Alta Terra di Lavoro

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BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VII)

Posted by on Ago 30, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VII)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

VI

Il brigantaggio sotto, la penultima luogotenenza – (Maggio, Luglio 1861) – Le aggressioni alle frontiere – II vero Chiavone – Aneddoti – I muli dinnanzi a un consiglio di guerra – II conte Ponza di San Martino – I benefizi della conciliazione – II comitato di Roma, sue mene, sue ramificazioni – Giuramento degli affiliati – Complicità della Santa Sede – Cosa sperassero i Borbonici – La cospirazione a Napoli – II cardinale Arcivescovo – Miracoli – Elogio de9 Napoletani e delle Guardie nazionali – Città, tranquille, borgate assalite – Assalto di Caserta – Un documento officiale ed inedito – Fatti di Avellino – Eccidii di Montemileto – II governatore De Luca e gli Ungheresi – Arrivo di Cialdini.

La Basilicata era dunque ricondotta in tranquillità sul finire di aprile, e il paese cominciava a rassicurarsi, quando si seppe ad un tratto che il 3 maggio verso le due del mattino, dugento uomini circa erano caduti su Monticelli, piccolo luogo della Terra di Lavoro presso la frontiera romana.

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Vi eseguirono le loro ordinarie prodezze, e fortificandosi nelle case respinsero una compagnia di soldati regolari inviati contro di essi da Fondi. All’indomani giunsero altre forze italiane con pezzi d’ artiglieria, ma gli aggressori erano scomparsi colle loro armi e col bottino. Invasero, fuggendo, altre comuni, ove crederono bene di cambiar le autorità e di promulgar decreti con gravita dittatoriale. Si lavorava ad una nuova strada, aumentarono di dieci soldi il salario degli operai. Ciò fatto, si dettero alla fuga.

Il capitano borbonico che si dava l’aria di imitar Garibaldi, si chiamava Chiavone. Si è molto parlato di quest’uomo, e gli si è attribuita una importanza che egli non merita. Non è un partigiano, ne un brigante, è un birbo. Già guardacaccia a Sora, e così acquistata una certa influenza su coloro che cacciavano ne’ feudi altrui per mestiere e senza licenza, e sui contadini. Durante l’ultime rivoluzioni, nel va e vieni de’ patriotti e de’ borbonici che passavano per Sora per partirne e lasciarla poi in libertà, egli si offrì di conservar l’ordine con pochi carbonai che teneva sotto i suoi ordini. Parlo di veri carbonai che esercitavano il loro mestiere sulle montagne e non de’ carbonai, che congiuravano per i Borboni sotto Murat.

Chiavone fu in mancanza di meglio accettato, e scacciato al ritorno de’ liberali. Fuggì allora co’ suoi carbonai e accrebbe il numero de’ suoi seguaci. Armati alla rinfusa, corsero le campagne con quel famoso tedesco già nominato che non si chiamava Lagrange, ma che portava questo nome al quale parea annettersi importanza. Lagrange fu messo da parte, e Chiavone continuò il mestiere per suo conto. Occupò le montagne che dominano il paese di Sora, tenendo in freno la città. Vi discese anche una volta, il 3 dicembre, e vi rimase un giorno fino all’arrivo delle truppe.

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Dopo quell’epoca la sua banda è rimasta continuamente sulle alture, che confinano cogli Stati romani. Egli, sempre nascosto, sempre indietro, non entrando mai ne’ villaggi assaliti, ma rimanendo al di fuori per proteggere la fuga della sua gente dopo il saccheggio, davasi aria di viceré. Pubblicava proclami, inviava intimazioni e le datava da ogni luogo possibile. Ho visto un suo decreto dato dal Quartier generale di Sora; si sarebbe potuto credere che egli fosse stabilito nella città; pure stava nascosto a due ore di distanza dalla medesima, nel territorio del pontefice.

Il 27 maggio inviò dalla sua montagna un parlamentario alla guarnigione italiana. Le intimò di capitolare, offrendole salva la vita e un salvacondotto fino a Torino. Gl’Italiani trassero fuori un cannone. Chiavone era già rientrato in terra santa.

Perocché tale era il suo sistema. Non amava di battersi, e si teneva sempre agli estremi confini dell’ex-reame di Napoli. Appena attaccato, spiccava un salto all’indietro, e nulla avea a temere. Gl’Italiani si fermavano (immaginate il supplizio!) al confine di quella linea fatale, dacché era loro proibito di oltrepassarla. La Francia era in fazione davanti il Patrimonio di San Pietro. I briganti passavano e si ridevano della sentinella. Gl’Italiani dovevano retrocedere stizziti dalla rabbia.

Ed ecco come ha avuto si lunga vita questa banda di ladroni non ancora distrutta. Essa spiava la partenza delle truppe, e cadeva all’improvviso in qualche distretto abbandonato, come Luco, Monticelli, Castelluccio, Roccavivi. Poi si salvava sulla montagna, e Chiavone ritornava a Roma per raccontare le sue prodezze e chieder danaro.

Ad ogni viaggio cresceva in grado. Si nominò dapprima1 capitano, poi colonnello, poi generale, poi luogotenente generale.

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Tutte le sue fanfaronate non erano ingenuità, ma artifizii. Inviava intimazioni ai Piemontesi per mostrarle poi ai comitati borbonici. Evidentemente egli ne imponeva a coloro che gli davano delle piastre, perché null’altro ha fatto se non che raccoglier bottino. Temeva le palle: lo ripeto, non era ne un partigiano, né un brigante. Parmigiano è un eufemismo, brigante un’iperbole. Non era che uno speculatore, che poneva a riscatto i proprietari e che sovra tutto speculava sul re che serviva.

Alla perfine non era malvagio. Gli si condussero un giorno due carabinieri piemontesi: non li impiccò, anzi li colmò di cortesie, e offrì loro anche del caffè, che mandò a rubare nel paese vicino. Bevuto che ebbero il caffè, propose loro di arruolarsi al servizio di Francesco II o del Papa. Dietro il rifiuto di essi, li lasciò liberi, ritenendo le loro uniformi. All’indomani rientrarono a Sora, vestiti da contadini, latori di una carta preziosa, di cui non riproduco l’ortografia:

A tutte le autorità civili e militari. Lasciate passare questi due contadini.

II generale Chiavone.

Gli atti di crudeltà commessi dalla sua banda non sono a lui imputabili. Io non conosco che una sola esecuzione da esso ordinata. Avea rubato de’ muli a un proprietario: offrì di renderglieli contro una somma di danaro: il proprietario non inviò la somma. Allora egli riunì un consiglio di guerra. I muli condannati a morte subirono immediatamente la pena. I chiavonisti tirarono sopra di essi 17 volte, gridando ad ogni scarica

Viva Francesco II, Viva Chiavone!

La mania di Chiavone è d’imitar Garibaldi. Si da aria di dittatore, ha conservato il suo pittoresco costume, i sandali, il cappello di feltro, l’abito, la sottoveste,

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i pantaloni di velluto, la cravatta rabescata, la sciarpa rossa, la cintura adorna di pugnali e di pistole. Gli mancano però alcune qualità, prima l’ardire, poi il disinteresse, e finalmente l’ortografia.

Posseggo un autografo di lui ripieno di barbarismi, e sigillato collo stemma di Francesco II. Non lo riproduco, perché non è intelligibile. Ma eccone un altro:

Comando della Brigata dell’armata Napoletana.

Signor Sindaco

Alla vista della suddetta subito si alzi la voce del nostro augusto Sovrano, e si togliono le bandiere di Savoia e si alzano quello di Francesco Borbone, se non altrimenti il paese sarà dato sacco e fuoco, e pronte di trovare due mila razionidi pane e formaggi, pronti nella mia venuta in Balsorano.30 giugno 1861.

Il tenente Generale in capo 

Chiavone.

Chiavone non era adunque molto pericoloso, e l’importanza che gli si è voluto attribuire, anche ne’ giornali liberali di Francia, ha sempre fatto ridere i Napoletani. Si ingannano a partito coloro che affermano che egli fosse il generalissimo degli insorti in queste provincie.

Le bande non hanno giammai operato di concerto, né hanno avuto l’apparenza di esser d’ accordo, salvo una volta, forse alla fine di luglio. Ma non vi siam giunti ancora. Lo stesso consigliere Ulloa (il solo uomo politico che sia rimasto presso Francesco II) se ne lagnava in una lettera confidenziale.

Tutti questi uomini erano riuniti dal caso in corpi indipendenti l’uno dall’altro; tutti questi corpi avevano capi separati, che seguivano la loro propria volontà. Chiavone ha fatto parlar molto di sé, perché è rimasto in continua comunicazione con Roma,

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dove pubblicava i suoi bollettini e i suoi ordini del giorno. Gli altri relegati nelle montagne dell’interno, non erano conosciuti che in Napoli, che si studiava di non esagerare le loro imprese: eppure furono ben più coraggiosi e pericolosi di Chiavone.

Ma ognuno operava per conto suo, senza direzione, ne guida. Così il brigantaggio politico non era molto temibile alla partenza del signor Nigra (seconda quindicina di maggio). Battuto ovunque, non ispirava inquietudine. I disordini dell’amministrazione rendevano i Napoletani assai più malcontenti dei disordini delle provincie. Fu quindi inviato loro un eccellente amministratore, il conte Ponza di San Martino. Il nuòvo luogotenente si adoperò a conciliare, sistema ottimo in teoria. Diede de’ balli nel palazzo reale, ove gli stessi borbonici furono attratti, perché non crederono dover rifiutare l’invito: anzj porsero consigli

più pacifici, e referirono poi né1 loro circoli ciò che facevasi nel palazzo reale. Incoraggiti da questa benevolenza,raddoppiarono d’attività ne’ lorò conciliaboli, e la cospirazione estese le sue fila nell’intiero, paese.

Il centro si ridusse più che prima in Roma, e Francesco II lungamente indeciso finì, credo, per dirigerla in segreto, disconfessandola ne’ suoi Manifesti, II signor Del Re, ministro ostensibile, dichiarava che i moti spontanei delle popolazioni napoletane non erano ne provocati, né secondati da Francesco II. M& un principe del sangue, il conte di Trapani, zio del re, dirigeva un’ immensa cospirazione borbonica. In grazia di corrispondenze intercettate si hanno oggi ragguagli completi intorno a codesta cospirazione. Un comitato generale si riuniva a Roma sotto lo pseudonimo di Associazione Beligiosa e sotto la presidenza del conte di Trapani.

Dopo di lui sedeva, come ministro della guerra, un giovane fratello

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del re, il conte di Trani, che per una somiglianza di nome è stato sovente confuso con suo zio. Sotto di essi il generale Clary esercitava le funzioni di segretario generale. Un comitato centrale risedeva a Napoli; altri erano sparsi nei capoluoghi e nelle città importanti delle provincie. Questi comitati componevansi: d’un delegato con un segretario di sua fiducia; di un presidente munito di poteri estesi e di un diploma stampato, che veniva inviato da Roma; di un segretario incaricato di attivare le comunicazioni cogli altri comitati; duna specie di cancelliere che autenticava colla sua firma le copie; di otto decurioni i migliori e i più influenti sul popolo, in specie al punto di vista religioso; d’un cassiere generale, uomo onesto, prete se era possibile; e di quattro censori necessariamente preti per sorvegliare l’amministrazione della cassa e gli atti degli affigliati; infine di otto deputati, coll’ufficio di soccorrere i poveri.

I comitati arruolavano e assoldavano quanti uomini potevan trovare. Per ammetterli, non si chiedeva a codesti uomini che di marciare e di fare insorgere le comuni vicine. Erano condotti da un comandante in capo e da officiali, de’ quali i comitati stabilivano la scelta e il numero. Tutti avevano brevetti, che gli facevano riconoscere dalle altre bande, e che dovevano in appresso dar loro diritto ai favori del governo restaurato.

Si hanno oggi notizie complete sopra la cancelleria de’ comitati. Non le riproduco. Ma ecco la formula del giuramento che mi piace trascrivere:

«Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre), e promettiamo di concorrere con tutta la» nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i

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suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia di» rettamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinchè la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo.»

Dopo la lettura di questi documenti autentici non resta alcun dubbio sulla complicità dell’ex-re, o perlomeno della famiglia esautorata, nelle sanguinose mene della reazione. È positivo che la fucina delle cospirazioni era a Roma: è certo del pari che il governo di monsignor De Merode tollerava e un tantino incoraggiava anche gli arruolamenti. Su questo proposito le confessioni de’ prigionieri sono concordi. Un Pietro Cimaglio della provincia di Campobasso, caduto nelle mani degli Italiani, ha narrato tutta la storia del suo ingaggio. Stabilito a Roma da molti anni(era calzolaio e padre di famiglia), avea ricevuto il 25 giugno la visita di un ex-gendarme di Napoli,accompagnato da poliziotti romani, che gli intimarono di entrare nelle bande di Chiavone, l’asserendo essertale l’ordine della polizia. Passò una cattivissima nottata con altri arruolati, nelle scuderie del palazzo Farnese: uscì poi di Roma sotto la condotta di uno sbirro pontificio e fu trascinato fino alla frontiera con

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i suoi compagni d’infortunio, passando in mezzo ai gendarmi di Sua Santità. Questi lasciavano andare ovunque la banda, dietro queste semplici parole del caporale Peppino che la conduceva:

È roba del re di Napoli.

Ciò risultò dall’interrogatorio de’ prigionieri, e ne ho avuto il documento nelle mani. Senza prestar fede intiera alle loro denunzie intorno agli arruolamenti coatti (allegavano evidentemente la violenza a loro discolpa), si può ritenere almeno che la polizia e la gendarmeria romana, che avrebber potuto arrestarli venti volte fra Roma e Alatri, li secondavano. Hanno confessato anche che gli era stato promesso da bere e da mangiare e più quattro carlini al giorno. Giunti presso Chiavone, il famoso capitano diceva loro: «Voi beverete e mangerete come noi: quanto al denaro, vi sarà pagato quando Francesco H sarà a Napoli.» Caddero affamati nelle mani de’ Piemontesi: non desinavano tutti i giorni, e dopo la loro partenza da Roma non avevano bevuto che acqua.

Questi sono fatti, e mi astengo dal narrarne dei consimili, onde non riempire questo mio lavoro di aneddoti. Aggiungerò soltanto questo singolare ragguaglio, che per sfuggire alla vigilanza de’ Francesi, la cui bandiera era destinata a proteggere soltanto il Papa, gli arruolati furono più d’una volta travestiti da gendarmi pontificii.1 Passavano così baldanzosi davanti ai corpi di guardia francesi, e non riprendevano i loro costumi di Fra Diavolo che alle frontiere.

Così rimane constatata la connivenza di Roma. Molti altri fatti vennero addotti per giustificarla.

Una lettera datata di Roma, 5 settembre, e indirizzata da un antico soldato, Anmbale Saracino, a Michele Fammassino suo amico, e stipettaio a Larino (provincia di Campobasso) contiene questa frase: «Mi trovo in modo fittizio» nella gendarmeria del Papa; ma in realtà noi siamo al servizio di Francesco II.»

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Si è preteso che i briganti fossero pagati col danaro di San Pietro e armati con i fucili napoletani, consegnati dal signor de Goyon al governo papale. Ignoro quello che di vero può esservi in tali voci; solamente mi è noto, che in più di uno scontro si sono trovati ai prigionieri, o a lato de’ cadaveri, fucili segnati collo stemma pontificio.

Che speravano dunque le corti di Roma e di Napoli, e che attendevano da queste inesplicabili incursioni? Forse una restaurazione? Non può supporsi un tale acciecamento. La dinastia dei Borboni sostenuta da 80 mila baionette, erasi sfasciata dinanzi a un pugno di volontari, né poteva rialzarsi in faccia ad un’armata regolare e potente, per opera di un pugno di banditi. Pure eranvi uomini di senno a Roma, intorno a Francesco II, e, a mo’ d’esempio, il consigliere Ulloa. Bisogna credere che loro unico intendimento fosse quello di agitare il paese, di eccitare le moltitudini, di perpetuare l’anarchia e il disordine, sia per mostrare ali1 Europa che Vittorio Emanuele non poteva regnare a Napoli cosi bene come Francesco II; sia per farle credere che tutti que’ furti e (quelli assassinii provavano l’attaccamento delle popolazioni alla dinastia esautorata; sia per attrarre verso il mezzogiorno le forze italiane, onde lasciassero sguernite le frontiere del Mincio e del Po; sia forse (se havvi qualche cosa di vero nell’ultima parola di un alleato potente al Governo italiano) per ritardare la pacificazione delle provincie del mezzogiorno e aggiornare quindi l’evacuazione di Roma.

Comunque siasi, la cospirazione era sparsa e organata. Il Comitato di Napoli operava nel mistero, i conciliaboli affiliati avevano luogo dovunque, in mezzo alla città, all’aria aperta. Il cardinale arcivescovo, monsignor Riario Sforza, contrapponeva conversazioni politiche a quelle del luogotenente del re.

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Il suo palazzo era il convegno de’ reazionari. Il prelato stesso cospirava o almeno faceva resistenza, rifiutando il suo concorso a tutto quanto avrebbe potuto rassicurare e pacificare il paese. Si spingeva più lungi; sospendeva a divinis tutti i preti, che cantavano il Te Deum o predicavano in favore dell’Italia. Questa sospensione toglieva loro tutto, fino il diritto di dir la messa, meschino lucro de’ ministri di Dio. Quelli che non cospiravano per convinzione, presero a cospirare per necessità. A Salerno, per eccitare i devoti, i preti fecero fallire non so qual miracolo. Tanto non si ardì a Napoli; ma invece si inventarono de’ miracoli contro Vittorio Emanuele.

Un giorno, per esempio, in prossimità della Vicaria, vidi una gran folla riunita dinanzi ad una cappella, della quale era la porta aperta e l’interno illuminato. La moltitudine gridava, gemeva, infuriava come ne’ giorni di sommossa: – «Cos’è mai?» – chiesi. Una donna del popolo mi rispose mostrandomi il pugno: «La porta si è aperta e la cappella si è illuminata da sé: è un miracolo della Vergine.» – «E che significa questo miracolo?» – «Che la Madonna è incollerita contro i Piemontesi.»

Molti giornali partecipavano al complotto, e facevano propagande borboniche: gli uni con precauzione e con una certa destrezza, gli altri a faccia scoperta. Si stampavano articoli in lode de’ briganti: si ingiuriava il Governo nel modo più violento. L’ opposizione radicale, furiosa contro la Luogotenenza, faceva coro e forniva le armi all’opposizione retriva. Un giornale rosso, Il Popolo d’Italia, inventava enormità, che l’indomani venivan riprodotte dalla Settimana, giornale borbonico. E un pessimo giornalùccio, di cui non ricordo più il nome, si spinse fino a profetizzare prossimo il ritorno di Francesco II.

Dovunque opposizione, e in specie nel campo degli uomini d’azione tenuti da parte dal sistema conciliante della Luogotenenza.

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Per fondere i partiti mezzani, i difensori moderati di Francesco II e i difensori moderati dell’Italia, si era irritato l’elemento garibaldino, ossia la classe popolare e viva che rimaneva nel paese. Che questa classe avesse elementi eterogenei, lo concordo; ma era una classe che esisteva e che aveva forza. Bisognava abbatterla o cercare di non farsela nemica; diciamo meglio, non potendo abbatterla era necessità non averla avversa. Nulla si fece, e fu male.

Io ho veduto molte volte il momento, in cui il popolo eccitato in tutte le guise era vicino a spingersi fino alla sommossa. I Borbonici inasprivano i rancori e compiangevano Garibaldi di gran cuore. Si mascheravano da patriotti avanzati, anche da Mazziniani per cominciare il tumulto, dividere e porre in collisione il partito nazionale.

E pure a dispetto di queste mene, Napoli non si mosse. Salvo alcune dimostrazioni inutili e che neppure vennero represse, la città passò un anno intiero di rivoluzione, senza agitarsi in apparenza. Naturalmente vivace e gaia, non cambiò, curandosi soltanto di dipingersi ai tre colori.

Indarno i giornali fremevano; indarno i confessionali porgevano nascostamente proclami di Chiavone e manifesti di Francesco II; indarno la fotografia spargeva i ritratti in carta da visita del generale Bosco, con una quartina morale che annunziava il suo prossimo ritorno

colla spada e colla face;

indarno il malcontento era quasi generale, sovreccitato dagli errori del governo, dai riflussi e dai rovesci che seguono tutti i rivolgimenti, dai disinganni, dalle sofferenze, dai timori e sovra ogni altra cosa dalla miseria. Il popolo napoletano non si mosse.

Questa è una giustizia che bisogna rendergli, e che, a senso mio, l’Europa non gli ha reso abbastanza.

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Evidentemente in questo popolo vi ha un buon senso supremo che l’ha salvato da molte catastrofi. Dopo il 25 giugno 1860, giorno in cui Francesco II ruppe il freno di lui, fino ad oggi, ha sopportato coraggiosamente molti mali e collettivamente non ha commesso un errore. In più d’una crisi terribile si è condotto con una concordia, con una saggezza, che non si sarebbero mai attese da lui. Si è manifestato molte volte a’ suoi padroni, spontaneamente, pacificamente, ha imposto loro la sua volontà senza violenza, e, cosa strana, si è dovuto conoscere che quanto chiedeva era giusto. Dopo le concessioni di Francesco II il suo contegno ha fatto sì che quella pericolosa transazione non si consolidasse, e ci ha salvato da un nuovo 15 maggio, e dalla sequela di terribili reazioni. Né ‘si dica che queste sono profezie arbitrarie: le brutalità del 15 luglio le hanno dolorosamente giustificate.

Colla sua indifferenza il popolo avea dunque detronizzato Francesco II. Consacrò Garibaldi col suo entusiasmo: respinse Mazzini con la sua opposizione. Ardì anche di resistere in seguito al suo diletto dittatore: affrettò lo stabilimento di un Governo regolare, richiedendo ad una sola voce il Plebiscito. Per ultimo dopo l’annessione, a ogni motivo di discordia, ad ogni tentativo di rivolta, si oppose continuamente un sentimento superiore, generale, quasi unanime, che ha reso vani gli sforzi de’ partiti violenti, e conservato Napoli all’Italia.

Io non ho risparmiato i Napoletani: ho dunque diritto di proclamare questi, fatti in loro onore.

Un altro principio d’ordine ha salvato il paese, ed è stata la Guardia nazionale. È abitudine di schernir questa istituzione: gli schernitori sarebbero i mal capitati a Napoli. Quivi la milizia cittadina non è composta di borghesi ciarlieri, i quali dicono che la loro sciabola è il più bel giorno della loro vita.

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La Guardia nazionale è la gioventù del paese. Il primo giorno essa ha saputo marciare: i più vecchi militari l’hanno ammirata. Ha adempiuto al suo dovere costantemente. Noi ci siamo trovati per qualche tempo senz’armata, senza polizia; tutti i gendarmi, tutti gli sbirri erano scomparsi: i Garibaldini erano dinanzi Capua; l’armata reale a due ore da Napoli; la Guardia nazionale ha sostenuto le veci di tutti. Notte e giorno sotto le armi, durante due mesi, ha fatto la guardia ai forti, alle caserme, in tutti i posti, in tutti i palazzi: essa vigilava ne’ corpi di guardia, pattugliava nelle vie, si trovava anche in faccia a Capua, e aveva il tempo di far le sue parate le domeniche sulla Piazza di Palazzo. Per due mesi questi dodicimila giovani tutto hanno abbandonato, tutto sacrificato, famiglia, affari, piaceri, per custodire la città, che mai dormì più sicura. Un nuvolo di avventurieri sconosciuti era piovuto in Napoli; eppure non fu commesso un furto, non fu rotto un vetro.

Né da quell’epoca un tale zelo si è smentito per un solo istante. Questi giovani soldati furono sottoposti a molte prove; furono inviati nell’alta Italia; ad ogni allarme chiamati, mandati nelle campagne contro i ladri e contro i briganti. Non hanno mosso un solo lamento. Comandati ora da un uomo di un’infatigabile operosità, il generale Tupputi, perseverano nella loro devozione con una ostinata pazienza. Passano le giornate al sole, le nottate in piedi senza rammaricarsi: e anzi che essere in urto con l’armata regolare, si studiano di farle amar Napoli, e di farla amare dai Napoletani. Le offrirono una sera un banchetto splendido nel teatro di San Carlo. Questi giovani hanno esposto la loro vita molte volte; al bisogno si batterebbero valorosamente: marciano già come veterani.

Non fu soltanto in Napoli che la Guardia nazionale e il buon senso popolare bastarono contro il disordine.

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Avvenne lo stesso in provincia, in tutti i capoluoghi, in tutte le città di qualche migliaio di abitanti. Dopo Venosa e Melfi la reazione non sollevò alcun Comune d’importanza. Mi assicurano che il 13 luglio i briganti poco mancò non attaccassero Cosenza; ma non lo osarono.

In ricambio, le borgate furono orribilmente maltrattate sotto la luogotenenza, del conte di San Martino. Non fu per colpa di quest’uomo dabbene, il quale era logico nel suo sistema di conciliazione; ei non voleva far la guerra a1 briganti; ma domarli con la paura. Era un’idea forse in teoria eccellente. Egli chiedeva sessanta battaglioni per battere in tutti i ‘punti le provincie meridionali. Con queste forze avrebbe in prima spazzato le pianure e cacciato i briganti sulle montagne: allora facile diveniva lo assoggettarli. Non sarebbero stati attaccati, ma circondati soltanto e intimati a rendersi; si sarebbe promesso loro grazia e lavoro. Stretti da vicino, minacciati dall’inverno, sforniti di viveri, temendo insieme la fame,il freddo e le palle, si sarebbero resi senza alcun dubbio. Tutto ciò era magnifico… scrivendo.

Disgraziatamente era mestieri di sessanta battaglioni, e l’Italia dovea difender le sue frontiere. Un tempo prezioso fu perduto in negoziati e in discussioni fra Napoli e Torino. E frattanto la reazione, e in specie il brigantaggio si spargevano in tutte le provincie meridionali.

Nulla havvi in ciò di sorprendente. I tempi erano cattivi, il pane caro, il lavoro quasi nullo. Bisognava vivere: il mestiere d’insorto fruttava molto danaro e molto bottino; i curati spingevano alle rapine; si serviva una causa santa, e dopo l’era della conciliazione non si metteva a repentaglio la vita. Le fucilate aveano cessato: si poteva dunque assassinare a bell’agio. D’ altra parte Garibaldi era morto, e Francesco II prossimo a ritornare.

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La polizia ha trovato sopra emissari borbonici istruzioni sulle voci che dovevano spargere: in esse era scritto che Francesco II era alle porte del Regno, che gli Austriaci stavano per passare il Po, che l’imperatole Napoleone dominato dai clericali faceva causa comune colla reazione, unico modo per conservare il suo trono.

Sopra un altro agente chiamato Spadafora, e arrestato in Calabria con un convoglio di muli, fu sorpreso un Avviso che annunziava che il conte di Cavour si era avvelenato, perché le sue carte segrete erano state consegnate all’Austria, che i Piemontesi erano stati costretti a consegnare Ancona a una flotta anglo-russa, lasciando dietro a sé i loro cannoni; che ogni notte giungevano a Napoli grossi convogli di feriti, che appena rimaneva un pugno di Piemontesi nella città, i quali stavano per ripartire per Torino, e che infine prima di settembre l’Italia intiera si sarebbe ritrovata nello stato in cui era prima del 1859, e mille altre fiabe. Queste notizie venivano narrate ai contadini, ai quali si dava del denaro perché le credessero: e le credevano.

Aggiungete che avevano paura, e la paura, che spiega tutto in questo paese, era così un potente ausiliare per la causa borbonica; se non tendevano le mani agli aggressori, erano saccheggiati e uccisi; ed essi tesero loro la mano. Si scrisse che in niun luogo le popolazioni hanno con essi fraternizzato. È vero per le città e per i grossi villaggi che potevano difendersi: ma le borgate derelitte, isolate, rendevansi senza trarre un colpo di fucile. La plebaglia abietta di certi luoghi non vergognossi di prestar man forte ai banditi e di indicar loro le case dei ricchi. La Guardia nazionale composta di cinque o sei uomini, lasciavasi disarmare senza resistenza. Potrei anche citare uno o due luoghi più che timidi, Vallerotonda (Terra di Lavoro)

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per esempio, ove le Guardie nazionali si lasciarono togliere 150 fucili da 17 briganti.

Queste Comuni invase avevano sindaci che nulla potevano. In questo tempo di conciliazione il sindaco non risicava altro ch’esser destituito, se faceva buona accoglienza ai pretesi borbonici: all’incontro, poteva esser bruciato vivo, aver la casa incendiata: fra i due mali sceglieva il minore. Dopo il saccheggio, diceva al capo della banda: ora bisogna che faccia il mio dovere di pubblico ufficiale: chiamerò i Piemontesi, perché vi scaccino; e il capo della banda rispondeva: fate pure.

I Piemontesi giungevano, i briganti erano scomparsi, e il sindaco Vantavasi di averli posti in fuga.

Ed ecco come sotto la penultima Luogotenenza il brigantaggio si sparse quasi per tutta la estensione dell’ex-reame. Si è preteso che cinque provincie sopra quindici (o sedici, compresa Benevento) ne avevano sofferto. Mi duole dover qui contraddire ad un documento celebre e d’altra parte pregevolissimo; ma se l’importanza di ciò che si voleva chiamare una insurrezione borbonica è stata accresciuta fuori di misura in alcuni giornali, mi pare eh’ essa sia stata molto diminuita nelle circolari del Ministero. Si è voluto dire che cinque provincie furono più generalmente devastate delle altre; ma io posso assicurare che al giunger del generale Cialdini, quasi tutto il mezzogiorno della penisola italica era infestato dai briganti. Ve ne erano negli Abruzzi e nella Terra di Lavoro, appena pacificata da una brillante spedizione del generale Pinelli; ve ne erano nelle Calabrie, in Basilicata e in Capitanata; ve ne erano nella provincia di Salerno in quella di Molise, e sopratutto in quelle di Avellino e di Benevento. Perfino intorno a Napoli avevamo briganti; una banda girava verso i Camaldoli, un’altra più importante nella montagna di Somma, che tocca al Vesuvio; un’altra fra Noia e Cancello. Questa tirava quasi ogni dì

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sui treni della strada ferrata, poneva a riscatto o spogliava i cantonieri, e attaccava un giorno (23 giugno) la stazione di Cancello, ove rubava 75 ducati. Queste sono notizie officiali. Il padrone di un caffè vicino, per nome Gennaro Ferrara, tentò di sottrarsi per chiamar soccorso; i briganti lo scannarono. Alcuni giorni dopo ritornarono nel caffè, vi si istallarono tranquillamente e chiesero da bere: furono serviti non premura, e niuno pensò di andare ad avvertire la guardia. Uno dei soliti, a frequentare quel luogo chiese al garzone se quelli. uomini erano gli assassini del suo padrone. Rispose: non ne so niente.

I briganti riuscirono in un colpo ancora più audace a Caserta, che è precisamente per Napoli quello che Versailles è di fronte a Parigi. Cipriano della Gala, forzato evaso, capo di banditi e generale borbonico, assai più avventuroso e più importante di Chiavone, aveva un fratello nelle prigioni di Caserta e volle liberarlo. A tale effetto riunì alcuni uomini risoluti che vestì da guardie nazionali; egli stesso indossò tale uniforme, poi una bella sera con audacia inaudita, si presentò alle prigioni di Caserta, e, tenendo un uomo per il collo, disse ai custodi: «Ecco un malfattore che ho arrestato e che vi conduco.» Fu aperta subito la porta e la banda invase la prigione: i custodi furono assaliti, il fratello di Cipriano posto in libertà e i detenuti liberati si unirono quasi tutti alla banda. Alcune guardie nazionali vere, riunite per caso, tentarono di arrestar la banda mentre essa usciva, ma furono sconfitte e disperse. La banda così aumentata uscì baldanzosamente da Caserta, e ritornò nella sua montagna.

Non finirei, se volessi narrare tutti i fatti de’ quali presi ricordo. Ho sotto gli occhi un lavoro istruttivo, che è stato compilato per me negli uffizi dell’interno e della polizia di Napoli.

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È la tavola de’ documenti officiali conservati in quel dicastero intorno ai disordini ai misfatti di cui debbo occuparmi. Estraggo da questo voluminoso registro una o due pagine soltanto; il sommario cioè di tutti i rapporti inviati nel mese di luglio dal governatore di Foggia sui torbidi della sua provincia. Da questo documento si rivelerà il vero carattere del brigantaggio: non è un brano di letteratura, ma è uno scritto esatto, officiale ed inedito.

1 luglio. –

Casalnuovo.

Assassinio commesso dai briganti sopra due individui di Casalvecchio nella fattoria chiamata Finocchito.

1 luglio. –

Casalvecchio.

Una banda di briganti imponeva a Giuseppe Antonio D’Alessio di pagare 2000 ducati, a Pasquale D’Elisi 6000, a Gennaro Cono 600, a Francesco D’Ondes 500, a Giuseppe Ferrecchia 200, con minaccia di bruciare le loro messi, se queste imposizioni non sono pagate: dal sindaco esigono abiti e 3000 ducati sotto pena di bruciare le sue messi e quelle del suo fratello.

3 luglio. –

Sansevero.

Tre briganti rubano un cavallo a un mercante di bestie, dopo di che svaligiano un cocchiere.

3 luglio. –

Torre maggiore.

I briganti uccidono tre giumenti a Tommaso Pensano e ne feriscono un altro. Impongono a Stefano Cataldo per la somma di 400 ducati; bruciano della vena e della paglia, molti fieni e molti grani in un possesso denominato Ripalta.

5 luglio.-

Sansevero.

Quattro briganti si impadroniscono di Don Ferdinando Parisi e gl’impongono un riscatto di 60 ducati: lo lasciano in libertà per 30. Lo stesso giorno, nel luogo medesimo, alcuni soldati sbandati rubano dei cavalli e delle armi a D. Paolo del Sordo; e dieci briganti con bandiera bianca impongono a D. Luigi Trotta la somma di 300 ducati, e si contentano di 48, prendendo anche un fucile. Finalmente sei briganti rubano un fucile ed altri oggetti a Don Antonio Gelanio.

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5 luglio. –

Serracapriola.

24 briganti rubano un cavallo a Pasquale Carità.

5 luglio. –

Bovino,

Sei briganti prendono il fucile a Niccola Toldo, milite nazionale.

6 luglio. –

Biccari.

Cinque briganti rubano a Lorenzo Goduti, in una cascina, otto forme di cacio cavallo, e due giumente, traendo colpi di fucile a oltranza.

6 luglio. –

Casalvecchio.

Orribile brigantaggio: furti, imposizioni forzate, ratti, fucilazioni.

7 luglio. –

Torremaggiore.

Tre briganti rubano delle bestie a Felice Di Pampo, a Pietro Inglese e ad altri. Tre altri s’impadroniscono di Alfonso Ferrante e gli impongono una taglia di 3000 ducati.

8 luglio. –

Cerignola.

Resistenza de’ briganti alla forza pubblica.

8 luglio. –

Castelnuovo.

I briganti si impadroniscono di un tal Pettinano, e lo lasciano in libertà verso il pagamento di 236 ducati e di alcuni oggetti di valore.

9 luglio. –

Tenimento di Pietra.

Una banda si impadronisce del canonico Don Paolo Leo e lo sottopone al riscatto per somma ignota.

9 luglio. –

Torre maggiore.

Furto di un cavallo da sella e taglia di 5000 ducati a danno di Don Vincenzo La Medica. Egual fatto avviene a Lucera Mi giorno stesso con imposte di 4000 ducati, di munizioni e d’ armi a carico di Don Tommaso La Medica: più 20 briganti rubano delle bestie a Giuseppe Montedoro.

10 luglio. –

IscMteUa.

Invasione di briganti in molte case colonicbe, saccheggi, porte scassate ecc. La Guardia nazionale avvertita si prepara a respingerli.

10 luglio. –

Apricena.

Riscatto di 1000 ducati imposto a Filippo Fiorentino. I briganti lo lasciano in libertà per 336 ducati e 40 grani.

10 luglio. –

Sanevero.

Riscatto di 4000 ducati imposto da 9 briganti a Pasquale Patruno, che vìen rilasciato per 230.

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12 luglio. –

Carlantino.

Invasione di questa comune per opera de’ briganti, i quali fanno cantare un

Te Deum.

Prendono in seguito un1 altra direzione, saccheggiando, bruciando ec.

13 luglio.-

Castelluccio (Val Maggiore).

I briganti assassinano Michele Agresti.

14 luglio. –

Sannicandro.

Incendio delle raccolte (perdita calcolata a 2000 ducati) a danno di D. Eugenio Pisani, che non pagò la somma impostagli dai briganti.

18 luglio. –

Foggia.

Brigantaggio orribile in tutta la provincia; eccessi di ogni sorta.

18 luglio. –

Cerignola.

Furto di tre giumente a danno del duca di Bisaccia.

19 luglio. –

Serracapriola.

Assassinio di Aurelio Petroni commesso dai briganti.

20 luglio. –

Sansevero.

Giuseppe Manuelli, Salvatore Codipietro e altri briganti bruciano le raccolte di D. Francesco De Pasquale, gli rubano i carri e gl’istrumenti da lavoro, per non aver da lui ricevuto la somma di ducati 2000, per la quale lo avevano imposto.

22 luglio. –

Sannicandro.

Imposizione di 300 ducati a Vincenzo Vocale; non ne paga che 160: i briganti fanno altro bottino.

22 luglio. –

Sansevero.

Imposizione di 500 ducati a Pasquale Petracchione, O quale non ne paga che 200. Furto di attrezzi di cordami e di danaro per il valore di 2400 ducati sopra quattro barche di Giovinazzo.

22 luglio. –

Montesantangelo.

Bartolommeo Scarano è assassinato dai soldati sbandati per essersi volontariamente arruolato fra coloro, che reprimevano il movimento reazionario a Vico nell’aprile.

24 luglio. –

Torre maggiore.

Furto di un cavallo a Bocola: imposta di 1600 ducati a D. Pasquale Fusi. I briganti gli uccidono gli armenti nella sua fattoria.

Il sommario non procede più oltre. Gl’Italiani erano giunti; l’ordine venne ristabilito nella provincia.

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Non aggiungo alcun commento a questa serie di fatti officialmente constatati: essi mi dispenseranno di narrare in particolare i misfatti monotoni de’ briganti, politici o no, sopra quasi tutto il territorio dell’ex-reame. Era dovunque la stessa storia, con maggior violenza ed accordo in alcuni luoghi, specialmente nel Principato ulteriore. Al giungere di Cialdini questa provincia era in fuoco. Cacciate dalla Terra di Lavoro per una brillante spedizione del generale Pinelli, le bande eransi gettate intorno ad Avellino, con una specie di furore. Una sessantina di briganti seguiti da soldati sbandati, da contadini armati di forche, entrarono, il 7 luglio in Montefalcione, gridando

Viva Francesco II

Invasero dopo Montemiletto, Candida, Chiusano e altri Comuni. Avellino stesso fu minacciata; gruppi di gente sospetta si formavano nelle vie. La Giunta municipale stette adunata in permanenza, e il governatore De Luca, uomo pieno di zelo e di coraggio, chiese istantaneamente a Napoli e a Torino rinforzi, che non si potè inviargli. Da principio il paese dovè difendersi solo. Un capitano della Guardia nazionale, Carmine Tarantino, uomo di 30 anni, professore al Liceo reale, e l’arciprete Leone sindaco di Montemiletto, che avea perduto il vecchio padre, suo fratello, tutta la famiglia in uno scontro precedente, partirono da Montemiletto con cinque soldati di linea e poche Guardie nazionali. Marciarono sopra Montefalcione che non poterono attaccare, non essendo in forze a ciò bastevole Retrocederono, e rientrando nella loro Comune, si racchiusero nel palazzo Fierimonte. Montemiletto fu invasa dai briganti nella notte dall’8 al 9 luglio. Erano sessanta: riceverono ben presto un rinforzo di 400 uomini; la plebaglia si unì ad essi. Questa ciurma assalì il palazzo Fierimonte al grido di

Viva Francesco II.

Tarantino e i suoi, comprendendo che andavano incontro alla morte, risposero ad una sol voce

Viva l’Italia.

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La fucilata fu lunga e inutile. I banditi appiccarono fuoco alla casa: le donne portarono le fascine. La porta principale e una barricata essendo bruciate a metà, furon fatte cadere a colpi di scure. Immaginatevi allora codesta folla irrompente nella casa! Fu un eccidio feroce. Tarantino, l’arciprete, donne, fanciulli furono scannati: un soldato di linea fucilato, due uomini che gridavano

Viva l’Italia,

trascinati al cimitero e gettati vivi in una fossa in mezzo ad un monte di cadaveri. Altri tre soldati di linea condotti più tardi a Montefalcione furono costretti a tirar sui loro commilitoni, che attaccavano il paese. Due fra essi rifiutarono e furono uccisi. Un terzo fece sembiante di accettare, e correndo verso gli Italiani per caricarli alla baionetta, entrò nelle loro file e si unì ad essi. Da ambo le parti gli furono tirati colpi di fucile: non rimase ferito. Anche a’ dì nostri avvengono miracoli!.Diciassette uomini perirono crudelmente nel palazzo Fierimonte. Non mi estendo sulla ferocia degli assassini; ne ho parlato abbastanza, e dovrò in seguito parlarne ancora. Questi infami erano comandati da un tal Vincenzo Petruzziello di Montemiletto: egli stesso, colle sue mani, uccise Tarantino. In appresso fu preso e fucilato; confessò che il danaro col quale pagavansi i banditi veniva da Benevento e da Roma.

Tutti questi fatti resultano da un rapporto officiale inedito e assai ben compilato (ciò che non è comune) indirizzato dal signor Ferrara, vicegovernatore della provincia di Avellino alla Segreteria dell’interno e della polizia in Napoli. Mi fu concesso di consultar questo documento.

Frattanto il governatore De Luca era partito il mattino degli 8 alla testa delle sue Guardie nazionali. Aveva battuto i briganti sulle alture di Candida, traversato San Potito, Parolise, e ripreso Chiusano a passo di corsa.

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Tentò di attaccare Montefalcione, ma fu respinto dalla plebaglia, che gettava pietre e acqua bollente dalle finestre. Fu costretto a rifugiarsi fuori del villaggio, in un convento, dove poco mancò che non morisse di fame, circondato dai ribelli.

Per buona ventura fu liberato la mattina del 10 dagli Ungheresi di Garibaldi, che trattenuti a Napoli erano di guarnigione a Nocera. Per un ordine emanato da Torino essi accorsero nelle provincie sollevate. Liberato il governatore, rientrarono con lui, quasi furono senza combattimento in Montefalcione., Le rappresaglie sanguinose; una trentina di briganti, che si erano trincerati in una casa, perirono tutti.

Tuttavia dopo il combattimento cessarono le valenze. In codesta Comune, che era pienamente insorta, (essendo stati cacciati o uccisi i liberali) il Governo si contentò di sciogliere la Guardia nazionale e di togliere le armi al popolo: cinque uomini soltanto vennero fucilati.

All’approssimarsi degli Ungheresi, 4000 contadini o abitanti de’ villaggi uscirono spaventati da Montemiletto, in confusione, e si dispersero fra i grani e nei monti.

La reazione era soffocata. Il governatore De Luca rientrò il 13 luglio in Avellino alla testa delle truppe, conducendo seco 40 prigionieri. Ricevè un’ovazione popolare e una croce di commendatore. Erasi condotto da uomo valoroso.

In mezzo a queste turbolenze il generale Cialdini giunse a Napoli come luogotenente del Re.

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fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html#luogotenenza

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