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Goethe e i napoletani

Posted by on Mag 24, 2024

Goethe e i napoletani

Drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco, venne considerato dalla scrittrice George Eliot «… uno dei più grandi letterati tedeschi e l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra», uno dei casi più rappresentativi nel panorama culturale europeo.

“Trenta, quarantamila fannulloni a Napoli”.

Così avevano detto a Wolfgang Goethe, che nel 1787 decise di andare a verificare di persona se ciò che era stato affermato corrispondesse alla realtà.

Nonostante si tratti di un’idea all’epoca diffusa, egli non si fida e decide di verificare di persona.

Ciò che noterà sarà sconvolgente.

Secondo lo scrittore: ritenere inattivo chiunque non si ammazzi di fatica è un pensiero tipicamente nordico, quindi inapplicabile se non con un evidente forzatura agli abitanti del meridione europeo.

Si tratta, comunque, di un parere che non trova riscontro nella realtà.

Non ha bisogno di “scavare” per compiere la sua ricerca perché, come ha egli stesso a dire, essendo il napoletano più libero non è complicato incontrarne per strada di tutti i tipi: dall’ambulante al facchino.

Egli nota che c’è gente che si riposa, ma ciò non toglie che non abbiano prima lavorato: i già citati facchini o i vetturali, ad esempio, aspettano che sia fatto loro un cenno per rendere i propri servigi, mentre il pescatore non prende il mare solo se il vento è contrario.

Mendicanti ce ne sono pochi e quelli che si trovano sono inabili al lavoro, storpi e vecchi.

Ma non solo dai grandi, egli rimane impressionato dall’industriosità infantile che si esplicita in ragazzi piccolissimi, che, guidati da altri poco più che coetanei, trasportano dal borgo di Santa Lucia il pesce fresco o si adoperano presso le botteghe di falegname.

L’autore è colpito dal piccolo commercio fatto dai ragazzini con beni alimentari che comprano e rivendono, badando altrettanto gelosamente di non rimetterci neanche un briciolo.

Si lavora molto anche nella raccolta delle immondizie, sicché non è raro vedere asinelli impiegati in questa mansione.

La maggior parte dei rifiuti sono di origine alimentare, dovuti in particolar modo allo spettacoloso consumo di verdura affermando che il clima è così benigno da permettere ad un piccolo mezzadro di ottenere ingenti guadagni a partire da un piccolo pezzo di terra.

Affascinante è l’incessante traffico di cianfrusaglie e ciarpame, protagonisti della festa del consumo che si celebra ogni giorno a Napoli, ed altrettanto interessante il commercio di limonata, bevanda cui non rinunziano neanche i più umili.

Il popolino è cencioso, vero, come è vero che versa in condizioni di miseria, ma in questa miseria non esiste sciopero.

Secondo Goethe, a monte di ciò c’è un fattore impensabile: il clima.

Mentre le benigne condizioni climatiche nostrane permettono un approccio alla vita basato sull’immediato, nel nord Europa l’incertezza meteorologica determina preoccupazione per i raccolti ed induce a barricarsi in casa per gran parte dell’anno.

Il cosiddetto accattone napoletano, dice Goethe, rinuncerebbe al posto di viceré in Norvegia od al governatorato della Siberia perché non ne ha bisogno per vivere al meglio.

Il lazzarone, che non è più infingardo delle altre classi, lavora non per vivere, ma per godere della vita.

Ad aiutarlo c’è una natura che, anziché matrigna, si palesa come una madre buona che accudisce i propri figli, facilitandone la vita e placandone le amarezze.

E così come vivono, seppelliscono anche i loro morti: nessun lento corteo nero turba l’armonia di questa generale vivacità.

Ho veduto il funerale di una bimba.

Un gran drappo di velluto rosso, con abbondanti ricami in oro, copriva un largo feretro su cui era deposta una piccola cassa lavorata a intaglio, tutta fregi dorati ed argentati; la salma vestita di bianco era nascosta da un subisso di nastro rosa.

Ai quattro spigoli della cassa quattro angeli, ciascuno alto circa due piedi, reggevano sulla morticina grandi fasci di fiori, ed essendo assicurati alla base con semplici fili di ferro, dondolavano su e giù ad ogni scossone della bara, come se spandessero miti, vivificanti olezzi di fiori; e dondolavano sempre più energicamente man mano che il corteo procedeva accelerando il passo, dietro ai preti ed ai chierichetti che correvano più che camminare.

La morte, dunque, per quanto triste, tanto più se colpisce una bambina, è vista più come una naturale estensione della vita terrena che come un epilogo.

Testimonianza di ciò i colori vividi dei drappi e degli ornamenti che abbelliscono la bara.

Ma che la morte non rappresenti un grande spauracchio è cosa da aspettarsi nel luogo dove si vuole solo vivere.

Dopo la sua partenza, continuava a dire che: Visitare Napoli cambia per sempre la vita.

Diceva: “Mio padre non poté mai essere del tutto infelice, perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli”.

Una città sfarzosa e ricca, piena di colori, di arte e di calore, ma allo stesso tempo anche di povertà e di disagio.

La contraddizione regna: “La terribilità contrapposta al bello, il bello alla terribilità: l’uno e l’altra si annullano a vicenda, e ne risulta un sentimento d’indifferenza.

I napoletani sarebbero senza dubbio diversi se non si sentissero costretti fra Dio e Satana”.

Secondo lo scrittore, gli abitanti di Napoli passano buona parte della loro giornata all’aperto, sotto la luce del sole.

Riflette molto sulle differenze tra i popoli del Nord e i popoli del Sud Europa.

Parlando dei napoletani, dice: “Riscontro in questo popolo un’industriosità sommamente viva e accorta, al fine non già di arricchirsi, ma di vivere senza affanni”.

Sempre i napoletani, secondo lo scrittore, sono convinti di vivere in Paradiso e se interrogati sul Nord Europa lo immaginano come una terra molto ricca, sempre coperta di neve, con case di legno abitate da ignoranti.

Sergio Dattilo

fonte

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