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Il regime fiscale nelle Due Sicilie e in Piemonte

Posted by on Giu 16, 2024

Il regime fiscale nelle Due Sicilie e in Piemonte

Dalla contrapposta concezione che avevano sul ruolo dello Stato, di cui abbiamo parlato nella precedente puntata, scaturiva una enorme differenza tra il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna ed era quella che riguardava la pressione fiscale, assai limitata nel primo e invece particolarmente pesante nel secondo. Il regno borbonico aveva un sistema estremamente agile, che prevedeva solo 5 tributi ed era caratterizzato da aliquote molto ridotte. Questo perché l’obbiettivo dell’amministrazione era di prelevare il minimo necessario per le proprie esigenze.

Nel 1859 i tributi erano: imposta fondiaria, dazi doganali (sulle merci in entrata e sulle merci in uscita) e dazi al consumo, tassa di bollo e di registro, tassa sulle lotterie e tassa postale. Come si vede, mancavano tra le altre la tassa sulle successioni, la tassa sul macinato, progressivamente diminuita a partire dal 1831 e infine abolita con regio decreto il 13 agosto 1847, e l’imposta sulla ricchezza mobile, cioè sui redditi delle imprese e del commercio, talmente contenuta da poter essere considerata
semplicemente simbolica. Riguardo a quest’ultima, la scelta del governo napoletano viene spiegata dall’economista lucano Francesco Saverio Nitti (più volte deputato e ministro, nonché presidente del consiglio tra il 1919 e il 1920), il quale in Nord e Sud (Roux e Viarengo, 1900) dice: ‘Non vi era quasi nessuna imposta sulla ricchezza mobiliare. Poiché questa si andava formando, il cavaliere Medici e i suoi continuatori aveano ritenuto che vi fosse pericolo grande a colpirla con imposte.’

La fondiaria era, quindi, l’imposta che dava il gettito maggiore, pari a 1/3 delle intere entrate, e si calcolava, più o meno come oggi, sulla rendita catastale, che veniva tassata per il 13%, mentre nel Regno di Sardegna veniva tassata per il 20%. Per quanto riguarda i dazi, ma nel campo industriale in linea di massima erano alti quelli in entrata e contenuti quelli in uscita. Questo perché il governo borbonico praticava una politica protezionistica, iniziata con i provvedimenti del 1823, per consentire alle imprese
meridionali di consolidarsi prima di andare a confrontarsi, come poi sarebbe stato necessario, con quelle straniere. (Si tratta di una strategia tenuta da tutti gli Stati, quando hanno avuto bisogno di sostenere lo sviluppo delle attività nazionali. La applicheranno anche gli esecutivi italiani a partire dalla fine degli anni Settanta, come vedremo, per tutelare il sistema interno, in quel momento ancora troppo fragile per
reggere la concorrenza estera).

Il Piemonte, invece, praticava il libero mercato, ma questo più che altro per compiacere l’Inghilterra, sua potente alleata, paladina di questo tipo di politica economica, che favoriva le fabbriche d’oltremanica, più ricche e progredite, consentendo alle stesse di vendere i propri prodotti in tutti gli altri paesi.
Nonostante il numero ridotto di tributi, nel 1859 il bilancio del Regno delle Due Sicilie presentava circa 175 milioni di entrate, con uscite di pari importo. (Le entrate erano costituite per 110 milioni da quelle del regno napoletano e per 17 milioni da quelle della Sicilia, che aveva un’amministrazione autonoma, ma a queste cifre bisognava aggiungere le spese di riscossione, pari a 14 milioni, calcolate a parte, nonché le entrate ordinarie e quelle patrimoniali, che portavano il totale complessivo appunto a 175 milioni. I dati sono indicati in lire piemontesi per consentire gli opportuni raffronti.) Il pareggio era stato raggiunto all’inizio degli anni Quaranta e da allora era stato perseguito con il massimo impegno da Ferdinando II, che lo considerava un obbiettivo primario. Quanto fosse importante conseguirlo per il sovrano borbonico si comprende, se si pensa a ciò che accadde dopo il 1848. In quell’anno, tuttora ricordato per i disordini e le rivoluzioni nell’intera Europa, i conti pubblici di tutti gli stati del continente finirono fuori controllo e questo accadde anche nel Regno delle Due Sicilie, che chiuse il bilancio in passivo.

Per ottenere nuovamente il pareggio, quindi, il re chiese rigore in tutti i settori e per dare
l’esempio, prima di ogni altra cosa, sospese i propri compensi fino al conseguimento dell’obbiettivo. A quel punto non potettero fare a meno di imitarlo i suoi ministri e, di seguito, i titolari delle principali cariche amministrative. Anche all’epoca, si può starne certi, sarebbe stato difficile trovare in un altro Stato una classe dirigente così seriamente impegnata, addirittura con una partecipazione personale, nelle proprie funzioni. L’anno successivo logicamente i conti furono nuovamente in ordine.
Il Piemonte in tutto aveva 23 tributi, che, oltre alla già citata fondiaria, erano: dazi doganali, imposta personale, tassa sulle successioni, tassa sulle donazioni e sui mutui, tassa sulle doti, sull’emancipazione e sull’adozione, tassa sulle pensioni, tassa sanitaria, tassa sulle fabbriche, tassa sull’industria, tassa sulle società industriali, tassa sui pesi e sulle misure, diritto d’insinuazione, diritto di esportazione della paglia, diritto sul consumo delle carni, delle pelli, dell’acquavite e della birra, tassa sulle
mani morte, tassa per la caccia, tassa sulle vetture e tassa sulla carta bollata
. Come si vede, c’erano tasse praticamente su tutto e c’erano anche incredibili sovrapposizioni.
Con questi tributi il Regno di Sardegna realizzava 144 milioni di entrate, mentre dal 1855 in poi, come sappiamo, non fu più possibile contabilizzare le uscite. In conclusione, per quanto riguarda la media dei prelievi, nel Regno delle Due Sicilie un contribuente pagava circa 13 lire all’anno e nel regno subalpino circa 35 lire, mentre, per quanto riguarda la pressione fiscale, nel primo era di circa il 20% sul reddito e nel
secondo arrivava quasi al 50%. Questo significa che nel Sud la ricchezza prodotta da ogni cittadino in buona misura rimaneva nella sua disponibilità, mentre in Piemonte per circa la metà veniva prelevata dall’amministrazione pubblica. Di conseguenza nello Stato meridionale i benestanti erano veramente tali, mentre anche i borghesi potevano concedersi qualche lusso, cosa che certo non succedeva negli altri Stati
italiani (e per la verità neanche nella maggior parte di quelli europei), e tale situazione, come è facile immaginare, aveva ricadute su molte attività, specialmente nel Napoletano.

Dal momento che la ricchezza mobile praticamente non era tassata, gli investimenti industriali nelle Due Sicilie producevano interessanti remunerazioni e gli utili (come ricorda lo storico dell’imprenditoria Angelo Mangone ne L’Industria del Regno di Napoli 1859-1860, Fiorentino, 1976) generalmente erano del 7-8%, ma nei casi delle strutture più moderne e organizzate potevano arrivare fino al 20%. Di conseguenza i sudditi dei Borbone che detenevano capitali, per lo più appartenenti alla nobiltà,
erano spinti a trasformarsi in imprenditori. Anzi in breve questa divenne una vera e propria tendenza, per non dire mania, che coinvolse chiunque avesse disponibilità economica e dopo l’Unità ci vollero, come vedremo, quasi trenta anni e numerosi provvedimenti, sia amministrativi, sia legislativi, per debellare l’attitudine agli affari e agli investimenti dei Meridionali.
Delle imprese sorte nel regno ad opera di capitalisti del Sud prima del 1860 parla ne La Provincia e la città di Napoli (Morano, 1902) lo studioso campano Francesco Paolo Rispoli, il quale tra l’altro scrive: ‘Banca e commercio avevano siffattamente sviluppato la marina mercantile che sorsero numerose e rigogliose società di assicurazioni marittime di cui mi piace ricordare qualcuna: Compagnia di Assicurazioni Generali del Sebeto, L’Ancora, Compagnia Anonima Torrese, Urania, Società di Assicurazioni Flavio Gioia e Società Anonima di assicurazioni marittime.
E tutte queste società, come la maggior parte di quelle che verrò citando in seguito, erano formate da napoletani con capitali napoletani.’ Non diversamente, comunque, stavano le cose anche negli altri settori della finanza e dell’economia.
(Il regime fiscale nelle Due Sicilie e in Piemonte)

Enrico Fagnano

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