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Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali

Posted by on Gen 23, 2024

Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali

Contiguità, interclassismi e rotture rivoluzionarie nella Sicilia borbonica. Realtà e rappresentazione di un incerto sodalizio tra opposizione politica ed elementi criminali

L’abolizione giuridica del sistema feudale (1812) produsse rilevanti cambiamenti nella struttura della società siciliana. In particolare, il saggio analizza gli effetti del processo di democratizzazione della violenza, consistente nella gestione del latifondo attraverso l’impiego di milizie private, composte da uomini appartenenti ai circuiti criminali, che progressivamente tendono ad acquisire maggiore autonomia. Queste forze intervengono in maniera massiccia nel corso delle insurrezioni risorgimentali (1820, 1848, 1860), ma l’ambiguo accordo interclassista tra criminalità e opposizione politica si rivela difficile da gestire per i notabilati alla guida delle istituzioni rivoluzionarie.

1. Premessa. Tra latifondo e dimensione urbana

Nella ridefinizione delle nuove dinamiche sociali (e per estensione anche di quelle criminali) che coinvolsero la Sicilia di primo Ottocento, determinante fu l’abolizione giuridica della feudalità, passaggio politico-istituzionale in cui ebbe inizio, tra le altre cose, quel processo di democratizzazione della violenza che traeva origine dalla soppressione delle milizie di matrice feudale1. Si trattò di un esito che formalmente trovava sanzione nel testo della Costituzione inglese del 1812 – nella sezione concernente l’abolizione dei «dritti e pesi feudali» si faceva esplicito riferimento alla cessazione delle giurisdizioni baronali e alla «custodia del territorio», di norma svolte con un servizio di polizia privata2 –, ma che era già in atto da qualche decennio, con la progressiva perdita di status e potere economico da parte del ceto baronale3. Questo ricambio ebbe dunque luogo in un nuovo contesto istituzionale e normativo, dove il monopolio della violenza diveniva teoricamente di esclusiva competenza dello Stato, ma nel quale continuavano ad essere tollerati gli spazi di autonomo controllo del territorio4. Di fatto, rimanevano in essere significativi retaggi del cessato regime: quando il possesso e la gestione della terra passarono progressivamente di mano, i nuovi proprietari, o i gabelloti, ereditarono dai baroni i sistemi di protezione, ma attraverso quel processo di privatizzazione del loro esercizio cui sopra si accennava; infatti, continuarono a detenere un potere effettivo ma in assenza di legittimazione, al contrario di quanto era avvenuto nel caso dei baroni che agivano per delega sovrana. Tuttavia, questo potere veniva esercitato grazie al tacito consenso delle pubbliche autorità, prova ne è il fatto che la sua esistenza veniva tollerata e non era in alcun modo assimilata alle forme più diffuse di delinquenza comune, di modo che «nella sua prima manifestazione, la mafia esercitò la violenza con impunità nella difesa del privilegio, a differenza del banditismo, che fu sempre in opposizione allo Stato»5.

2Questo sistema, originariamente di protezione e controllo su beni e persone, si avvaleva di individui appartenenti alle classi popolari, che progressivamente riuscirono a conseguire un’autonomia «proprio sul terreno, loro congeniale, dell’organizzazione di un potere violento, sia imponendosi ai ceti più poveri, sia vendendo i propri servizi ai proprietari»6. Precedentemente al soldo della nobiltà feudale, questi trovarono una nuova collocazione al servizio dell’emergente notabilato, il quale se ne serviva principalmente come «deterrente nella competizione per appropriarsi di risorse limitate quali la terra o l’acqua, o come elementi di controllo della forza lavoro, o acquistando da essi quella protezione che lo Stato non [era] in grado di fornire»7. In questo nuovo contesto, neppure l’istituzione delle compagnie d’armi «dissuase i proprietari dalla consuetudine di assoldare personale col compito specifico di sorvegliare i campi»8. Tali meccanismi di dipendenza erano il riflesso di una struttura sociale consolidata, e ne è la prova più eloquente il fatto che nelle aree dove era meno presente il latifondo le dinamiche erano differenti, infatti i civili della Sicilia orientale non disponevano dei «collaudati sistemi di dipendenza personale» che, invece, nella parte occidentale dell’Isola consentivano all’aristocrazia di «pilotare, mediante le squadre, la forza militare della rivoluzione»9. A questo proposito, già la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia (1962-63), prendendo le mosse dal deficit di potere che caratterizzava il governo borbonico, operava una netta distinzione tra la Sicilia occidentale, dove il fenomeno era radicato ed endemico, e quella orientale che all’assenza di un potere centrale efficace faceva fronte attraverso la definizione di poteri locali, non privatistici ma municipali, in grado di dar vita ad un modello amministrativo efficiente su base civica: «La lontananza e la debolezza delle dinastie dominanti ebbero come naturale conseguenza la dilagante, sfrenata indipendenza delle potenze locali, interessate ad accrescere con ogni forma di vessazioni e di angherie, la propria posizione di privilegio. Il fenomeno ebbe manifestazioni più accentuate a Palermo e nella Sicilia occidentale, perché [nella Sicilia orientale] la debolezza dei governi centrali fu messa a profitto dell’indipendenza comunale, della libertà di commercio, dell’autorità di commercio, dell’autorità e del prestigio degli organi locali», nel tentativo «non dissimile da quello compiuto da molte città dell’Italia settentrionale e centrale, di contrapporre un forte potere comunale a un potere statale in pratica inesistente»10.

3Nel nuovo scenario emerso dopo la stagione costituzionale si riorganizzarono così, su basi differenti rispetto al passato, le nuove dinamiche criminali costituenti la «protomafia»11, la quale non agiva esclusivamente nella dimensione extraurbana del latifondo, ma in un rapporto osmotico con le comunità urbane. La presenza delle organizzazioni in oggetto anche all’interno dei centri urbani e non solo nelle campagne, dove la quasi totale assenza di un potere legale e riconosciuto lasciava il posto a forme alternative di ordine, evidenzia in relazione al fenomeno una specificità assente in passato. Fu fondamentale a questo riguardo l’avvio e l’implementazione della riforma dell’amministrazione civile (1817)12, che, attraverso una profonda operazione di ristrutturazione urbanocentrica del territorio13, consentì ad una vasta schiera di civili di accedere ai pubblici uffici14. Questo precedente è di capitale importanza per riuscire a contestualizzare, ad esempio, le note affermazioni di Pietro Calà Ulloa, inviato in Sicilia (a Trapani) dopo gli eventi del 1837 ad occupare la carica di procuratore regio, in merito al carattere sistemico e organico di questi fenomeni disfunzionali, ma notevolmente estesi e ramificati, proprio all’interno dei nuclei urbani: «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza a un capo […]. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo»15. La perpetuazione di rapporti di patronage riattivati in occasione delle crisi rivoluzionarie, che si sviluppano non a caso all’interno del fitto tessuto urbano, sono l’esito di una ibridazione tra il processo di modernizzazione in atto (la riforma amministrativa e l’emersione di un ceto di civili che gravita attorno agli apparati municipali) e la permanenza di elementi del passato (connessi soprattutto alla proprietà e alla gestione della terra)16.

4Questi mutamenti strutturali, i quali fanno da cornice ad una profonda trasformazione che però coesiste con resistenze e vincoli di varia natura, costituiscono solo un aspetto delle questioni affrontate nel presente lavoro, che si concentra soprattutto sulla realtà e sulla rappresentazione di quelle relazioni interclassiste che sussistono, spesso rimanendo dormienti, nei momenti di ordinaria amministrazione, ma che si riattivano immediatamente nelle fasi di rottura rivoluzionaria. Su molti di questi temi la storiografia si è pronunciata, e da una parte di essa si sono attinte utili e acute chiavi di lettura. Rimane, tuttavia, un vuoto che sembra difficile da colmare se non per via indiretta, consistente nell’assenza del punto di vista delle masse popolari, che non solo sostanziano le insurrezioni urbane dei decenni preunitari, ma dalle cui file provengono quegli elementi che dell’esercizio della violenza prezzolata – messa anche a disposizione della rivoluzione – cominciano a fare mestiere. Come si avrà modo di appurare, la rappresentazione unilaterale – in quanto espressione della classe notabile, parte in causa e soggetto attivo nel rapporto caratterizzato da vincoli di deferenza e subordinazione – di questa complessa relazione mostra forti ambiguità. La memorialistica e la pubblicistica coeva, riferendosi genericamente sia alle masse insorte, a seconda dei casi eroiche o assetate del sangue borghese, sia a quelle componenti che vivono ai margini della società, ma che nei giorni dell’insurrezione tentano la via della redenzione, oltre che la possibilità di ricollocazione sociale, tratteggiano uno scenario a tinte forti. Rimanendo, tuttavia, generalmente vincolate all’interno di uno schema oscillante tra retorica patriottica e diffidenza di classe, ma che raramente rivela, se non tra le righe, le concrete dinamiche che contribuiscono a garantire non solo un sostegno interclassista alla rivoluzione, ma soprattutto le modalità attraverso le quali soggetti socialmente agli antipodi riescono a trovare una sintesi sul piano della lotta armata contro il governo borbonico, esse vanno attentamente valutate tenendo conto di queste insanabili univocità.

note

  • 1 LUPO, Salvatore, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli, 2005, p. 51.
  • 2 Costituzione del Regno di Sicilia stabilita dal Parlamento dell’anno 1812, t. I, Palermo, tipografi (…)
  • 3 CANCILA, Orazio, La distribuzione della terra. Dal feudo alla proprietà borghese, in ID., La terra (…)
  • 4 Scrive Pezzino a questo proposito: «Nella prima metà dell’Ottocento si attua in Sicilia un processo (…)
  • 5 JAMIESON, Alison, Le organizzazioni mafiose, in VIOLANTE, Luciano (a cura di), Storia d’Italia. Ann (…)
  • 6 PEZZINO, Paolo, Mafia: industria della violenza. Scritti e documenti inediti sulla mafia dalle orig (…)
  • 7 Ibidem.
  • 8 Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (legge 20 dicembre 1962, n (…)
  • 9 LUPO, Salvatore, «Tra centro e periferia. Sui modi dell’aggregazione politica nel Mezzogiorno conte (…)
  • 10 Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, cit., p. 93.
  • 11 ID., Storia della mafia, cit., pp. 43-53.
  • 12 IACHELLO, Enrico, «Appunti sull’amministrazione locale in Sicilia tra la Costituzione del 1812 e la (…)
  • 13 ORTOLANI, Giuseppe Emanuele, Nuovo dizionario geografico, statistico e biografico della Sicilia ant (…)
  • 14 SIGNORELLI, Alfio, Tra ceto e censo. Studi sulle élites urbane nella Sicilia dell’Ottocento, Milano (…)
  • 15 CALÀ ULLOA, Pietro, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia [Trapani 8 agosto (…)
  • 16 Scrive Giarrizzo in riferimento ai drammatici tumulti che sconvolsero Biancavilla: «Alla terra pert (…)

continua……

Fabrizio La Manna

fonte

https://journals.openedition.org/diacronie/11764?lang=fr#tocfrom1n1

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