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IL BRIGANTAGGIO LUCANO (VI)

Posted by on Giu 23, 2024

IL BRIGANTAGGIO LUCANO (VI)

Il “Generale dei briganti” Carmine Crocco detto Donatello

NOTA BIOGRAFICA. Carmine Crocco. Soprannominato Donatello dal nome dell’avo paterno, nasce in Rionero in Vulture il 5 giugno del 1830 da Francesco e Maria Gerarda Santomauro. Dopo un’infanzia segnata dalla malattia della madre che muore pazza nel manicomio di Aversa, è soldato borbonico ed annesso nel primo reggimento di artiglieria il 26 marzo 1849. Trasferito da Palermo a Gaeta, dopo 42 mesi di servizio militare, nel 1852 abbandona il reparto e toma a Rionero dove commette aggressioni e furti.

Catturato, è condannato a 19 anni di carcere, ma poco dopo evade ed intensifica l’azione delittuosa unendosi con Vincenzo Mastronardi-Staccone, questi, evaso dal carcere di Potenza. Dopo l’insurrezione della Lucania con Mastronardi e insieme al nuovo compagno Michele Di Biase di Ripacandida, si aggrega alla colonna degli insorti di Davide Mennuni e da questi è presentato al colonnello Boldoni dal quale ottiene promessa di libertà. A seguito dell’istruzione del processo a suo carico, si dà alla latitanza, ma è catturato nel gennaio 1861 ed è rinchiuso nel carcere di Cerignola da dove evade e, per conto dei comitati borbonici, incomincia a reclutare volontariato per la causa legittimista, che esplode il 7 aprile 1861. Al comando di una numerosa banda, con l’appellativo di “generale”, tiene in scacco per più di tre anni l’esercito piemontese, fino a quando incalzato dal suo ex luogotenente Giuseppe Caruso di Atella, passato alle dipendenze del generale Pallavicini, abbandona la lotta e si rifugia presso lo Stato Pontificio. Arrestato, dopo alcune dispute diplomatiche tra Governo Italiano e quello Francese, è consegnato alle autorità italiane. Processato, è ritenuto colpevole di moltissimi delitti ed è condannato a morte con sentenza della Corte di Assise di Potenza, l’11 settembre 1872. Due anni dopo, con un Decreto Regio, la pena di morte gli viene commutata in lavori forzati a vita. Carcerato nel penitenziario di Portoferraio, si spegne il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni.

Questo è l’epitaffio che Crocco, prima di morire, scrisse per se stesso:

È teatro per tutti la natura

e ognuno rappresenta la sua scena

Napoleone con la sua bravura

nell’isola morì di Sant’Elena.

Così Crocco, già umile pastore,

dai briganti promosso generale

dopo lotte di sangue e di terrore

scontò in galera lo già fatto male.

Il nuovo governo piemontese, il cui avvento è favorito apertamente dalla ricca borghesia conservatrice per mantenere e consolidare il proprio potere economico, sociale e politico, non suscita particolari entusiasmi nella popolazione, perché già fortemente oppressa dalla fame e provata da stenti ed indigenza. Ciò nonostante, tutti auspicano migliori condizioni di vita, ma le cose non vanno nella maniera sperata, poiché l’imposizione di nuove tasse e soprattutto, come detto, l’usurpazione e la mancata divisione dei terreni demaniali creano un profondo malcontento alimentato in gran parte e tacitamente dalle classi benestanti rimaste fedeli ai borboni.

È lo stesso Crocco ad ammettere tale circostanza: «Fui chiamato in segreto, da talune persone ch’io non nomino, perché sarebbe inutile nominare essendo talune di esse già morte, e le stesse mi invitarono a prendere parte ad una contro rivoluzione borbonica che mi assicuravano di essere già preparata. Nello stato di esasperazione d’animo in cui io mi trovavo commisi la debolezza di accettare la proposta.

Accettai la proposta nel mese di marzo ed ero pronto alla prima chiamata. All’uopo io ero stato provvisto di ottocento fucili e corrispondenti munizioni, di ottocento berretti alla repubblicana.

Il 4 Aprile vennero da Potenza in Atella un francese a nome Langlois , un capitano napoletano ed un tenente siciliano, i quali si spacciarono come propugnatori della contro rivoluzione. Dal 5 al 7 aprile si riunirono previa chiamata, tutti i soldati sbandati che si trovavano nei diversi paesi e così con una forza di quattro o cinquecento armati si potè dare opera alle reazioni nei diversi comuni.

Fra le tante persone armate, di briganti antichi, ossia che avevano fatto i briganti prima delle reazioni, non vi erano che tre, io ed i miei due compagni. In prosieguo furono briganti anche tutti gli altri».

Intanto Crocco visto sfumare il tentativo di riabilitazione per il quale si era mostrato particolarmente ligio e diligente ai compiti che gli erano stati affidati, dopo aver sollevato i contadini nei casali di Avigliano, Sterpito e Sant’Ilario, riunisce nel castello di Lagopesole i suoi uomini fidati insieme ad una massa di contadini, tumultuosa e urlante.

Il Crocco sale sulla parte più alta della gradinata posta nel cortile del castello e dice a Vincenzo Mastronardi-Staccone – nominato nella circostanza tenente colonnello: «Compare, occupa con i tuoi uomini Ripacandida, colpisci i liberali, disarma le coppole rosse (guardie nazionali) e rimetti i segni di Franceschiello nostro». E battendosi fortemente il petto, aggiunge con voce cavernosa e terribile: «Guagliò, mò finisce la rivoluzione dei galantuomini ed inizia quella delle pezze al culo».

È il giorno di domenica del 7 aprile 1861. Inizia così la guerra dei briganti al nuovo governo e al nuovo Re, non tanto per rimettere sul trono la dinastia borbonica, ma per rivalsa contro le ingiustizie intollerabili e le sopraffazioni morali e materiali.

Lo stesso giorno è attaccata ed espugnata Ripacandida ed è ucciso il capitano della locale Guardia Nazionale, Michele Anastasia, il cui cadavere è trascinato per la strada prima di essere consegnato ai familiari dietro forte riscatto.

Il giorno successivo in Ginestra, si manifestano altri disordini ed i rivoltosi dichiarano decaduto il governo di Vittorio Emanuele. Con un impressionante numero di insorti, il 10 aprile Crocco decide di occupare Venosa anche perché è atteso da una parte di popolazione che sollecita il suo intervento.

All’approssimarsi dei reazionari alcuni cittadini tentano di organizzare una disperata difesa con barricate poste in prossimità del castello. Queste però sono aggirate dai briganti che penetrano nel paese servendosi di scale fomite dagli stessi abitanti i quali, sventolando alcuni fazzoletti bianchi ne avevano favorito l’ingresso. L’occupazione di Venosa è anche favorita dalla inazione della Guardia Nazionale che segue il suo comandante, tenente Attanasio Santangelo, il quale sventolando una bandiera bianca accorre entusiasta incontro ai briganti.

Al Santangelo Crocco bacia le mani “ricordandosi dell’antico e benevolo padrone al cui servizio era stato per otto anni come capraio e, a richiesta di questi, disponeva un servizio di guardia alla sua abitazione”.

La notizia della reazione e dell’occupazione di Venosa giunge al municipio di Genzano il giorno 11 aprile 1861, con lettera inviata da Forenza dal capitano della Guardia Nazionale Luigi Veltri. In assenza del Sindaco Federico Mennuni , la missiva è consegnata al suo delegato Nicola Saverio Polini il quale riunisce immediatamente un drappello di volontari a cavallo per poter raggiungere dapprima Forenza e poi Maschito dove sta concentrandosi un forte gruppo di guardie nazionali e di volontari posto sotto il comando di Gabriele Bochicchio.

La cronaca degli avvenimenti narrati trova conferma nella deposizione che il Mennuni rende alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio che giunge in Potenza il giorno 1° marzo 1863. La deposizione è raccolta, verosimilmente, dal deputato Giuseppe Massari che nell’ambito della Commissione svolge le funzioni di segretario

Se ne ripropone un ampio stralcio: “Nell’aprile del 1861 Carmine Crocco di Rionero, Vincenzo Amati (Mastronardi) di Ferrandina e Giuseppe Nicola Summa (Ninco Nanco) di Avigliano, concertavano una reazione nei casali di Avigliano denominati Sterpito e Sant’Ilario, arruolando sotto il loro vessillo un numero di que’ naturali. In sulle prime si dirigevano a Ripacandida poscia a Venosa, ingrossando l’onda co’ malintenzionati quei paesi e di altri che mano a mano occupavano.

Pervenuto di ciò notizia a Genzano verso il mezzodì del giorno 12 aprile il capitano di quella G. N. (Guardia Nazionale) Davide Mennuni univa immediatamente 22 coraggiosi galantuomini tutti a cavallo che volontariamente si offrivano per andare a reprimere l’orda reazionaria e quantunque l’acqua fosse caduta dal cielo dirottamente, non facendo conto nè di questo ostacolo nè di altri, subito si partiron per Forenza ove giungeva la sera percorrendo lo spazio di ben 14 miglia.

Per non riaprire una piaga troppo dolorosa e perché i fatti sono già noti al governo, si passa sotto silenzio per colpa di chi non si andò da colà direttamente a Venosa ad attaccare i reazionari e molto meno negli altri paesi da costoro proprio invasi (l’accenno è al “maggiore” Giuseppe D’Errico che aveva avocato a sè il comando della spedizione).

Infelice ma dispiacevole e smaniosa nel contempo è la condizione di uffìziale subalterno quando i suoi slanci di coraggio non solo non vengono secondati ma, anzi, repressi da chi comanda in capo …”

Saputo che i briganti avevano lasciato Venosa fin dal mattino, spogliata e saccheggiata in modo orribile e che i briganti avevano preso la via di Lavello, il giorno 15 aprile la colonna entra in Venosa alle ore 4 e mezza p. m., ed il giorno successivo un drappello di fanteria gira per le case per rendere tutto quello abbandonato dai briganti. La roba sottratta e recuperata viene trasportata nei locali della cancelleria comunale ove i proprietari si recano a riprendersela.

Nei giorni 16 e 17 aprile, a questa colonna, si aggiunge la cavalleria di Corato, Andria, Terlizzi, Minervino e Barletta nonché diversi di Lavello che avevano prevenuto l’imminnte arrivo dei briganti. Il giorno 18 aprile venuta a conoscenza che i briganti, abbandonando Lavello avevano invaso Rapolla e Barile mentre erano stati respinti a Rionero, la colonna decide di partire per quest’ultimo paese.

Qui intanto vi era stato un combattimento fra militari e guardie nazionali con i reazionari i quali, non potendo occupare Rionero, si erano ritirati in Barile.

Il Crocco, intanto, dopo aver abbandonato Lavello alla testa degli insorti, passando per la località Serre, entra in Melfi la sera del 15 aprile 1861. Il Crocco, in carrozza, percorre il ponte Gaetaniello e la costa del castello e dopo aver indossato una splendida cacciatora di velluto verde confezionata dalle donne di Melfi, giunge in piazza mentre le campane della chiesa suonano a stormo.

Davanti alle effigi di Ferdinando II, Francesco II e Maria Sofia, collocate su un trono davanti alla porta municipale, il Crocco si inchina e ringrazia la Vergine Santissima “per aver guidato e protetto Ella stessa le nostre armi vittoriose”.

Fallito il tentativo di occupare Rionero, il Crocco abbandona Melfi ed il 12 aprile 1861 è accolto in Monteverde.

Inseguito da un reparto di truppa regolare proveniente da Eboli ed attaccato dalle guardie nazionali, ripiega su Carbonara (attuale Aquilonia), dove la popolazione, il 21 ottobre 1860, era insorta per impedire le operazioni di Plebiscito. Aiutato dalla popolazione, Crocco sfugge alle forze regolari, che lo inseguono; il 21 aprile si porta a Calitri e successivamennte a Conza dove l’Arcivescovo della cittadina benedice le bandiere legittimiste. Dopo una breve permanenza a Conza, Crocco ripiega verso Pescopagano, ma respinto ed inseguito dalle guardie nazionali di San Fele, Bella, Ruvo del Monte, Rapone, Pescopagano e Muro Lucano al comando di Francesco Bruno , il 23 aprile ordina ai suoi uomini di disperdersi nel bosco di Monticchio e di raccogliersi successivamente nel territorio di Lagopesole.

fonte

http://www.archeopolis.it/Pubblica/genzano/brigantaggio/index.htm?crocco.htm&2

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