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Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali (IV)

Posted by on Gen 27, 2024

Mafia e poteri pubblici: contiguità politiche e sviluppi istituzionali (IV)

4. «La mafia rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni»


Nella Sicilia borbonica la prossimità e la convergenza, più evidente nei momenti di rottura rivoluzionaria, tra opposizione politica ed elementi criminali è un fenomeno che preoccupa non poco le pubbliche autorità56, infatti, nel Codice per lo Regno delle Due Sicilie (1819) la loro indistinzione viene artatamente alimentata e strumentalizzata.

Nella seconda parte dedicata alle leggi penali (il Codice consta di cinque parti sul modello di quello napoleonico) il capitolo sui «reati contro la sicurezza dello Stato» contiene una lunga teoria di articoli da cui emerge un progressivo scivolamento dal delitto di lesa maestà a quello di insurrezione, fino alla fattispecie della banda armata. Nella sezione sui «reati contra la sacra persona del Re, e la famiglia reale» si prevede che è «misfatto di lesa Maestà, e punito colla morte e col terzo grado di pubblico esempio, l’attentato o la cospirazione che abbia per oggetto o di distruggere o di cambiare il Governo, o di eccitare i sudditi e gli abitanti del regno ad armarsi contro l’autorità reale» (art. 123). Quello che però colpisce maggiormente sono i due articoli successivi, in cui si afferma che l’attentato «esiste nel momento che si è commesso e cominciato un atto prossimo all’esecuzione di ciascuno de’ misfatti contemplati» (art. 124), e che la cospirazione «esiste nel momento che i mezzi qualunque di agire sieno stati concertati e conchiusi fra due o più individui» (art. 125). Risulta, infatti, quantomeno anomalo che una cospirazione possa essere ordita e realizzata da pochi individui isolati. Ma è nella sezione relativa all’«uso illegittimo della forza armata, della guerra civile, della devastazione, e de’ saccheggi» che avviene quella volontaria operazione di criminalizzazione cui si accennava pocanzi: «Chiunque ecciterà la guerra civile tra popolazione e popolazione del regno, o tra gli abitanti di una stessa popolazione, armandoli o inducendogli ad armarsi gli uni contro gli altri, è punito colla morte» (art. 129); ed oltre: «Chiunque avrà organizzato bande armate per invadere o saccheggiare piazze, fortezze, posti militari, magazzini, arsenali, porti o legni da guerra», oppure «vi avrà esercitato una funzione qualunque, o un impiego, o un comando; chiunque avrà scientemente o volontariamente somministrato ad esse o procurato convogli di viveri, armi, munizioni o strumenti di misfatto, sarà punito colla morte» (art. 133)57.

In un recente saggio Francesco Benigno si è soffermato sulla valenza euristica dell’approccio «processuale» nell’indagine sulle origini del crimine organizzato. Secondo questa prospettiva, il riferimento da parte delle pubbliche autorità e dell’opinione pubblica ai fenomeni criminali non è un atto neutro, ma carico di ulteriori significati e intenzionalità: «Va accettata l’idea […] che evocare nel discorso pubblico una setta di criminali abbia un valore non meramente denotativo, cioè un significato letterale, ma connotativo in senso lato», ossia connesso ad una «dimensione metaforica, emotiva, suggestiva, volta a produrre effetti sullo spazio pubblico e che perciò può dirsi intimamente performativa; destinata cioè a influenzare l’opinione collettiva e le prassi (poliziesche e giudiziarie) che presidiano la gestione dell’ordine pubblico»; mentre, in ultima istanza, questa dipende «dalla visione generale che in un tempo dato si possiede, dalle idee ricevute e correnti […] su cosa sia una setta o una società segreta: una visione perciò […] strettamente legata […] all’uso politico e pubblico che ne viene fatto»58. Il mutare delle condizioni politico-istituzionali non produce a questo proposito un cambiamento di paradigma, in quanto anche lo Stato unitario persegue attraverso un intervento repressivo ad ampio raggio, in particolar modo contro tutti quei fenomeni (a maggior ragione se spuri e a cavallo tra criminalità, opposizione politica e minaccia sociale) che percepisce come un attentato all’ordine costituito e alla propria integrità59, per cui «occorre difendersi contemporaneamente da tre nemici, i Borbone, il brigantaggio i democratici, attraverso operazioni militari che spazzino via il “complotto” ordito»60. A questo proposito, può essere interessante verificare, attraverso alcuni significativi riferimenti, come in questi decenni cominci ad imporsi una lettura abbastanza diffusa che rintraccia nel connubio tra opposizione politica e criminalità (in funzione antiborbonica, ma anche come reazione ad analoghe pratiche da parte delle autorità di polizia) la genesi di una serie di gravi problematiche61. Tuttavia, anche in questo processo sono individuabili diversi momenti che, in linea con quanto detto in precedenza, risentono fortemente, oltre che delle intenzionalità non manifeste, degli accadimenti socio-politici coevi.

Il giovane Stato unitario, di fronte alle gravi problematiche che affliggono le province meridionali, e che rischiano di mettere in discussione lo stesso ordinamento nazionale, nel tentativo dei fornire una risposta al perché (le «cause predisponenti») dell’anomala situazione dell’ordine pubblico, ritiene che i «mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione». In tal modo l’Inchiesta parlamentare Bonfadini sulle condizioni della Sicilia (1875-76)62, nell’individuare i motivi «di malcontento e di agitazione che indisposero l’opinione pubblica siciliana contro l’ente governativo e facilitarono la tirannia della mafia»63, ne trova le cause in alcune pratiche deteriori che il precedente regime aveva eretto a sistema nella gestione dell’ordine pubblico: «Che fece il Governo borbonico per tutelare a suo modo la pubblica sicurezza? Si appigliò a quel sistema che durante i giorni anarchici del 1848 a Parigi, il Caussidière chiamava, applicandolo: faire de l’ordre avec du désordre», e che prevedeva l’arruolamento di quegli «stessi malandrini più famosi […] talvolta come stromenti diretti di essa. Né il sistema era nuovo in Sicilia […]. Dal 1848 in poi, il sistema durò costante, e il personale della sicurezza pubblica si foggiò a codesto tipo, sotto l’impulso di Maniscalco»64. La relazione non solo individua con notevole acume la contiguità tra politica e criminalità, ma anche una linea di continuità di medio periodo, in cui permangono gli stessi meccanismi seppur in presenza di attori diversi. Infatti, se in una prima fase sono i «baroni» a servirsi, quando necessario anche per fini politici, delle milizie private, durante le successive «rivoluzioni liberali» vengono messi in pratica gli stessi metodi da parte dei «patrioti illibatissimi»:

Le lotte politiche dei baroni siciliani contro le dinastie che si disputavano il dominio dell’isola furono sino agli ultimi tempi aspre e frequenti. La tradizione rivoluzionaria era bene stabilita in Palermo; e come il sentimento isolano si prestava fieramente ad ogni offesa contro despoti stranieri o residenti fuori dell’isola, i baroni non avevano che a dare il segno perché le turbe si movessero ai loro intenti. Questa comunanza di sentimenti e di azione creava fra gli uomini politici della capitale ed i loro stromenti di rivoluzione delle relazioni difficili poi a rompere in tempi normali […]. I nobili […] erano aiutati nelle loro rivolte da uomini di cui non si esigevano netti le fedi di perquisizione, e a loro volta, nelle epoche di calma, proteggevan poi questi uomini contro il Governo. Era un mezzo rivoluzionario […] che coalizzava contro il Governo antico tutte le classi sociali, mediante lo studiato disprezzo delle leggi e la resistenza passiva in ogni occasione. Giacché dopo le rivoluzioni dei baroni vengono le rivoluzioni dei liberali, e la forza delle cose consiglia ed esige lo stesso metodo. I moti del 1848 e del 1860, nobilissimi per audacia e per generosità d’indirizzo, si compiono colla stessa solidarietà di buoni e tristi. Uomini egregi, patriotti illibatissimi si vantano anche oggi di aver dato asilo o mezzi di fuga a delinquenti comuni, che poi pagavano l’avuto soccorso col gettarsi nella mischia il giorno dell’attacco al Governo. Scordato e Miceli, due malfattori conosciuti, […] comandavano nel 1849 delle bande di liberali […]. In Sicilia insomma non si è ancora voluta o potuta fare intera quella separazione che in altre provincie italiane si è fatta tra gli elementi puri e gli impuri della rivoluzione nazionale. Così gli uomini più violenti e più audaci cumulavano le qualità di capi di mafia e di capi-parte politici nel loro quartiere65.

A conferma del fatto che la pubblica riflessione sulla criminalità organizzata rilevi osmoticamente i coevi sussulti che scuotono la società, si può notare come l’evoluzione del fenomeno e la sua pervasività all’interno delle stesse strutture dello Stato, fino al punto da innervarne i centri vitali (nel caso specifico la magistratura e la politica), porti un illustre intellettuale e uomo politico siciliano a riconoscere che «per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo cessi di essere il Re della mafia66. Esaurito ormai da tempo l’empito risorgimentale, e con esso le residue illusioni sopravvissute alla prosa di un quarantennio di governo unitario, nel volgere del nuovo secolo Napoleone Colajanni, nel pieno della polemica a margine del processo Notarbartolo67, esprime un giudizio definitivo circa le modalità attraverso cui la Sicilia si era affrancata dal giogo borbonico – «La mafia, in fine, rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni […]. I più noti mafiosi furono i più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre del 1848; gli stessi mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi»68 – per entrare nel «nuovo» Stato unitario, sul quale grava una scomoda quanto pesante tara, che della nuova compagine sembra, oltretutto, essere divenuta segno distintivo ed elemento caratterizzante, facendo sì che «lo Stato nuovo che doveva essere […] riparatore facendosi strumento ed organo della giustizia mancò completamente alla sua missione e non poté […] acquistarsi la fiducia delle collettività e distruggere o purificare l’ambiente, che aveva creato e manteneva lo spirito della mafia»69.

Fabrizio La Manna

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  • 64 Ibidem, p. 123.
  • 65 Ibidem, pp. 121-122.
  • 66 COLAJANNI, Napoleone, Nel Regno della Mafia (Dai Borboni ai Sabaudi), Roma, Edizioni di storia e st (…)
  • 67 Per un inquadramento generale si veda: LUPO, Salvatore, «Tra banca e politica: il delitto Notarbart (…)
  • 68 COLAJANNI, Napoleone, Nel Regno della Mafia, cit., p. 69. Poco prima, Colajanni aveva dato questa s (…)
  • 69 Ibidem, p. 71. Rispetto al precedente La delinquenza in Sicilia (Palermo, Tipografia del Giornale d (…)

fonte

https://journals.openedition.org/diacronie/11764?lang=fr#tocto1n2

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