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CROCCO. Biografia di un brigante (IV)

Posted by on Lug 15, 2024

CROCCO. Biografia di un brigante (IV)

GENERALE DEI BRIGANTI

Le vittorie di Garibaldi ebbero per effetto di far insorgere i cosiddetti liberali della Basilicata; i comitati segreti che facevano capo a Corleto avevano da tempo preparato le popolazioni a insorgere contro il mal governo borbonico, per cui in tutti i paesi era un tacito affaccendarsi a prontar armi, a fabbricar cartucce per essere pronti a menar le mani nel momento designato.

Siamo addì 10 Agosto dell’anno 1861; mi presento a te, cortese lettore, non più come capo riconosciuto dei moti reazionari, ma bensì come Generale di formidabile banda brigantesca.

Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue, sono armato sino ai denti, e quello che più conta, esercito il comando su mille e più uomini, che muovono ed agiscono ad un mio cenno.

Sul far del giorno mi avvicino verso un paesetto, nomato Ruvo del Monte, situato sul pendio di una collinetta, ombreggiata da fronzuti castani, da ubertosi vigneti. Qua e là per ombreggiante terreno incontro piccole ma ridenti villette e grosse masserie. Spicca da lungi una gigantesca torre, che sovrasta sul diroccato castello feudale, e palesa l’antichità del villaggio.

Ho ai miei ordini 1200 uomini e 175 cavalli; le campane della parrocchia suonano a storno, indizio certo che gli abitanti si preparano alla difesa delle loro vite, delle loro sostanze e del loro onore. Mi fermo ad un mezzo miglio distante dalle prime case e scrivo al Sindaco ed alla Giunta la seguente lettera:

«Egregio Sig. Sindaco e signori di Ruvo del Monte.

«Sono qua in presenza vostra, non per farvi male, ma bensì per pregarvi affinché le SS. LL. Ill.me abbiano la bontà di fornirmi per oggi il foraggio per 1200 uomini e 175 cavalli, pagando lo sconto in oro sonante.

«Fatto ciò proseguirò il mio cammino; spero che Loro nobili signori esaudiranno la mia preghiera e non mi obbligheranno ricorrere alla forza. Do’ un’ora di tempo per rispondere.

«Sono: Carmine Donatelli Crocco».

Dopo mezz’ora ricevo la seguente risposta:

« Caro Carminuccio »,

«Non possiamo assolutamente accettare la fattaci richiesta; essa non solo ci compromette col R. Governo, ma tocca il cuore ed il nostro amor proprio. E siccome ci troviamo ben forniti di cartucce e vogliamo provare la nostra polvere ed il nostro coraggio, così aspettiamo che ti faccia avanti coi tuoi pastorelli che noi ti faremo il piacere di ucciderli.

« Il miglior consiglio che noi ti possiamo dare è quello che tu vada via e presto, poiché fra poco verranno forze da Rionero, da San Fele e da Calitri, ti metteranno in mezzo e sarà finita per te e per i tuoi.

«Sindaco Blasucci »

Dopo data lettura di questa lettera ai miei compagni, così dissi loro: «Giovinotti bisogna vendicare col sangue non solo il rifiuto, ma l’insulto di averci chiamati pastorelli; chi ha fegato mi segua».

Disposi quattro centurie sul fronte, che avanzarono furibonde sul paese, accolte da un fuoco di moschetteria ben nutrito ma poco diretto, mentre altri 200 uomini ebbero ordine di attaccare di fianco. I cavalieri li lasciai a guardia sulla strada di Rionero con l’ordine di spingersi in avanti per assicurarmi in tempo da ogni arrivo di truppe; un’altra centuria la diressi sulla strada di Calitri collo stesso mandato. I rimanenti uomini agli ordini di Ninco-Nanco lasciai indietro per la riscossa.

L’attacco fu simultaneo e terribile. In eterno onore di quei valorosi cittadini caduti, posso assicurare che disputarono palmo a palmo quella loro cittadella. Perduta la prima posizione avanzata, si appostarono sulla piazza; cacciati anche di là, presero posizione sul largo della chiesa e dopo aver sparato tutte le cartucce ingaggiarono una lotta corpo a corpo coi miei. Sopraffatti dal numero, tentarono ridursi alla torre, e trovata chiusa la via, si disposero a morire, quando le donne si buttarono piangendo fra i combattenti implorando pietà e grazia per i loro padri e pei loro mariti e figli. Sulla torre sventolò bandiera bianca, così la lotta finì, ma le vie erano seminate di cadaveri ed i miei si davano al saccheggio.

L’autorità municipale sedeva in permanenza, onde, quando entrai nel palazzo del comune, trovai i consiglieri al loro posto.

Ordinai mi fossero consegnati il ruolo della guardia nazionale, i fucili e le munizioni dei militi, la cassa del comune e quella della fondiaria.

Mi si rispose che facessi terminare le stragi e l’incendio, e sarei esaudito. Così fu fatto.

Ricordando quella famosa giornata io mi domando ancora dove quei poveri cittadini avevano potuto apprendere l’arte della guerra, da esplicare tanta resistenza e tener fronte in numero di circa 300, per diverse ore a 1000 e più uomini giovani, sitibondi di piaceri e di bottino.

Quei prodi non avevano preso parte mai né a piccole né a grosse manovre, anzi la ferocia del governo borbonico proibiva loro di portar il fucile, e per aver il porto d’armi bisognava pagare 5 scudi.

Oh, perché il Borbone non seppe utilizzare tanto valore e tanto eroismo così spontaneo, così naturale nei figli di questa forte Legione, cosicché il potente esercito borbonico fu messo in fuga da un pugno di giovinotti e questi furono chiamati eroi, e vili quelli?

La verità di quelle facili vittorie, la causa delle fughe, il facile sbandarsi e chi non lo sa!.

Bisognava vedere un quartiere militare borbonico che cosa era; ed io lo vidi e lo conobbi. Ho visto quante infamie si commettevano, e la frusta, il bastone e le fucilazioni sommarie, e le punizioni tremende, di guisa ché in noi soldati prevaleva il concetto:

«Questo regno è tuo e de’ tuoi sbirri, difendilo da te e con i tuoi, non io morirò per la gloria tua e per conservare sul tuo capo la corona».

Ma qualcuno mi dirà, e con ragione, come mai tu che conosce vile infamie del borbone, dopo la caduta di questi, ti sei rimescolato nel fango ed hai messo te ed i tuoi compagni alla merce’ d’una causa, che aveva destato in te tanto orrore.

Non si parli di me, io allora mi ero già macchiato le mani di sangue, la mia persona era cercata, lottavo per vivere, ero il serpente ricordato dalla povera mia madre, morta pazza nel manicomio di Aversa.

Torniamo a Ruvo. Sul cader della sera lasciai nel pianto villaggio e feci la ritirata sulle colline delle Frunti a un appena dai primi fabbricati. La notte da tutti i paesi mi giunsero corrieri, coi quali mi si faceva conoscere lo scoraggiamento dei paesi o la partenza di dispacci per riunire forze contro di me, onde ne dedussi, che nel dì seguente non sarei stato disturbato. Fatto giorno organizzai una nuova compagnia di reclute che armai coi magnifici fucili di Ruvo; portai la cavalleria al numero di 190 coi 15 cavalli tolti ai Ruvesi; verso mezzogiorno venne il capo-banda Agostino Sacchetiello con uomini e 60 cavalli, tutti armati di splendidi fucili e di numerose munizioni, cosicché tutti uniti raggiungemmo la forza di 1541 uomini e 256 cavalli, i migliori delle Puglie.

Sul cadere del giorno lì mi fu riferito che l’autorità governativa non se ne stava colle mani alla cintola. Il Comando della forza era in Rionero, ove s’era riuniti drappelli di vari distaccamenti. Se ben mi ricordo, vi era un battaglione di bersaglieri, uno del 62° fanteria , tre battaglioni di guardie mobili, due compagnie del 32° fanteria e molta guardia nazionale.

Il Comando aveva deciso attaccarmi vigorosamente nella mia posizione tentando l’accerchiamento. Sapevano ch’io ero ferito, ma non pensavano che la tigre ferita fa tremare il cacciatore.

Sicuro di non essere molestato, verso il meriggio calai su Ruvo ove mi feci medicare la ferita, e verso sera colla fanfara in testa presi la via che conduce al fiume Ofanto, nella direzione di Calitri.

Ognuno credeva che io mi avanzassi per occupare Calitri., invece a notte avanzata cambiai inaspettatamente direzione e dopo tre ore di contromarcia mi fermai in una posizione che mi parve assai forte.

Questa posizione era costituita da una massa boscosa riparata di fronte e, lateralmente a destra, dalle ripide sponde di un torrentaccio detto Vomina, mentre a tergo ed a sinistra si trovava una pianura estesa, che permetteva alla cavalleria di manovrare.

In questa posizione decisi aspettare le truppe, pronto a morire anziché abbandonarle.

AlIo spuntare del giorno successivo la truppa giunse a Ruvo, e, avuto notizie della mia partenza e della direzione presa, si pose all’inseguimento, sicura di sorprendermi nei boschi di Castiglione oppure in quelli di Monticchio.

Le mie spie, dopo accompagnate le truppe sino all’Ofanto, mi informarono che queste avevano riposato nella località Scona, da me lontana otto miglia di pessima via.

Per meglio rafforzarmi nella posizione presa, pensai far costruire una palafitta, di circa 400 metri di fronte, a forma di mezza luna. Spiegato sommariamente ai miei uomini lo scopo della difesa, ne ordinai la costruzione ed in un attimo duecento scuri cominciarono a tagliare arboscelli, così che in poche ore io avevo fatto costruire un forte riparo pei tiratori, i quali rimanevano coperti di fronte alle nude praterie presso cui passava la strada carrozzabile che da Melfi conduce a Napoli.

Verso le due del mezzogiorno, il Sottoprefetto Decio Lordi di Muro Lucano, avuto il cambio, lasciava la città di Melfi per prendere la sottoprefettura di Eboli. Scortato da una compagnia di guardia mobile e da una dozzina di gendarmi montati, se ne veniva a cavallo per la carrozzabile, quand’io informato del passaggio feci assalire da’ miei cavalieri.

Sorpresi da una brillante carica, i militi della guardia dovettero cedere le armi senza poter combattere, mentre il fortunato Decio si salvò a stento con due gendarmi, mercé la velocità della sua cavalcatura. In quel conflitto caddero morti tre militi e sei furono feriti.

Comandava la scorta un giovane luogotenente di San Fele e fu mercè sua se la guardia nazionale superstite, in mezzo a tanto desiderio, nei miei, di uccidere, poté tornar sana e salva in paese. Il padre dl quel luogotenente aveva altra volta beneficiato mio padre, onde salvai la vita a lui ed a’ suoi.

Prima che si accomiatasse pregai l’ufficiale di riverirmi il comandante piemontese posto alle mie calcagne, e di avvertirlo che lo, avrei atteso alla macchia di Topacivita, di dove non mi sarei mosso per un pò di tempo.

Ritornato in paese l’ufficiale narrò l’avventura occorsale poiché subito dopo ricevetti una lettera, concepita presso a poco in questi termini:

Rionero in Vulture, 13 Agosto 1861

«Sig. Carmine Donatelli Crocco.

Rendo grazie della libertà accordata ai miei dipendenti caduti nelle vostre mai. Una seconda volta nell’interesse del paese, di tante famiglie e nell’interesse vostro, io vi invito a deporre le armi e vi assicuro che non sarete fucilati e la causa vostra sarà rimessa alla clemenza sovrana. Dimani non verremo per lasciarvi tempo a riflettere se nonostante questa mia insisterete a mostrarvi ribelle alla legge, sarò costretto, mio malgrado, darvi la caccia per avervi o vivo o morto.

«P.C.

Ecco la mia risposta:

«Signori a tutti ossequi.

Non posso assolutamente aderire alla vostra domanda perché S.M. Vittorio Emanuele ha rigettato l’istanza dell’avvocato signor Francesco Guerrini e rigetterà ancora ogni altra, anche appoggiata da V.S. E siccome non voglio servire di trastullo a chi assisterebbe alla mia fucilazione, così sono pronto a vendere a caro prezzo la mia vita.

Fedele alla parole data il Comandante piemontese stette 24 ore inoperoso nella speranza che io mutassi consiglio; questo tempo fu per me preziosissimo poiché ebbi mezzo di rafforzarmi nel mio piccolo campo trincerato.

Sovvengavi che nel posto che io occupo ora, nel 1808 fu trucidato un intero reggimento di Re Gioacchino Murat».

«Carmine Crocco»

Vedevo con piacere con quanto ardore i miei pastorelli lavoravano; essi avevano compreso di quanta utilità potesse tornar loro quella specie di siepe, fatta di pali, fascine, terra e sassi; e misurandone l’altezza, la resistenza, facevano pronostici sull’imminente combattimento. Il Coppa, più feroce tra tutti, aveva giurato di ubbriacarsi di sangue, come gli era successo a Caiazzo, altri men feroci facevano tra loro promesse brutali, e tutti erano animati da un vivissimo desiderio di lottare.

In me prevaleva la certezza della vittoria e la tranquillità spontanea della mia persona, la nessuna preoccupazione per l’attacco avevano vinto i più timidi, di guisaché in tutti più che speranza era viva la sicurezza di un prossimo trionfo.

Non dovete però credere che i miei fossero tutti pastorelli.

Avevo un piccolo esercito con quadri completi, un capitano, un luogotenente, un medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico. Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioé cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori, minatori, granatieri della guardia e che so io. Che importa se costoro erano pastori, contadini, cafoni? Forse che gli eserciti attuali non sono composti tutti di figli della miserabile plebe? Che se poi dovessi io scegliere fra due reggimenti uno di studenti, l’altro di pastori o di contadini sarei sempre pei secondi, perché avvezzi al freddo, alla fame, alle fatiche ed al camminare. Non dico che gli studenti siano vili; no, Iddio mi guardi da sì infame calunnia, ma preferisco l’uomo rozzo, il cafone, più facile ad allenarsi, più pronto ad ubbidire, meno esigente nel mangiare, e incapace di criticare gli ordini ricevuti.

Avvisato dalle spie dell’avanzata delle truppe, feci sortire dal campo i miei cavalieri, divisi in cinque plotoni che diressi in cinque diverse direzioni, col mandato preciso di esplorare lontano e di riferire.

Ci dividevano dai soldati sei buone miglia di strada, ciò non pertanto, appena la truppa uscì da Porta di Napoli, noi dall’alto della posizione con buoni cannocchiali potemmo osservarla e seguirla ne’ suoi movimenti.

Ai primi raggi del sole nascente luccicavano le armi e le uniformi degli ufficiali; questi erano tutti montati chi su mule, chi su cavalli; avevano la sciarpa azzurra a tracolla, la pistola al fianco e qualcuno il fucile alla spalla.

Mentre le colonne avanzavano silenziose, io pensavo a quel comandante piemontese ed a’ suoi ufficiali, che avevano di noi meridionali un concetto così basso, che ci credevano tutti vili e come tali trattavano le popolazioni che davano loro ospitalità.

«Vedrete, vedrete cosa sapranno fare questi miei pastorelli»? mormoravo tra me e me, «Qui tra noi non troverete il lusso di fucili rigati, ma vecchi archibugi, non sciabole affilate e acuminate, ma scuri taglienti, pistole a pietra focaia, lunghi pugnali, coltelli catalani. Senza il lusso di ricche uniformi, anzi laceri e scoperti, scalzi e con scarpe di tela, cappellaccio alla calabrese, cartuccere alla cintola, noi di pastorelli abbiamo solo le sembianze, ma siamo pronti a ricevervi da pari a pari».

E con tali pensieri mi preparavo alla lotta. Appostai dietro alla palafitta 800 uomini, i meglio armati ed i più risoluti; a circa 300 metri da loro, dentro il bosco, ne collocai 200 armati di fucile da caccia, colla missione di proteggere la ritirata in caso di sconfitta, mentre altri 200 collocai sul fianco al coperto per irrompe nel momento decisivo. Ogni drappello di 200 uomini era comandato da un capo, chiamato capitano, che aveva alla sua dipendenza sottocapi e sergenti maggiori. Per ogni 10 individui vi era un caporale. Gli uomini disarmati, per deficienza di fucili, ebbero l’incarico di trasportare i feriti dalla palafitta al bosco.

Ciò fatto mi consigliai col vecchio capitano Antonio Bosco, I luogotenente Francesco II col sottotenente Luigi Sicilia e coi vecchi sottufficiali dell’esercito borbonico, ed all’unanimità si convenne che le nostre posizioni erano formidabili e che soIo l’artiglieria avrebbe potuto farci sloggiare.

Lasciai il comando di tutti al capitano Bosco, che, dopo giuramento, nominai colonnello, e poscia postomi alla testa dei cavalieri mi avanzai contro la truppa coll’intento di attirarla gradatamente sotto il tiro dei miei compagni appostati dietro la palizzata. In caso di sconfitta la ritirata doveva farsi in direzione di Monticchio verso la chiesa di S. Michele.

Rivolto ai miei vecchi compagni di mestiere, già avvezzi alla musica del piombo, ordinai loro di montare in sella e di prepararsi al cimento.

Erano con me il feroce Ninco-Nanco, il sanguinano Giovanni Coppa, Agostino Sacchetiello suo fratello Vito, Giuseppe Schiavone, Michele di Biase, Tortora Donato, Caschetta, Gambini, Palmieri, Cavalcante, Serravalle, Teodori, D’Amato, Caruso, Sorotonde ed altri.

Alla testa di questi rinomati briganti v’era il serpente, giusta la profezia di mia madre. divisi in cinque squadroni avanzammo in colonna serrata fino al ponte di Atella, ove sostammo sopra un poggio dominante la fiumana. Dall’alto della posizione ebbi campo di scorgere l’avanzata della truppa; la chiesa di S. Lucia era già occupata dalla fanteria mentre altre truppe avevano oltrepassato il camposanto.

Come di uso primo a comparire fu il battaglione di bersaglieri, che con mirabile ardire passò a guado il torrente ed avanzatosi. presso di noi cominciò ad aprire un fuoco vivissimo, dopo il quale a baionetta in canna, ed al grido di «Savoia» mosse all’attacco.

Noi certamente non restammo colle mani alla cintola. Dodici carabine a revolver, giunte la sera da Napoli assieme a sessanta revolver di fabbrica inglese, dovevano essere sperimentate e furono le prime a vuotare i loro globi di rotazione contro i bersaglieri.

Vidi con i propri occhi cadere fulminato un caporale, un altro soldato rovesciato al suolo mortalmente ferito, il cavallo del maggiore colpito al petto cadde per non più rialzarsi; ma i bersaglieri da veri indemoniati avanzavano sempre, così fu necessario lasciar la postazione e ritirarci in una bella pianura.

Approfittando di un momentaneo slegamento, prodottosi nel battaglione che ci aveva attaccati, quando i soldati erano giunti sulla collina da noi occupata e poscia abbandonata, ordinai ai cavalieri di far fronte indietro in battaglia e muovere alla carica.

Il nostro movimento rapidissimo sorprese i bersaglieri che avanzavano stanchi alla spicciolata e produsse gran disordine nella colonna, e sarebbe toccata mala sorte, se l’apparizione di un battaglione del 62° fanteria non avesse frenato il nostro ardimento, costringendoci a fuggire. Dopo un miglio di galoppo guadagnammo la masseria Mezzanotte.

Le truppe avevano dato il segno alt ed il battaglione del 62° che ci aveva inseguiti, ebbe ordine di r itirarsi e si andò a riunire colle altre truppe nel piano detto Cartolico.

Approfittai di quella tregua momentanea per visitare i miei uomini, i bersaglieri ci avevano ucciso un compagno e ne avevano feriti sei; dei cavalli, sedici erano stati feriti alcuni di daga e altri da colpi di fucili; spedii i feriti al mio piccolo campo trincerato, poscia ci rassettammo alla meglio, stringemmo le cinghie ai cavalli, e, distesi in cordone, ci ponemmo in osservazione.

La truppa era in movimento; si erano formate diverse colonne spinte in direzioni diverse coll’obiettivo di convergere sopra di noi.

Un battaglione di guardia nazionale avanzò di fronte e giunto a portata di tiro apri il fuoco; noi rispondemmo tosto ed ai primi colpi cadde morto, come seppi poi, il figlio dì mio zio, Michele Crocco, esattore della fondiaria. La lotta era ingaggiata arditamente da ambo le parti, piovevano le palle ch’era un piacere a vederle smovere il suolo asciutto, quando due compagnie strisciando al suolo giunsero non viste sulla nostra destra e ci attaccarono alla baionetta.

Quell’urto inaspettato scompigliò i miei cavalieri che a tutta corsa si ritirarono inseguiti dalla truppa.

Ma essendo i soldati a piedi e noi a cavallo tornò facile porci fuori tiro, poscia, utilizzando diverse capanne di pastori, ci ponemmo in agguato.

La truppa avanzando sempre celermente guadagnò in breve la distanza che ci separava, ed avuto sentore della nostra presenza dietro le capanne, cominciò a sparar colpi, dopo i quali al grido di «Savoia» venne all’assalto.

Ma l’astuzia e l’arte dell’inganno prevalse al valore. Una metà di noi finse ritirarsi e venne inseguita; l’altra metà girando da sinistra a destra, con rapido movimento piombò sul fianco della colonna, e, rotto il centro, costrinse la coda a ritirarsi, mentre la testa veniva caricata dai miei, ritornati improvvisamente all’assalto.

Riavutasi dall’inaspettato tranello, la colonna si riordinò quando noi eravamo già lontani. In questo scontro ebbi il cavallo ferito da un colpo di baionetta. Certo Vito, della città di Avigliano, provincia di Potenza, dopo aver combattuto contro di noi da vero leone, vistosi accerchiato, fe’ atto di consegnare il fucile, mentre un mio compagno gli si avvicina per ricevere l’arma, egli con rapido movimento gl’immerse la baionetta nel fianco; a tal vista io, che mi trovavo vicino, gli feci fuoco a bruciapelo. colpito in pieno petto ebbe campo di volgersi contro di me lanciarmi un tremendo colpo di baionetta, che per caso colpì in mia vece il cavallo. Poco dopo quel valoroso spirò.

Scopo mio era di attrarre gradatamente la truppa sotto il tiro dei miei compagni appostati alla palafitta, onde la ritirata e le fughe avevano una direzione costante. Il battaglione di guardia nazionale che ci aveva sempre inseguiti con ammirabile iena, andò a dar di cozzo contro i compagni appostati e venne accolto da una terribile scarica. In breve la strada fu coperta di cadaveri e di feriti; i soldati non potendo muovere all’assalto, essendo impossibile superare le ripide sponde del torrentaccio, oltre il quale i miei erano in posizione, fu giocoforza rispondere col fuoco al fuoco nostro. Ed infatti durò per un pò di tempo l’azione, poi i cittadini armati si ritirarono dirigendosi verso le truppe retrostanti che venivano avanzando sulla nostra destra.

Io coi miei stanchi compagni, con 19 prigionieri, entrammo nella piccola fortezza ove trovai tutto nel massimo ordine. Gli amici invidiavano la sorte a noi toccata e si lamentavano di quella loro lunga attesa, contraria alle abitudini loro. Tranquillizzai tutti assicurandoli che fra non molto sarebbe venuta anche per essi l’occasione di muover le mani.«Non dubitate, dissi loro, poiché fra poco sarete più fortunati di noi. Guardate come il Comandante nemico se ne viene a noi cheto cheto, come il romita che recita il rosario. Chi sa cosa rumina pel capo quel vecchio avanzo di Crimea. Sapete cosa mi fa tremare? E’ il sangue freddo, è la flemma di quell’uomo. Ho come lo vorrei vincere, non tanto pel piacere di far scorrere dell’altro sangue,. quanto per dimostrare e fargli toccar con mano come nelle provincie del nostro disgraziato paese, vi sono uomini che valgono tanto per quanto valgono gli altri uomini della terra; per insegnare a cotesta gentaglia piemontese, che con motti arguti ci chiamano:

«testoni, codardi, cafoni, rozzi, ignoranti e bigotti», «come anche noi abbiamo del fegato e del cuore!».

Ciò detto volli render conto della situazione e soggiunsi: «Abbiamo avuti due morti, un prigioniero, sette feriti e ventun cavalli messi fuor di combattimento. A nostra volta abbiamo sequestrati venti soldati, settantacinque fucili e parecchie munizioni, i morti di truppa se li conteranno loro. Cosa faremo dei prigionieri? Se attaccati saremo costretti a fuggire, chi è vivo ha per dovere, prima della fuga, uccidere quanti più ne può, almeno i morti non parleranno; all’opposto se non saremo oltre molestati, domanderò il cambio di essi coll’unico nostro.

«Voi Giovanni, Giuseppe e Agostino Schiavone montate tosto a cavallo, andate da Peppe Ninco-Nanco, fate riunire il personale, lasciate solo venti persone colà imboscate agli ordini di Andreotto e coll’incarico di custodire la posizione da quel lato. Il resto del personale trarrete con voi occupando la collina della Caprareccia di Mezzanotte.

Colà giunti farete uscire una pattuglia di venti persone con l’ordine di perlustrare le colline di Cartoffo, la strada ed il vallone della masseria. Qualora il Comandante piemontese mandasse da voi uno de’ suoi battaglioni, è vostro compito non impegnarvi a fondo, anzi dovrete, con fuoco di ritirata, attrarlo sotto il tiro dei nostri. I cavalieri si spingeranno verso la Bicocca cercando di tener occupato il battaglione di bersaglieri. M resto penserò io».

Nel mentre io facevo ai compagni un tal ragionamento, la truppa evidentemente stanca, era stata messa in riposo. Gli ufficiali riuniti a gran rapporto, con le carte topografiche alla mano, studiavano sul da farsi. Dopo un’ora di riposo udimmo il segnale dell’attenti, e, formata in colonna, la truppa avanzò verso di noi.

«Eccoli! esclamai io, eccoli che si avanzano contro la nostra posizione coll’intento di fucilarci tutti quanti, coraggio adunque fratelli, facciamo loro vedere che noi pastorelli sappiamo riceverli bene, e siamo pronti a scannarli, come sappiamo scannare i capretti. Coraggio adunque io sono con voi: «se dovessimo sloggiare da qui, sarò sempre io l’ultimo ad uscire».

L’attacco fu iniziato da un battaglione di guardia mobile rinforzato da un battaglione di guardia nazionale. Dopo un fuoco nutritissimo la guardia mobile mosse all’assalto, accolta da un fuoco micidiale, fatto dai miei uomini appostati alla palafitta.

Sconcertato da una resistenza non prevista quel battaglione si arrestò, e, scosso dalle numerose perdite volse le spalle.

Ma a rinforzo immediato giunse il bravo battaglione del 62° fanteria; questo battaglione composto in m aggior parte di piemontesi, soldati vecchi avvezzi alla guerra, non fece come i nostri mobilitati, avanzò con ordine perfetto combattendo con un sangue freddo che mi faceva paura. Impavido attaccò di fronte e giunto a metà della salita i soldati presero la posizione di a terra, iniziando contro di noi un tiro lento ma preciso, nell’intento di stancarci col fuoco, obbligarci a dar fondo alle munizioni e poscia assalirci colle baionette in canna.

Chiamai in rinforzo i 200 uomini di riserva, che portai sulla linea di fuoco coll’ordine di risparmiare possibilmente le munizioni.

Il battaglione di guardia mobile, forte dell’esempio del 620 si riordinò anch’esso e con rapido cambiamento di fronte si portò all’attacco della mia sinistra, mentre quasi contemporanea-mente, il 62° al grido di «S avoia» si gettò sulla palafitta.

Quel che successe più non ricordo; un frastuono terribile, urli, bestemmie misto a lamenti di feriti, nubi di fumo che si levavano in alto e coprivano per lo spazio di centinaia di metri, non lasciando distinguere quel che avveniva.

Un capitano a dodici soldati penetrati arditamente nell’interno della palafitta erano caduti in mano dei nostri, mentre tutto all’ingiro si continuava a far fuoco.

Finalmente la tromba del Comando suonò ritirata, e fu per noi il miracolo della salvezza, poiché un minuto ancora ed i miei, allarmati da quell’attacco così accanito, sarebbero di certo fuggiti, anzi molti si erano già ritirati e ritornarono solo, avvisati della vittoria dalle nostre grida di gioia.

Erano le 12 e tre quarti e da circa 8 ore noi resistevamo all’attacco triplicato della truppa sotto i raggi del sol leone. Se la disparità marcatissima del numero così grande di noi in confronto dei meschini battaglioni che ci assalivano, non ci avesse resi forti e temerari, forse quel giorno avrebbe segnato lo sterminio della mia banda. E’ nonostante tanta disparità di forze, ci sarebbe toccata rovina completa egualmente, se il Comandante piemontese, non avesse commesso lo sbaglio di non far concorrere all’assalto i bersaglieri, lasciandoli inoperosi in riserva a sorvegliare i miei cavalieri. Contribuì eziandio alla nostra salvezza la mancanza di cavalleria nella truppa; un plotone di arditi cavalieri avrebbe influito colle sue precise informazione a far si che non si venisse a dar di cozzo contro una posizione rafforzata e così ben difesa.

Conveniva a me far vedere agli ufficiali ed alla truppa che la lotta sostenuta non ci aveva moralmente e materialmente allarmati, per cui ordinai al comandante dei miei cavalieri di passare tosto la fiumana e portarsi in avanti a minaccia, spingendosi a masseria Occhio di Lupo.

Il Comandante piemontese, malgrado il caldo soffocante, la visibile stanchezza dei suoi e l’ora già avanzata, decise un ultimo attacco, ed a tal fine tolse i bersaglieri dalla riserva, che sostituì con 500 uomini di guardia nazionale. Di ciò si avvide il feroce Giuseppe Nicola Scummo, detto Ninco-Nanco, il cui solo nome metteva terrore nelle popolazioni. Da uomo scaltro, ben conoscendo che quei militi erano armati di fucili da caccia privi di baionette, e che la massa era composta in genere di padri di famiglia, e di non pochi borbonici arrabbiati, divenuti liberali loro malgrado, Ninco-Nanco, decise tosto di attaccarli coi suoi uomini a cavallo.

Detto fatto, per un tratturo coperto si avvicinò inosservato e poscia a galoppo sfrenato caricò furiosamente.

Sorpresi da tanta audacia i militi si sbandarono ed in loro soccorso dovette accorrere la truppa regolare, mentre Ninco-Nanco coi suoi, con abile dietro-fronte si pose in salvo.

Quest’attacco inaspettato convinse il Comandante piemontese a lasciarci tranquilli per quella giornata almeno, ed infatti la truppa rientrò in paese.

Col mio binocolo ebbi mezzo di osservare la truppa che si ritirava e distinsi pure i miei, caduti prigionieri, che legati e scortati dai bersaglieri erano al centro della colonna.

Senza por tempo in mezzo scrissi questa lettera:

«Masseria Signorelli, li 14 Agosto 1861 »

«Signor Maggiore, mandami qua un capitano della truppa attiva e l’avvocato D. Emanuele Brienza, coi quali debbo conferire sulla sorte dei tuoi uomini caduti in mio potere.

«Vostro devotissimo Carmine Donatelli Crocco»

Un paio d’ore dopo giunse a me un sergente per conoscere meglio cosa volessi colla mia lettera.

Risposi che avevo con me cinquanta soldati compreso un capitano, e che dodici dei miei compagni erano caduti nelle mani della truppa; se il comandante faceva fucilare i miei uomini, io a mia volta avrei fatto scannare i suoi soldati, incominciando dal capitano, e che ero disposto a lasciar tutti liberi purché venisse fatto altrettanto per i miei.

La notizia che il capitano era vivo, ebbe per effetto l’immediato ritorno dei miei a cui risposi mettendo in libertà tutti i soldati caduti vivi nelle mie mani.

La giornata del 14 agosto 1861 se fu fatale per noi lo fu maggiormente per la truppa e più specialmente per la guardia nazionale. Nei vari paesi del circondano di Melfi molte famiglie vestirono a lutto, e nel lontano Piemonte altre famiglie piansero un loro caro da noi trucidato; e chi sa che ancor oggi vi sia qualche vecchierella che dica ai nipotini: «tuo nonno o tuo zio, fu ucciso dai briganti, vittima onorata del dovere compiuto; ma Iddio giusto ha sterminati tutti i vili assassini e chi non è morto fucilato è morto in galera».

Iddio non ha voluto ch’io morissi e dopo 30 anni, nel ricordare quel sangue fatto spargere, sento in me il più profondo tra i dolori, che tormentano questa misera esistenza.

Il corpo brigantesco la sera del 14 Agosto 1861 essendo stanco e sfinito prese riposo sulla posizione non perduta di Toppacivita

Lettore, mentre la mia banda sfinita dalla stanchezza riposa sul luogo dell’avvenuta vittoria, io voglio parlarti di un nostro bivacco.

I briganti, quando non sono minacciati da vicino dalla truppa, dormono normalmente all’ombra di fronzute querce, sdraiati a terra alla rinfusa; per guanciale hanno un sasso od una zolla, per coperta il cappotto od il mantello; i fucili sono appoggiati alle piante colle cartucciere appese ai calci. Sul fronte, ai lati, a tergo, tutto all’ingiro della posizione, vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno presso le truppe. I capi riposano in luogo appartato sotto capanne costruite con fronde d’albero con terra e paglia, sopra giacigli abbastanza soffici, accompagnati talvolta dalle loro amanti. A rinforzo delle vedette appostate sul cucuzzolo, di un monte, sulla cima di un albero, sull’alto di qualche diroccato castello, vi sono i cani, feroci mastini che fiutano la preda a distanza maggiore che l’occhio non giunge. I cavalli pascolano liberi nel folto del bosco riuniti a decine con cavezza e filetto.

I feriti, gli ammalati del giorno, sono ricoverati nell’interno del bosco con abbondante paglia e qualche rara coperta. Sono curati con affetto, la pratica supplisce la scienza e l’arte: le ferite sono lavate con acqua ed aceto, i farmaci normalmente usati sono: patate, filacce, fascie, bianco d’uovo, olio di olivo sbattuto e foglie d’erba chiamata stampa cavallo.

Può apparire ridicolo che la patata sia medicina utile, ma è proprio utilissima, almeno per noi briganti era riconosciuta tale.

Le patate, ben pestate danno un unguento latteo, che ha la potenza di trarre a sé il sangue guasto, la velenazione della polvere; esso ingranella la carne filacciosa, fa sparire il gonfiore e restringe lo squarcio. Per le ferite di punta e di taglio si usava olio sbattuto e foglie di pecorella, che si trovava abbondante nei luoghi aridi e montuosi.

Dopo il rancio la banda è ripartita in gruppi ognuno dei quali è presieduto da un caporanciere; sul pendio meno ripido della posizione in luogo possibilmente coperto, perché il fumo non ci tradisca, si accendono i fuochi; poco lontano i cucinieri sono intenti a scannare capretti, scuoiare maiali, spennare polli e tacchini, e mentre altri tagliano legna per aver brace abbondante, la carne è pronta per essere arrostita.

I viveri vengono requisiti nelle ricche masserie e spesso nei villaggi con arma alla mano; durante la notte si circondano le case e mentre alcuni tengono sequestrati i contadini, altri svaligiano le stalle, i pollai e le cantine. I denari per la paga vengono forniti dai signori reazionari e liberali, i primi con elargizioni spontanee i secondi forzatamente con minaccia in caso di rifiuto, di taglio di piante, incendi, devastazioni ed altri simili danni.

Il 15 Agosto 1861, giorno dell’Assunzione, per festeggiare la vittoria avuta contro il Presidio di Rionero, volli che ornassero il nostro desco duecento pecore, un migliaio di polli, due botti di vino, il tutto tolto, in massima parte, dalla masseria del capitano Giannini di S. Fele.

Per la paga, i capi hanno una percentuale sulle taglie e sui ricatti i gregari un tanto al giorno, gli avventizi cinque scudi per cadauno all’atto che sono licenziati.

Ed ora che ho divagato abbastanza con descrizioni noiose e superflue, torno alle mie gesta, agli atti briganteschi da me compiuti dall’agosto 1861 al cader dell’anno stesso.

Dalla forte posizione di Toppacivita, dopo gli scontri avuti, io non mi ero mosso, anzi avevo ordinato di meglio rafforzare quella palizzata ricovero, per essere in grado di resistere a nuovi attacchi, mentre numerosi zappatori erano intenti ad abbattere i pali telegrafici e tagliare i fili per interrompere le comunicazioni.

Il Comandante delle forze piemontesi residente in Rionero misurata la forza della mia banda in confronto dei suoi magri battaglioni, non seppe far altro che chiedere rinforzi, ed in attesa del loro arrivo ci lasciò tranquilli.

Le campagne, non a torto terrorizzate dalle carneficine della mia banda, erano spopolate, le strade erano deserte, vuote le mas serie campestri Rigorosi bandi militari, imponevano a tutti i cittadini, pena la fucilazione, il non uscir dai paesi dopo l’Ave Maria della sera, di guisaché regnava ovunque uno squallore profondo, un senso di tristezza e di desolazione.

Tale condizione eccezionale di cose nuoceva indirettamente alla mia banda, poiché veniva a mancare, come si suoi dire, la merce al mercato, per cui decisi abbandonare la macchia di Toppacivita e di trovar mezzo all’esistenza, piombando inaspettato sui piccoli paesetti sguarniti di milizie cittadine e di truppe regolari.

Occupai Rapone costringendo le popolazioni a versare forti contributi in denaro ed alimenti, taglieggiai i signori di San Fele imponendo ricatti e gravezze, e dopo di aver gravato di taglie diverse persone di Atella, colla banda ridotta a mille uomini circa, entrai nella boscaglia di Lagopesole.

fonte

http://www.archeopolis.it/Pubblica/genzano/brigantaggio/index.htm?crocco_autobiografia.htm&2

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