Alta Terra di Lavoro

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Pillole di Memorie per la storia de’ nostri tempi di Don Giacomo Margotti 

Posted by on Ago 16, 2024

Pillole di Memorie per la storia de’ nostri tempi di Don Giacomo Margotti 

Consigliamo agli amici e ai naviganti di prestare la dovuta attenzione al testo di Giacomo Margotti, di cui andiamo pubblicando alcune parti e che meriterebbe di esssere conosciuto nella sua interezza, in quanto – secondo il nostro modesto parere – esso costituisce, insieme al De Sivo, un vero e proprio pilastro per una rilettura del Risorgimento.

Tra le pagine del Margotti si riconosce, a volte in maniera impressionante, l’Italia dei nostri giorni: arruffonna, dominata dalle finanziarie e dai furbi di turno. Vi si ritrovano tutti i mali di cui si sparla da tempo vanamente, mali che vengono ipocritamente messi in relazione con una presunta borbonizzazione dell’Italia:

  • proliferazione degli incarichi
  • malversazioni
  • ruberie
  • arricchimenti facili
  • uso e abuso del pubblico denaro

UN DOCUMENTO SULLE FINANZE DEL REGNO D’ITALIA (Pubblicato il 25 febbraio 1863)

Il tesoro del regno d’Italia vive a forza di tratte su Parigi, anche a langa scadenza e talvolta per somme piccolissime. Cosi governava l’ex-ministro Sella, e così governa il ministro Minghetti. La Gazzetta Ufficiato e l’Opinione negarono,ma il Diritto del 24 di febbraio pubblica una di queste cambiali che sta nelle mani d’un banchiere di Milano. Ecco il preziosissimo documento nella sua vera forma.

(1) Minghetti ha detto spaventosa, ma poi ha fatto ristampare grave.

Riferito questo documento il Diritto soggiunge: «Vogliamo credere che l’Opinione arrossirà, come abbiamo arrossito poi, quantunque non amici degli uomini che con tanta dignità e sapienza ci governano, vedendo che il Tesoro italiano vive emettendo cambiali per somme meschine a quattro mesi di data, come non osano fare negozianti, i quali sono gelosi del credito loro, cambiali poi, le quali, rilasciate, come accadde di quella or da noi riprodotta, a cose rispettabilissime sì, ma non di primissimo ordine, non possono sottrarsi a tutti gl’inconvenienti della libera circolazione, quello compreso di capitare sotto gli occhiali indiscreti di chi scrive il Diritto. Pongasi poi speciale avvertenza ali. data della tratta da noi superiormente trascritta.

«Questo curioso documento, che non ha i requisiti voluti dalla legge par essere un buono del tesoro, che ha esplicitamente il nome di lettera di cambio, e che sostituisce le parole a favore alle parole all’ordine indispensabili nei titoli cambiarii, ha la data del 23 gennaio. Veniva cioè creato né più, ne meno che tre soli giorni dopo che la Gazzetta Ufficiale aveva assicurato che il ministro Minghetti aveva troncato un somigliante sistema. Pare dunque che il signor ministro o non abbia saputo tutto, od abbia creduto che bastasse impedire l’abuso, che facevasi della firma del ministro Nigra, Comunque sia, è certo, e l’Opinione non ce lo vorrà sicuramente negare, che anche il sistema, contro il quale qui protestiamo, à sommamente biasimevola e indegno della nostra dignità nazionale, di cui il governo, trattandoci di uno Stato nuovo, dovrebbe essere geloso fin anche allo scrupolo, fin anche all’esagerazione. Ed ò invece a chi cammina con tanta leggerezza ed opera con tanta sconvenienza, che si dovrebbero dare di fresco settecento milioni!».

SALVE LUCRO!

(Pubblicato il 6 marzo 1863).

Carlo di Montalembert pubblicava testé nel Correspondant del 25 di febbraio alcune pagine sull’insurrezione polacca, e le conchiudeva manifestando il timore che coloro, i quali disotterreranno dalle rovine della storia i fatti e le gesta de1 tempi nostri, abbiano a giudicarci come quel vile romano, di cui scoprivasi l’anno passato a Pompei la casa sepolta sotto la cenere del Vesuvio. Egli aveva scritto sulla sua soglia queste parole d’una vergognosa eloquenza: Salve lucro, parole che si possono tradurre: Viva il guadagno? Petronio avea già apposto la stessa iscrizione su tutto l’edifizio di Roma pagana, cantando nella sua satira CXIX: Vsnalis populus, venalis curia Patrum.

Il conte di Montalembert parlò di Francia, e noi parleremo d’Italia, dove nacque e dove fu scoperto il salve lucro! Sgraziatamente è questo il più sincero programma politico. L’amor di patria si riduce al guadagno, l’indipendenza al danaro, e l’italianismo alla borsa. Non si cerca di rigenerare il popolo, ma di ingrassare a suo danno; non di onorare il proprio paese, ma di beccarsi uno stipendio; e coll’indipendenza in sulle labbra si piega il collo alla pili ignominiosa schiavitù, quando torna vantaggioso al proprio interesse.

Il turpe lucrum, che fulminava San Paolo, ha invaso ornai tutte le classi. Mancano i deputati nella Camera? E Crispi parla subito d’indennità. Si vogliono sacerdoti liberali? E si dice: pagateli. Si cercano avvocati e difensori? E mettono mano al tesoro. L’oro fa miracoli, esclamò già il conte Ponza di San Martino, quando era ministro dell’interno; e gl’imputati del furto Parodi vennero colti su di un bastimento chiamato Amor di Patria. Essi avevano preso il danaro per andare a Roma e liberarla, come dice la lettera che fu letta ne’ dibattimenti del 2 di marzo, Liberar Roma col danaro, ecco un disegno tutto proprio de’ tempi nostri. Due anni fa volevasi comprar la Venezia; oggi si comprerebbe Roma, se volesse vendersi.

Oh quanti potrebbero scrivere sulla soglia della propria casa l’eloquente epigrafe di Pompei! Voi che ieri eravate un morto di fame, ed ora gavazzate nel. l’oro e nell’argento, e vi vedete intorno i cortigiani umili ed obbedienti inchinarvi ed applaudirvi, fate incidere sul frontone del vostro castello salve lucro. Non viva la libertà, non viva l’Italia, ma viva il guadagno! Poco v’importa adesso che si tiranneggi e si fucili, che le carceri sieno stipate d’innocenti, che il popolo gema sotto una verga di ferro, povero, derelitto, angariato. Siete diventato un gran riccone e basta: salve lucro!

E voi, o frate, voi che ieri peroravate pel dominio temporale del Papa, dicendolo non che utile alla Chiesa, necessario alla sua indipendenza, ed oggi bestemmiale Roma e il suo Pontefice, fate stampare per epigrafe sul vostro giornale: salve lucro. Come Giuda abbandonaste Cristo pei danari della Sinagoga, e sappiamo che ne avete ricevuto ben più di trenta! Appena Pio IX fu povero, e voi fuggiste dalle sponde del Tevere e veniste su quelle della Dora gridando: mercabimur et lucrum faciemus. Mercanteggeremo la nostra coscienza, venderemo l’anima nostra e faremo largo guadagno. Salve lucro!

E voi o ministri, voi che già prestaste giuramento a Pio IX ed a Francesco II, ed ora godete dell’esilio dell’uno, e cercate di spogliare l’altro anche della sua Roma, scrivete voi pure sul vostro portafoglio: salve lucro! Se domani Francesco II ritornasse ad essere potente, e Pio IX, riavuto il suo, divenisse ricco e potesse largheggiare in retribuzioni, voi mutereste nuovamente registro, infingendovi con brutta ipocrisia come nel 1848. Salve lucro!

Queste parole compendiano certe circolari, certi indirizzi, e certe risposte agl’indirizzi medesimi. Vedete là colui che tenta ghermire una cappa canonicale? Ebbene una volta egli difendeva i diritti della Chiesa, e combatteva le usurpazioni del potere civile, ma oggi all’amor del guadagno ha sacrificato le convinzioni antiche, gli affetti del cuore, i doveri del ministero, e tortora il proprio superiore, e incoraggia i nemici del Pontefice, e applaude i giuseppisti, i febronianisti, i leopoldinisti, perché spera d’avere un canonicato. Salve lucro! E quel Monsignore, tutto azzimato e cascante di vezzi che viene in Torino, e va a picchiare alla porta di Pisanelli, e gli fa le più sperticate riverenze, sapete che cosa porta scritto nel cuore? Ci ha scritto il Salve lucro del pagano di Pompei. Ah! farebbero bene costoro a ricordare il detto di S. Paolo a Timoteo: Non turpe lucrum sectantes. E qual guadagno più turpe di quello che si fa a spese della Chiesa, a danno del sacerdozio, ed in onta al Vicario di Gesù Cristo?

Un giornale di Torino disse, celiando, di fare il barone Rotschild Re d’Italia! Se il gran banchiere pigliasse la corona, vedreste tutti i repubblicani divenire immediatamente monarchici. Anche Mazzini conosce il Salve lucro. Coloro che questo tempo chiameranno antico scopriranno la vergognosa iscrizione, sotto cento disegni repubblicani, sotto mille progetti di leggi, sulla soglia di molte assemblee, di molte radunanze, in fondo a molte votazioni, a molti discorsi, a molte leghe. Negli scavi che faranno i nostri nepoti troveranno trattati colla leggenda: Salve lucro; note diplomatiche coll’epigrafe: Salve lucro; Gabinetti e Camere coll’iscrizione: Salve lucro.

Però per l’onore d’Italia, e dell’umana dignità, vi hanno ancora uomini che sdegnando il brutto interesse, vivono per Cristo, e reputano un gran guadagno il morire per lui. Mihi vivere Christus est, et mori lucrum, ripetono con San Paolo tanti vescovi generosi, che gemono in prigione, ed amano meglio perdere i beni, la libertà, la patria, che inchinarsi ai potenti. Il mondo non li apprezza, perché non li conosce, ma essi sono i veri liberali, e non solo glorificano la Chiesa, sì ancora rendono un segnalato servizio alla patria, e in mezzo alla comune servilità danno esempio di nobile resistenza, e di sublime costanza.

ALTRO DOCUMENTO SULLE FINANZE ITALIANE

(Pubblicato il 7 marzo 1863).

La relazione sulle finanze italiane fatta dal marchese dell’isle al ministro delle finanze francesi è un documento assai prezioso per la storia del governo rivoluzionario italiano. L’autenticità di questo documento non solo non è messa in dubbio, ma è confermata da ciò che i giornali officiosi del governo di Francia dissero, che la pubblicazione del medesimo fu un’imprudenza, e che si era ordinata un’inchiesta per conoscere l’autore di siffatta imprudenza. 1 lettori scorrendo questa relazione conosceranno quanto siano vere le parole del deputato Mugolino, parlando delle esposizioni finanziarie dei nostri ministri: e Io dichiaro francamente, che tutte le volte che ascolto fare delle esposizioni finanziarie, credo di essere sotto l’azione di una lanterna magica (Ilarità)) giacché sono tante e tali le magnifiche previsioni che ci si fanno e che vengono poi seguite dai più dolorosi disinganui; è tanta e tale la mobilita cabalistica delle cifre, che in verità tutti dobbiamo ritenerci come assistenti alle fantasmagorie di una camera ottica (Bravo a sinistra. Ilarità)» (Tornata della Camera dei 27 di febbraio, Atti Ufficiali, N° 1048, pag 1076, col. 2.). Ecco il documento:

Al signor Fould ministro delle finanze a Parigi.

Torino, 5 gennaio 1863.

Dall’assieme dei documenti ufficiali, che con Nota di ieri ebbi l’onore di presentarvi, risulta che l’Italia, secondo i di lei stessi calcoli, si troverà alla fine dell’esercizio corrente in faccia ad un disavanzo di circa 800 milioni di franchi, e che le spese del 1862 non furono meno di 900 milioni.

Valutandosi le entrate effettive di 325 milioni, la spese del solo ministero delle finanze elevandosi a 375 milioni, risulta che non restano che 450 milioni per far fronte a tutti gli altri servigi dello Stato.

Queste cifre potrebbero anche essere discusse; ma io, per eccesso d’imparzialità, le ho accettate come vere, riserbandosi, ben inteso, di rettificar quelle che fossero manifestamente false.

L’Italia, non potendosi consentire un lusso di politica non permesso dal ano stato di finanze, bisognerebbe che cangiasse radicalmente il sistema, a fine di prevenire le cattive conseguenze. Ma siccome essa non farà ciò, bisogna che noi, al presente, cerchiamo di tutelare i nostri interessi, già troppo compromessi con quelli di essa.

Il signor De Sartiges, conforme alle istruzioni particolari di V. E., ha invitato il governo italiano a riorganizzare la sua amministrazione finanziaria, cercando di far produrre alle tasse il più che è possibile, e col ridurre la sua armata e la sua marina in modo da ottenere presso a poco un equilibrio fra i bilanci.

Riguardo al primo punto fu data una risposta piena di promesse quanto al secondo la risposta fu assolutamente negativa.

Si accetta, a parola, che varii abili funzionarii sieno staccati dai diversi nostri uffizi per affidare colà alla riorganizzazione finanziaria; ma, in fatto, è sicuro che non si approfitterà dell’offerta di V. E.

Qui si cerca convincersi, che gl’impiegati italiani sono d’assai superiori ai nostri.

D’altra parte non è tanto necessario invitare il governo a questa riorganizzazione, di cui egli stesso sente tutta l’importanza. L’unità di reggiate è stata praticata in tutto ciò che si poteva. Esso ha la buona volontà di accrescere le imposte esistenti e di crearne delle nuove; ma ciò che il Parlamento accetta, spesso senza marcanteggiare lo rifiutano le popolazioni rurali senza recriminazioni. Elleno si contentano di non pagare e il governo debbe sottostare e questa silenziosa opposizione, perché esso è convinto che se insistesse troppo, la loro apatia politica si converrebbe tosto in ostilità.

D’altra parte che può esigersi da una popolazione, il cui salario giornaliero varia da 60 a 40 e anche a 35 centesimi, come avviene di fatto in alcune località del regno di Napoli?

Ciò potrà col tempo cangiare, ma gli uomini più illuminati, mentre fanno voti per il futuro accrescimento della ricchezza pubblica, son di parere che per molto tempo non è sperabile un notevole aumento di rendita.

La situazione può compendiarsi in due parole: Impossibilità di accrescere al presente le rendite — Nessuna economia — Continuazione ad oltranza di una politica che menerà diritto alla rovina.

La catastrofe è facile a prevedersi. Ella potrà essere ritardata e da imprestiti e da altre combinazioni di una moralità per lo meno dubbia, quali del resto non sembrano spaventare questa gente qui, dappoiché il Sella preoccupandosi di levare 55 milioni dalla imposta sulla rendita, si studiava più ancora di trovarvi delle basi per imprestiti forzati in avvenire.

Speriamo che Minghetti, meno capace, sarà più scrupoloso. Quali sono d’altra parte i mezzi d’evitare gl’imprestiti?

All’infuori dell’esaurita emissione dei beni del tesoro, altro non rimane che la vendita delle strade ferrale dello Stato, dalla quale si spera ricavare un 150 milioni, e la vendita dei beni nazionali, la cui rendita è valutata 12 1|2 milioni.

Ciò sopperirà appena alle spese del 1862.

Si parla anche di vendere i beni della Cassa Ecclesiastica, quelli di mani-morte e dei Comuni.

Ma se la vendita dei beni nazionali va tutta a vantaggio dell’erario, non avverrà altrettanto della vendita di questi ultimi.

Essa non potrà farsi che a titolo oneroso, vale a dire, coll’assegnare ai possessori di questi beni altre rendite.

Così si aggraverà l’avvenire a vantaggio del presente, e la catastrofe anzi che ritardarsi si farà più spaventosa.

E quali sarebbero d’altronde le società di credito fondiario sì azzardose da affrontare una simile intrapresa? L’esempio della Spagna e del Portogallo non è egli recente per farci intravedere i resultati probabili di una simile operazione?

Comunque, sia buona o cattiva, questa combinazione, renderà necessario un avanzo considerevole di fondi; ed è sulla piazza di Parigi, dove direttamente o indirettamente si conta procurarseli.

Si parla tuttodì di formar quadri, di prepararsi contro l’Austria, di creare una potente marina, e si dice sotto voce che l’Italia coi suoi 400 mila soldati potrà imporsi come mediatrice armata, se non come arbitra, alla prima rottura fra le grandi Potenze. Questi sono sogni di cervelli malati; ma le folli idee possono condurre a folli azioni, e le allucinazioni malsane sono meno a temersi altrove che qua, ove le popolazioni hanno del buon senso, ma allo stesso tempo una profonda indifferenza per tutto ciò che non tocca palesemente i loro interessi materiali.

Sarebbe una temerità, signor ministro, voler segnalare l’avvenire di una tale situazione; pure permettetemi dirvene qualche cosa.

Avanti le annessioni i fondi del regno di Napoli erano talmente elevati, che non venivano punto cercati dai piccoli capitalisti francesi. I fondi piemontesi, emessi in saggie proporzioni, avevano ugualmente una ristretta circolazione. Ma, a partire specialmente dall’imprestito Bastogi, i fondi italiani furono tanto ricercati in Francia, a ragione del loro basso prezzo, che non dubito dire che 8|10 almeno di questo prestito sono tra le mani dei nostri nazionali.

Il prezzo delle partite indica abbastanza in quali mani esse si trovino collocate.

Se la situazione deve riuscire infallibilmente ad una liquidazione disastrosa, che noi non possiamo prevenire, procuriamo almeno che non ricada tutta intiera a nostro carico. I grossi capitalisti sanno difendersi; ma non avviene lo stesso dei piccoli, dei quali lo Stato ha la tutela, e converrebbe, io credo, come provvedimento efficace che il governo dell’Imperatore chiudesse i mercati francesi a tutti i valori italiani tanto delle sue compagnie di strade ferrate, quanto delle sue compagnie fondiarie e dei suoi imprestiti, di cui uno, checché ne dica il signor Minghetti, mi pare imminente.

Vogliate aggredire, ecc.

E. DE L’ISLE

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/margotti_documenti_finanze_lucro.html

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