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Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie (quarta parte)

Posted by on Ago 12, 2024

Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie (quarta parte)

Nelle Due Sicilie accanto ai benestanti c’erano i nullatenenti, anche se non erano più numerosi che nel resto del Paese. Nel ricordato censimento del 1861 (eseguito sotto la direzione di funzionari piemontesi, che certo non avevano interesse a presentare dati più favorevoli per lo Stato conquistato), infatti, risultarono l’1,40% della popolazione, in linea con la media nazionale, che era proprio quella dell’1,40%.

Nel Sud ne vennero contati 120.000, nell’ex regno sardo 40.000 e in Lombardia 52.000, ma per quanto riguarda le province settentrionali, ai nullatenenti rilevati andrebbero aggiunti quelli che erano emigrati, abbandonando la loro Terra, e che fino a quel momento si ritiene siano stati, anche se non esistono cifre ufficiali, tra i 200.000 e i 300.000. All’epoca, lo abbiamo detto nelle puntate precedenti, invece l’esodo dei Meridionali non era ancora cominciato.

Il sistema creato dai Borbone per fronteggiare la miseria, come sappiamo, tutto sommato era efficace e dai loro territori nessuno partiva per andare a cercare altrove un modo per sopravvivere. Non è quindi un caso se i primi Napoletani che lasciarono il paese lo fecero solo alla fine del 1860, ma furono emigranti particolari. Infatti si trattò di 1.000 militari duosiciliani, arruolati dall’esercito confederato, che andarono a combattere nella guerra civile americana. Nei primi mesi del 1861 se ne aggiunsero altri 800 e così complessivamente divennero 1.800. Ne sopravvissero diversi e al termine del conflitto divennero cittadini degli Stati Uniti, dove si stabilirono, e oggi possiamo considerarli come una piccola avanguardia dell’enorme massa di Meridionali, che si riversarono nel Nord America a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento.

Per fronteggiare la miseria Carlo III decise anche di costruire due edifici, uno a Napoli e uno a Palermo, per accogliere i più disagiati delle principali città del suo regno. Il Real Albergo dei Poveri della capitale siciliana, progettato da Orazio Furetto, fu iniziato nel 1742 e venne inaugurato nel 1772, ma i lavori per il suo completamento, che avvenne ad opera di Venanzio Marvuglia e Nicolò Puglia, continuarono fino ai primi anni dell’Ottocento.

Il Real Albergo dei Poveri di Napoli fu progettato dall’architetto fiorentino Ferdinando Fuga e avrebbe dovuto accogliere 14.000 bisognosi. Iniziato nel 1751, alla morte del Fuga nel 1781 fu continuato da Mario Gioffredo, che dopo aver terminato la costruzione dell’acciaieria di Mongiana, era rientrato nella capitale. Alla morte del Gioffredo, avvenuta nel 1785, i lavori continuarono ancora, fino a quando nel 1803 l’architetto Francesco Maresca non diede una sistemazione definitiva alla parte del palazzo completata, pari ai 2/3 del progetto originario, che poteva accogliere 8.000 persone e nella quale l’attività era cominciata già da tempo. Con i suoi oltre 100.000 metri quadrati di superficie l’Albergo dei Poveri di Napoli, sia pure nella sua versione ridotta, era l’edificio di maggiori dimensioni mai realizzato fino a quel momento (ovviamente nell’epoca moderna, cioè dal Medio Evo in poi) e mantenne questo primato per più di un secolo fino ai primi anni del Novecento. Il palazzo voluto da Carlo III non fu solo un’opera grandiosa da un punto di vista architettonico, ma fu anche il frutto delle nuove idee che in quel periodo fermentavano nella cultura napoletana.

Lungo tutto il Seicento erano stati vivi gli effetti del Concilio di Trento, per cui si era diffusa la convinzione che la ricchezza fosse di ostacolo ad una sana vita religiosa e come conseguenza tra le classi agiate non erano pochi quelli che giungevano a praticare la carità in maniera ossessiva. Si tratta di un fenomeno che oggi è difficile da immaginare, ma all’epoca realmente in questo modo interi patrimoni venivano dilapidati, procurando, tra l’altro, gravi danni all’economia generale. Nella società del Settecento al concetto di carità si stava, invece, progressivamente sostituendo quello di solidarietà, certamente più maturo e più vicino a una visione moderna del cristianesimo. Nel dibattito importante fu la voce di Sant’Alfonso de’ Liguori, uno dei principali pensatori della Chiesa, e non solo, dell’epoca, il quale affermava che il criterio della ragionevolezza deve presiedere ad ogni azione dell’uomo e che anche il credente nelle sue attività a favore degli altri non può prescinderne. Per questo da chi è nelle condizioni di soccorrere i bisognosi è logico attendersi che si garantisca di poterlo fare il più a lungo possibile, mentre ridurre sul lastrico se stesso e la propria famiglia è irragionevole, oltre ad essere contrario ai principi religiosi, per i quali ognuno deve tutelare le persone affidate a lui dalla divina provvidenza. Il santo filosofo, però, ispirandosi all’operato del francese San Vincenzo de’ Paoli, riteneva anche che per rendere più efficace la propria azione, il benefattore deve cercare di mettere al più presto chi viene aiutato in condizione di provvedere da solo a se stesso. Il pensiero di Sant’Alfonso si inserisce nel contesto culturale napoletano dell’epoca, estremamente vivo, nel quale si sperimentavano concetti innovativi alla ricerca di una visione moderna della società. Ricordiamo che il grande religioso, nato nel 1696 e morto nel 1787, era contemporaneo di Gianbattista Vico e Pietro Giannone, vissuti il primo tra il 1668 e il 1744 e il secondo tra il 1676 e il 1748, ma ricordiamo anche come nel 1754 nella capitale delle Due Sicilie con la istituzione della cattedra di Commercio e Meccanica, affidata ad Antonio Genovesi, nasceva il primo insegnamento universitario di economia in Europa. In quegli stessi anni, inoltre, Mario Pagano produceva le sue opere principali e nel 1780 veniva anche pubblicato il primo libro de La scienza della legislazione, l’opera di Gaetano Filangieri che apriva la strada allo Stato contemporaneo, utilizzata come modello nella stesura della Costituzione degli Stati Uniti del 1887.

Il principio della solidarietà si diffuse, quindi, in tutta la società napoletana dell’epoca, compresa la Corte, e gli Alberghi dei Poveri di Napoli e Palermo ne sono la testimonianza. Quando Carlo III (peraltro convinto estimatore di Sant’Alfonso e suo protettore) decise di costruirli, infatti, stabilì che i bisognosi non vi dovevano semplicemente essere accolti e curati, ma era necessario anche insegnare loro un mestiere, perché poi potessero inserirsi nella società e provvedere autonomamente a se stessi.

Numerose, però, erano le strutture di assistenza anche negli altri territori dello Stato, nei quali (come ricorda lo storico Roberto Maria Selvaggi ne ‘Il tempo dei Borbone’, de Rosa editore, 1995) c’erano più di 300 tra ospizi, conservatori e orfanatrofi.

Quando si parla del Regno delle Due Sicilie, vengono ricordati sempre i suoi numerosi primati nel campo industriale e nel campo economico. Lo ha fatto anche lo storico e giornalista televisivo Alberto Angela, tra l’altro con giustificata ammirazione, nei pregevoli lavori, che ha realizzato su Napoli, sulla Reggia di Caserta e sulla seteria di San Leucio. Questi primati, però, non erano risultati estemporanei, ma erano il frutto di un sistema di strutture efficienti, nonché dell’impegno, a volte di anni, da parte di professionisti competenti. In altre parole, venivano raggiunti perché alle loro spalle c’era un complesso articolato di attività e di ricerca. E non poteva essere diversamente. Niente nasce dal nulla.

Enrico Fagnano

fonte

Il progresso industriale e finanziario nel Regno delle Due Sicilie (quarta parte) – L’identitario (lidentitario.com)

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