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BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (IX)

Posted by on Set 1, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (IX)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

VIII

Il brigantaggio straniero – Lettera del signor de Rotrou – Spedizione del signor De Trazégnies – Don Josè Borjès – Istruzioni del generale Clary – Giornale di Borjès – Sua spedizione in Calabria e in Basilicata – Sue dispute con il generale Crocco – Sua miracolosa ritirata – Sua tragica morte – Quel che rimane oggi del brigantaggio (febbraio, 1862) – II generale La Marmora e la leva – Conclusione.

Queste pagine erano già scritte nel mese di settembre dell’anno precedente, e io sperava allora di aver compiuta la mia cronaca intorno al brigantaggio. Non facevo conto sugli stranieri. Dopo i banditi indigeni, avemmo gli avventurieri di tutti i paesi del mondo, inviati da Roma, da Marsiglia, o da Trieste dai Comitati borbonici. Questa volta non furono più la corte di Roma e quella di Napoli soltanto che fecero parte della cospirazione, ma tutti i sovrani spodestati, e fors’anche alcuni principi regnanti. Napoli divenne il punto di mira di tutta Europa legittimista, la quale sperò un momento riacquistare le provincie meridionali e l’Italia, e coll’Italia l’Europa o almeno la Francia, la quale sotto ogni regime è la testa e il cuore della rivoluzione.

Il momento era opportuno per tentare una grande impresa. Fermo in una risoluzione forse imposta dalle circostanze, il Governo di Torino erasi ostinato a. togliere a poco a poco ai Napoletani quanto restava loro di autonomo; avea annunziato la leva e il decimo di guerra, affrettato con ogni mezzo l’unificazione

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e l’assimilazione, che i Napoletani tentavano di aggiornare indefinitamente. Avea posto in giuoco la sua popolarità, quasi per diletto, nell’interesse della patria comune e dell’Italia futura. Avea scancellato violentemente il passato, e sacrificato il presente alle incertezze dell’avvenire. In que’ giorni avea preso un grande partito con una audacia che mi fa spavento anche ora, quando ripenso alle angoscie di questa transizione piena di pericoli; avea soppresso la Luogotenenza e cambiato Napoli, la più grande capitale d’Italia, il capo di un regno ancora palpitante, in una prefettura subalterna. Avea richiamato Cialdini, il solo uomo popolare, il solo eroe influente, il solo signore avventurato, che, venuto dal settentrione, avesse retto queste provincie dopo la partenza di Garibaldi.

Il paese era malcontento: quindi opportuno potea sembrare l’arrecargli la guerra civile. E tosto spade benedette scaturirono da per tutto sull’antico reame. Credevano trovarvi armate già ordinate o farne sorgere dalla terra. Certamente lo splendido insuccesso di queste avventure, con sì prosperi auspicii intraprese, prova che l’Italia deve essere, e che Dio lo vuole. Le montagne sollevate dalla reazione partorirono le imprese di Borjès e di Trazégnies.

Cominciamo da quest’ultima che fu la meno interessante, e citiamo innanzi tutto una lettera preziosa del signor Rotrou.1 agente consolare di Francia a Chieti, intorno allo stato di quei paesi limitrofi alle frontiere romane. Tale documento indirizzato al Console Generale di Francia a Napoli, signor Soulange Bodin, uno degli amici più operosi e più intelligenti d’Italia, getta una viva luce sui punti della scena d’onde passarono i briganti.

1 Debbo alla cortesia del signor De Rotrou molte notizie da me inserite al principio di quest’operetta. Vedi il capitolo sui primi moti degli Abruzzi.

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Avezzano, 15 settembre.

Signor Console Generale,

Il brigantaggio nella parte degli Abruzzi vicino alla frontiera romana è da qualche tempo un po’ meno attivo. Ma noi abbiamo speranza di vederlo cessare il giorno nel quale non riceverà più di fuori reclute, danaro e direzione. Chiavone ha nella sua banda gente di ogni nazione, Francesi, Svizzeri, Tedeschi, Napoletani, avanzi delle truppe di Francesco II e del Papa, uniti a’ cattivi soggetti de paesi vicini.

Dicesi che in seguito di diversi scontri avvenuti in questi ultimi giorni, Chiavone sia partito, seguendo le sue abitudini, per Roma; non può negarsi che i contadini sieno in generale ben disposti per i briganti e che non prestino loro assai volentieri de’ servigi, ma sono però poco inclinati a seguire la loro vita avventurosa. Essi applaudiscono alle loro imprese,, quando non ne sono vittime, e alla fine se forniscono loro viveri, ciò avviene più per paura che per simpatia.

La borghesia non si è ancora rassicurata, e non è persuasa che 1 antico regime non sarà restaurato.

Noi non abbiamo sentito ancora nelle nostre provincie che il male della rivoluzione, e il Governo non ha potuto peranco arrecar veri beneficii. Ciò che avviene oggi è la necessaria conseguenza del sistema demoralizzatore applicato da Ferdinando II durante i suoi ultimi 12 anni, con una perseveranza notevole. Dopo il 1848 non ebbe che un pensiero, uno scopo; render impossibile ogni restaurazione del regime costituzionale, assoggettando ad una completa schiavitù le classi medie: l’avvilimento così calcolato della borghesia, la licenza autorizzata e incoraggiata della classe infima dovevano alla prima togliere ogni fiducia, ogni forza, ogni risorsa in sé medesima.

Il ritorno senza transizione al regime costituzionale era tanto più pericoloso, che erasi avuta gran cura, da dodici anni, di far sparire tutto ciò che poteva agevolarne il ristabilimento. Il basso popolo, educato a non riconoscere che i diritti del Re, nulla scorgeva al di sopra di lui: nella sua mente la legge non era che la espressione della volontà del suo signore, d’ordinario clemente per lui, sempre inflessibile per il borghese.

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Nel 1860, allorché si invocava disperatamente codesta Costituzione, si spiegava nel tempo medesimo alle classi infime che essa non era che il resultato delle violenze della borghesia, la quale mirava a impadronirsi del potere monarchico per accrescere le gravezze del popolo, e per vendicarsi su di esso delle sue lunghe sofferenze. Era naturale che questa fosse pronta a difendere con tutti i mezzi possibili ciò che gli si mostrava come salvaguardia della sua indipendenza, come protezione contro la tirannia e l’insaziabile avidità de’ borghesi, co’ quali trovavasi in perpetuo antagonismo in tutte le relazioni dulia vita. Non è dunque da meravigliare se questa classe infima vide la rivoluzione con grande malcontento; anzi vi è da rimaner sorpresi, se essa non ha in un modo più efficace, concorso alla difesa di una causa nella quale le sorti del monarcato erano accomunate alle sue.

Mentre Ferdinando II lasciava alla classe infima una libertà quasi illimitata, per la borghesia accoglieva un sistema che doveva farle perdere ogni energia e perfino la coscienza de’ propri doveri cittadini. Ognuno era spietatamente racchiuso nel suo luogo. Con gran fatica di tanto in tanto si concedeva ai cittadini migliori di recarsi al capo luogo della provincia.

I magistrati comunali erano per la maggior parte scelti fuori della borghesia, o al meno fra quelli di questa classe le opinioni de’ quali eran servili tanto, quanto notoria la loro incapacità! Le elezioni comunali non aveano più luogo. Fin nelle radici era stato soffocato tutto ciò che potea rammemorare le franchigie liberali.

La lettura del giornale officiale era stata perfino proibita nei caffè! Ai padri di famiglia ricusavasi l’autorizzazione di inviare i loro figli ne’ grandi centri per compirne la educazione. Le famiglie di ogni luogo non si visitavano più, onde non eccitare i sospetti di una polizia pronta sempre ad allarmarsi. I delitti de’ borghesi erano puniti colle massime pene: non restavano a questa classe per esercitare la sua intelligenza che i meschini interessi personali.

Il Gabinetto di Torino non conosceva queste verità. Giudicò delle provincie napoletane dallo stato della opinion pubblica in Napoli, ad esse diametralmente opposta. A Napoli, la forza vitale erasi concentrata nella borghesia:

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nelle provincie, nel popolo: bisognava parlar dunque ad esso: bisognava spiegargli che quanto era avvenuto fino a questi giorni non era libertà, perché mancavano le guarentigie, che si volea appunto concedergli queste guarentigie, restituendogli la parte che gli spettava de1 suoi diritti verso la società; bisognava fargli intendere l’abbandono sistematico nel quale era stato lasciato, i mali che per i suoi interessi ne erano scaturiti, e colpire la sua immaginazione adottando grandi provvedimenti valevoli a provargli che cominciava un’era di riparazione e di giustizia.

A tante cause di malcontento si aggiunse quella nascente dalle cattive raccolte de cereali: i grani sono stati scarsissimi, i gran turchi mancarono, e questi ultimi sono il principal nutrimento de contadini. Bisognerebbe che ad ogni costo si mettessero subito in attività i grandi lavori di strade ferrate e ruotabili. La mancanza di vie di comunicazione ne’ nostri paesi è sorgente di mali incalcolabili. E questo pure è un resultato del sistema di Ferdinando II. Se da un anno si fossero cominciati i lavori, molte simpatie avrebbe il Governo acquistate nelle provincia

La controrivoluzione, non avendo potuto riuscire con tutti gli elementi di successo de’ quali disponeva, non potrà impadronirsi della situazione, prolungando l’agitazione.

ROTROU.

Ed invero, malgrado queste cause di malcontento, Chiavone quasi nulla operò nel territorio napoletano. Rapine, saccheggi, incendi; null’altro fuori di questo. In nessuna delle sue spedizioni potè fermarsi nel più meschino villaggio. I suoi rari successi non furono che sorprese, cui tenevan dietro fughe precipitose negli Stati di Sua Santità.

Una sola di queste invasioni merita qui d’essere registrata, perché fu comandata da un uomo d’alta società, dal signor Alfredo De Trazégnies, gentiluomo di Namur, stretto in parentela co’ Montalto, col generale Saint Arnaud, con monsignor De Merode, il quale sedotto forse dalle menzogne de’ clericali,

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sperò ben meritare dal cielo, col far la parte di Chiavone. Partì da Roma in una carrozza che lasciò alla frontiera, cadde all’improvviso a Isoletta sopra un posto italiano mal custodito, i difensori del quale in parte non poterono fuggire se non che aprendosi una strada sanguinosa in mezzo agli assalitori. I quali si recarono allora a San Giovanni Incarico, che misero a sacco, bruciandole case, violando le donne, rovinando tutto. Trascinato dall’esempio il signor De Trazégnies si spinse, dicesi, a furori e ad eccessi, che l’indomani avrebbe rinnegato. Al sopraggiungere de’ soldati italiani, fu sorpreso e arrestato in una casa ch’ei devastava, rompendone colle sue mani tutti i mobili. Fu avvertito che sarebbe stato fucilato. Non lo credè se non quando cadde morto. Sul luogo stesso della sua esecuzione,colle spalle voltate contro un muro, sosteneva che non si oserebbe colpirlo. Si volse per parlare ai soldati;una palla gli spaccò il cranio.

II suo corpo fu restituito a una deputazione Franco-Belga che venne da Roma a richiederlo. I deputati doverono dichiarare che avevano ricevuto il cadavere del signor De Trazégnies, arrestato fra i briganti di San Giovanni Incarico. E in tal guisa un gentiluomo, forse sincero e leale, fu preso con i malfattori, e punito alla pari di essi, per aver creduto alle menzogne de’ clericali.

Dello spagnuolo Borjès anche più dolorosa è la storia. Non voglio narrarla; egli stesso l’ha raccontata. Fra le sue carte furono trovate le istruzioni che il generale Clary, più volte rammentato, gli avea dato a Marsiglia. Fu trovato anche qualche cosa di più importante, il suo Giornale scritto di proprio pugno. È una testimonianza che non verrà rifiutata, e che conferma pienamente quanto ho scritto intorno al carattere dei briganti e alle inclinazioni del popolo.

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Josè Borjès, catalano, nelle guerre civili del suo paese erasi acquistato fama di coraggioso, di audace, di energico. Il suo passato non si riferisce al mio racconto, ed io lo lascio ai biografi. Importa soltanto sapere che esso fu arruolato in Francia dai Comitati borbonici.

Ecco il testo delle istruzioni che ricevè dal generale Clary. Ho avuto nelle mie mani una copia di questo documento trovato fra le carte stesse di Borjès. L’originale scritto in francese, e sottoscritto dal generale borbonico, trovasi oggi a Torino nell’archivio del ministero degli affari esteri. Lo traduco letteralmente.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html#straniero

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