal fascismo. L’industria pesante del nord Italia, concentrata nel triangolo Milano-Torino-Genova, sulla quale si era riversata buona parte delle risorse economiche durante il periodo bellico, si trovava in grosse difficoltà. Con la fine del conflitto, le commesse statali erano crollate ed erano cessate le agevolazioni fiscali, costringendo le industrie a una veloce riconversione produttiva. Tale complessa operazione, non supportata dal mercato a causa del crollo del tenore di vita degli italiani, portò a fallimenti, sospensione di attività e conseguenti licenziamenti. In breve tempo, nel Paese si determinò una situazione di grande instabilità, dove molti settori dello Stato si erano abituati durante il conflitto ad agire in autonomia dal Parlamento. La violenza era diventata uno strumento ordinario utilizzato nel raggiungimento degli obiettivi da quasi tutte le forze politiche. In tale contesto ebbe inizio una stagione di proteste, di scioperi, di disordini contro i licenziamenti e il carovita che sfociò anche nell’occupazione di fabbriche e di terre.

Durante la grande guerra, oltre ai nemici esterni, gli austro-tedeschi, c’erano i nemici interni: socialisti, anarchici, cattolici, insomma non interventisti. La tecnica utilizzata dagli apparati statali e dalle forze politiche interventiste fu quella innanzitutto di deumanizzare gli avversari, rappresentandoli come dei pericoli subdoli: malattia contagiosa, virus, batteri, parassiti, insetti nocivi, tutti da sterminare prima che distruggano l’organismo ospitante.[1] Come non pensare alla definizione di “sorci” del dottor Burioni e di “disertori da fucilare” del sindaco Dipiazza affibbiato ai non vaccinati? Questo processo di inclusione ed esclusione aveva una duplice funzione: da una parte discriminare e allontanare il «diverso», percepito come un nemico; dall’altra unire e fortificare, fornendo a milioni di individui che immaginano di somigliarsi l’un l’altro un ideale comune in cui credere e un nemico comune da cui saranno in grado di difendersi solo se combatteranno uniti.

Il nazionalismo giocò da collante per gli elementi inclusi, a tutto svantaggio delle minoranze, spesso assai significative, cioè i non integrati. Gli uomini che appoggiavano in qualche modo il potere costituito erano quindi legati tra loro non tanto da principi comuni, ma attraverso l’odio nei confronti di una minoranza “pericolosa”, diretta conseguenza di una paura instillata loro da una propaganda martellante. In sostanza, i nemici servivano a compattare masse di persone che altrimenti mancavano di motivi per essere unite. Così facendo, la popolazione divenne sempre più assuefatta alla violenza mediatica e fisica che si scatenava nei confronti dei gruppi politicamente indesiderati.[2]

Il nemico può anche non essere umano, ma un semplice virus, e i “non interventisti”, che disertano la lotta e non si vaccinano, possono essere presentati come il nemico interno e subdolo, da isolare e combattere. Quindi, una pandemia che compatta i partiti, diversissimi tra loro, in un governo e in un programma, per lottare uniti contro il contagio, perseguitando coloro che si astengono dalla lotta, i disertori.

Le proposte di creare una situazione extra-legale, per affrontare la guerra con più efficacia, si susseguivano. Per combattere il “morbo sovversivo” costituito dai socialisti si propose di schedare i neutralisti, di bandire la libertà di stampa a vantaggio di un unico giornale che rispecchiasse la “coesa volontà nazionale” e, addirittura, di internare i parlamentari di sinistra in campi di concentramento. Un’informazione con voce unica e martellante e la schedatura dei cittadini, dividendoli in buoni e cattivi, ci riporta ai giorni nostri?

Il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore del Regio Esercito dal 1914 alla disfatta di Caporetto, spietato ideatore degli assalti frontali a oltranza, scrisse nelle sue memorie: «Per dare all’Italia un coeso fronte interno sarebbe sufficiente arrestare qualche centinaio di caporioni e di propagandisti, liberarne il Paese trasportandoli sulle coste dell’Eritrea e della Somalia, e sopprimere i giornali e giornalucoli, avvelenatori dello spirito pubblico». Alcuni rapporti di polizia riferivano addirittura di progetti per far chiudere il Parlamento e imporre lo stato marziale per tutta la durata della guerra.[3]

Il 3 ottobre 1917 la paura di sommosse e di cedimenti del fronte interno spingeva il prefetto di Venezia Giuseppe Sorge a inviare ai sindaci della provincia una lettera in cui li invitava a vigilare attentissimamente perché l’ordine pubblico non fosse turbato, prendendo i necessari accordi col comandante della locale stazione di carabinieri. Nella lettera il prefetto esprimeva l’idea di una classe operaia e bracciantile incapace di condurre «le aspirazioni di tutto un popolo, al di là della breve cerchia dei confini locale. Operai e braccianti non sono capaci di superare le difficoltà delle situazioni nuove e gravi, se non li soccorre una forza esterna, sana e potente, che li diriga verso più vasti e più sereni orizzonti». Dunque, un popolo immaturo e infantile, incapace di gestirsi e di prendere le decisioni più giuste per la comunità. Quindi, nasce la necessità di una guida forte e sicura che influenzi beneficamente lo spirito pubblico. E il compito spettava, e spetta, alla classe dominante. Chi è oggi la guida sicura e illuminata che segna la rotta e compatta le forze politiche e il popolo ignorante?

La propaganda politica postbellica si fondò sull’esasperata oscillazione fra l’identificazione e la non identificazione fra “noi” e “loro”. Una contrapposizione in cui la prima categoria, “noi”, conteneva i migliori, i patrioti, quelli dallo spiccato spirito civico; la seconda categoria, “loro”, conteneva i disertori, gli emarginati, gli eversivi, coloro che non si uniformavano all’agire comune. Gli “altri” dovevano apparire come se fossero stati in procinto di prendere il sopravvento, se non li si fosse distrutti preventivamente.

Come ha sostenuto lo storico Emilio Gentile, il fascismo puntava a imporre il culto della sua religione a tutti gli italiani, senza tollerare l’esistenza di culti antagonisti. Coloro che non fossero disposti a convertirsi sarebbero stati considerati reprobi e dannati, che dovevano essere perseguitati, puniti e messi al bando dalla comunità della nazione.[4]

«Se si riesce a isolare il gruppo preso di mira, a svilirlo e a demonizzarlo, nella società si innesca una dialettica minaccia/timore con una precisa dinamica. La gente invoca protezione proprio da quella minaccia che il regime è stato così abile a fomentare; si erigono provvedimenti drastici contro i malfattori verso i quali il regime ha puntato il dito».[5]

Un invito a riflettere sulle numerose analogie tra i due periodi storici: deumanizzare i non allineati; l’idea di un popolo immaturo guidato da un capo illuminato; la necessità di uno stato di guerra o di emergenza; un nemico pericoloso che compatti il popolo; fomentare la paura; la schedatura dei sovversivi; bandire la libertà di stampa e costituire un’informazione unica; la sovranità popolare privata di un effettivo potere; ministri, generali e prefetti (e medici) abituati ad agire al di fuori delle garanzie costituzionali; aggirare le leggi per un’azione più efficace a raggiungere la vittoria.

Domenico Anfora

Le mie riflessioni sono ispirate dalla lettura della tesi di laurea del laureando Andrea Castelletto, anno accademico 2017-18, Università Ca’ Foscari di Venezia, Esperienze, rituali, memorie del fascismo. Tra storiografia e analisi di un caso locale.


[1] Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista. 1918-1925, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 117. 

[2] Mosse George L., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 8.

[3] Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma, 2003, pp. 211-232. 

[4] Emilio Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 40. 

[5] Abram De Swaan, Reparto assassini. La mentalità dell’omicidio di massa, Einaudi, Torino, 2015, p. 138.

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