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CRONACA CONTEMPORANEA-Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. X. 13 Aprile 1861 (pag. 236-243)

Posted by on Set 26, 2024

CRONACA CONTEMPORANEA-Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. X. 13 Aprile 1861 (pag. 236-243)

Roma 13 Aprile 1861.

Regno delle Due Sicilie — 1. Il sig. Vacca vuol provare che non vi furono traditori — 2. Come pagato il tradimento del Generale Landi — 3. Documento solenne della compera e vendita di Generali ed ufficiali napolitani — 4. Fasti dei ladri e pubbliche dilapidazioni — 5. Nomina di nuovi Segretarii generali — 6. Stato della Sicilia — 7. Amori del Murat pel regno di Napoli, sua lettera, e nota comunicata del Governo francese. — 8. Protesta di Religiosi siciliani.

1.    Tra i nuovi Senatori che il Re di Piemonte ha chiamato dalle varie parti della penisola per rappresentare a Torino l’Italia, v’è un cotale signor Vacca, napolitano; il quale, tenerissimo delle glorie patrie, si sdegnò che nel Parlamento francese si fosse recato il trionfo della rivoluzione italiana e la conquista del regno di Napoli a cagioni men che onorate e splendide. Si levò pertanto a difendere «i diritti della verità, i diritti della storia» e, disse: «Si è tentato di rimpiccolire e di ridurre alle misere proporzioni di un complotto un fatto immenso, il quale vi esprime la riscossa di tutto un popolo contro un cumulo di antiche ingiustizie, di antichi oltraggi, di lunghi dolori: si è parlato di tradimento infiltrato nei ranghi dell’esercito, tra i Consiglieri della Corona, sui gradini del trono, perfino nei penetrali dei domestici lari. Ma non fu il tradimento, o Signori: fu il tedio universale, fu l’abbandono di tutti che fece il vuoto intorno ad un trono, ove non si era assisa mai la virtù e la lealtà, ma sempre in tradimento, lo spergiuro, la rotta fede.» Non sarebbe stata grande indiscrezione il pretendere che dalla bocca del Vacca uscissero parole men disoneste e men calunniose contro il proprio sovrano: ma si poteva almeno sperare che quanto egli ha spigliata la lingua alle ingiurie, tanto avesse almeno anche fresca la memoria dei fatti de’ suoi complici: ed è al tutto incredibile che egli avesse dimentico persi no il nome di quel Pianelli, di quel Nunziante, di quel Liborio Romano, di quei cento altri cotali, che saranno conservati in perpetuo all’esecrazione dei posteri. Il Vacca risolutamente negò i complotti. Ed ecco che i traditori in persona vengono fuora a dargli solenne smentita, rivendicando, non la gloria, mail prezzo del fatto loro. Per chiarire meglio la cosa, si ricordino i nostri lettori della commedia rappresentata dal Maggio al Settembre dello scorso anno, fra il Cavour e il Garibaldi, per tacere dei comici di primo ordine che stavano dietro le scene. Il Cavour fingeva di avversare e di voler ad ogni patto impedire le imprese del Garibaldi; e questi, mostrandosi sdegnato dei contrasti del Cavour, giurava d’essere pronto a dirizzare la spada contro chiunque, fosse pure la Francia, che osasse opporsi alle sue conquiste per guidare le sue camicie rosse a Roma ed a Venezia. Or bene: si trovarono e furono comprati traditori per l’una e per l’altra parte, pel Garibaldi e pel Cavour. Le prove sono a innegabile evidenza.

2.    Chi non ricorda i primi scontri dei Regii coi Garibaldini in Sicilia? Chi non rammenta i canti di trionfo con cui fu celebrata la vitoria di Garibaldi per avere con un pugno de’ suoi superata la resistenza

Regia alle strette d’Alcamo e di Calata Bini? I Regii erano comandati dal Generale Landi, che tenne prudentemente il grosso de’ suoi indietro, ed oppose al Garibaldi qualche compagnia di cacciatori. Questi si batterono valorosamente, ma erano due contro dieci, e dovettero cedere. Non è ben chiaro quali altre simili imprese compiesse il Landi per difesa del suo sovrano; ma poco appresso egli sparve dalla scena, e non si sarebbe più. parlato di lui, se infine la giustizia di Dio non l’avesse colto in modo maraviglioso. Or fanno poche settimane, un famiglio si presentò al Banco pubblico per riscuoterne il pagamento di cartelle del valore di circa sedici mila ducati. Si rifiutò di pagare somma così rilevante ad un famiglio, che confessava quella non essere roba sua. Dovette presentarsi il padrone; era il Generale Landi. Fu richiesto di dire onde le avesse ricevute; egli ricusò sdegnosamente. Allora gli fu significato, che dunque egli sarebbe sostenuto prigione, perché le cartelle erano false. Per fuggire al carcere ed alla pena di falsario, il misero dovette allora confessare che quelle scritte di banco egli avea ricevuto dal Garibaldi, in rimunerazione de’ suoi servigi. Poco appresso, trafitto d’onta e di cordoglio, l’infelice si morì. Il Garibaldi avea pagato degnamente il traditore. Questo fatto è pubblico, e tutti i diarii ne raccontarono i più minuti particolari, nè il Vacca può ignorarlo. Ma forse per lui la parola tradimento suona tutt’altro che il vendere, a prezzo, l’onore e il dovere e la giurata fedeltà; perciò ebbe negato che vi fossero traditori.

3. Ma troppo più rilevante è la dimostrazione che dei complotti e del tradimento si ha da un Reclamo al parlamento italiano, per i decreti emanati dal Ministero di guerra, circa la fusione dell’esercito piemontese col napolitano. Si avverta bene che questo documento non fu divulgato per isbaglio, non fu carpito alla bonarietà di qualche semplicione; ma pubblicato sopra molti giornali e poi ristampato dal Nomade di Napoli del 27 Marzo, il quale dichiarò che con questo egli non faceva altro che «cedere alle premure di onorevoli e distinti uffiziali napoletani.» Da «mesto documento si ricava:

1.° Che mentre il Conte di Cavour accettava di trattare d’intima alleanza tra il Re di Napoli e il Re di Piemonte, faceva, per mezzo de’ suoi ambasciatori e generali, corrompere, sedurre, pagare con denaro e promesse di gradi, i generali e gli ufficiali napoletani.

2.° Che il Nunziante, nel tempo stesso in cui si atteggiava come paladino del suo Re, di sottomano preparava una insurrezione militare per buttarlo giù dal trono, e spalancarne la reggia al Be di Piemonte.

3.° Che questi disegni andarono falliti per la fedeltà delle truppe, cioè dei soldati.

4.° Che sono enormi falsità la spontanea dedizione dei popoli e l’entusiasmo delle milizie pel Garibaldi e per Vittorio Emmanuele; e che fu solenne impostura il famoso plebiscito, unico titolo sopra cui il machiavellismo della rivoluzione abbia fondate le sue pretensioni. Noi riferiamo qui codesto documento, tralasciandone solo, per necessaria brevità, quei tratti in cui s’entra a discorrere di punti speciali riguardanti la nuova organizzazione dello sciolto esercito napolitano, e le controversie perciò insorte fra i Ministri Garibaldini ed i Ministri Cavouriani.

«Fin dal mese di Maggio del 1860, e dal momento che il generale Garibaldi discese in Sicilia, si stabili nell’esercito napolitano un forti partito di uffiziali tendente a favorire la riuscita dell’impresa, per facilitare la tanto desiderata espulsione de’ Borboni ed il conseguimento della unità Italiana, da cui ai aspettavano non poco sollievo, essendo su di essi che erasi concentrata l’ira Borbonica, dopo il decreto col quale si accordavano ai Napolitani ampie concessioni. Varii di questi uffiziali presero parte nei comitati stabilitisi nel Regno ed alcuni specialmente appartennero al Comitato riunito segretamente in Napoli dal Ministro sardo, presieduto dal generale Nunziante, ed assistito dall’Ammiraglio Persano e dall’altro generale piemontese Ignazio Ribottii. Lo scopo di tal Comitato era d i indurre la truppa napolitana, o parte di essa, ad insorgere, per costringete Francesco II a partire prima che Garibaldi fosse riuscito di entrare in Napoli. Fallito un tale disegno, per essere quella truppa interamente devota al Re, si tentò invece ai gettarvi quei semi sì possenti della seduzione, dopo i quali tante diserzioni si videro e tante scissure fra i capi, di cui neppure uno ebbe l’animo di svelare il vero al Re, e sì che ce n’erano tanti i quali non ignoravano la mina scavata ai piedi del trono! In questo mentre, entrato come per incanto Garibaldi in Napoli, in seguito della inaspettata partenza del Re, gl’indicati uffiziali, fedeli allo assunto impegno, ritennero per intiero il Reggimento di cui essi facevano parte (43° cacciatori) ed il presentarono al Dittatore. Un ordine però di lui sciolse il corpo, ed ecco che andarono a vuoto tante fatiche e pericoli durati. Il Dittatore però volendo mostrarsi riconoscente non solo verso i nominati officiali, ma ancora verso di quegli altri, i quali, anziché seguire il dispotismo, si erano restati per gittarsi nella rivoluzione, ordinò che si riorganizzasse l’esercito Regolare, riunendo tutti gli elementi buoni della rimasta frazione dell’esercito Borbonico. Ecco come si principiò un tal lavoro dal Ministero Cosenz, ed ecco perché buon numero di ufficiati rimasti ottennero regolarmente la promozione».

Ma sopraggiunsero i governanti piemontesi, che disfecero tutto il fatto da Garibaldi, e sciolsero le truppe organate da codesti traditori; i quali ne levarono alte querele contro il ministero piemontese. «Sapete voi come ha trattato l’elemento militare patriottico? Sapete voi quale sia stata la retribuzione a tante fatiche? Esso lo ha confuso co’ prigionieri Borbonici, e comprendendolo in uno stesso scrutinio, sarà una parie degradata, e la rimaneste collocata in riposo o alle classi, senta badare nè all’età né ai servigi prestati.» II che vuoi dire che il Cavour, avendo sceverati i vigliacchi e i traditori da quelli che hanno sensi di fedeltà e di onor militare, preferisce questi a quelli. Chi gli potrebbe dar torto? La lezione è dura, ma ben meritata. Giuda non si dolse che i trenta denari fosser pachi.

Delusi delle loro speranze cotestoro che avevano venduta al Garibaldi la fede giurata al loro Re, insistettero con loro richiami presso il Ministero piemontese; il quale rispose loro come segue.

«1.° Che in Napoli non essendoci esercito, il Piemonte non aveva mai inteso di unire il suo ai residui di questo, ma bensì d’ingrandire il primo; e che per conseguenza chi degli uffiziali napoletani voleva aver l’onore di entrar in quell’esercito, doveva assoggettarsi a tutte le condizioni che loro sarebbe piaciuto imporre.

2.° Che il generale Garibaldi non avendo avuto nessun potere dal Re, e che il potere conferitogli dal popolo non potendo essere riconosciuto valido, si consideravano come nulli i decreti emanati durante la Dittatura.

3.° Che l’esercito Piemontese aveva col fatto conquistato il regno di Napoli, poiché se esso non giungeva a tempo, a quest’ora Francesco II sarebbe in Napoli, e Garibaldi forse preso e giustiziato: e che por conseguenza il plebiscito non era stato altro che una urgente necessità.

4.° Finalmente che dovendo scagliere par l’esercito, reputava più degni di lode gli uffiziali di Capua e Gaeta, che quelli rimasti in Napoli, i quali infine avevano mancato al loro giuramento e, sotto il mantello di patriottismo, si erano limasti lontani dal pericoli e dal teatro della guerra».

Cotali risposte, ottimo pel valore che hanno a chiarire i fatti sotto l’aspetta storico, sono pure tali che avrebbero dovute indurre i traditori a seppellirsi nel loro obbrobrio, se avessero ancora serbato senso di onore e di probità. Ma essi al contrario, irritati, credettero di doverle ribaltare e il fecero per modo da suggellare la propria infamia, e svelare nuove perfidie della rivoluzione, e l’indole vera dell’unione che regna fra codesti paladini dell’unità italiana. Ecco le loro repliche. «Da tali parole chiaro apparisce il carattere municipalista piemontese e la mania sfrenata d’ingrandirsi a spese altrui. Però a sì superbe osservazioni è buon ed è utile il minutamente rispondere, affinché i nostri ottimi e leali concittadini possano farsi una idea chiara della posizione in parola. In primo luogo, è vero che la maggior parte dell’esercito Napolitano aveva seguito il Re: ma non è men vero che in Napoli ve n’era rimasta una piccola parte, specialmente quella sparsa nei stabilimenti di artiglieria e genio, dei cui lavori si è servito non»scio l’esercito dei volontari, ma anche quello dei Piemontesi nell’assedio di Gaeta. Di più, del personale di questa frazione se n’erano di già organizzati tre reggimenti di fanteria, 6 battaglioni di bersaglieri, un reggimento di cavalleria ed un buon numero di carabinieri; e però se il Ministero, in luogo di sciogliere (che non ne avea il dritto) ne avesse facilitato e corretto il completamento, sarebbero essi già belli e pronti ad entrare nell’esercito italiano.

2.° Se si nega che Garibaldi agiva in virtù di ampie facoltà conoessegli dal Re Vittorio Emmanuele, bisognava che il ministro sig. Villamarina avesse protestato contro un sì enorme abuso: questo però non solo non si fece, ma il Marchese stesso incoraggiava gli individui a lavorare; e si beava della ovazioni e dimostrazioni che gli faceva la popolazione. Il disconoscere poi la Dittatura conferitagli, dal popolo Napoletano, è lo stesso che disconoscere il potere col quale lo stesso popolo ha eletto Vittorio Emmauele; e però una tale ragione non è né politica né generosa;

3.° II volere ammettere il plebiscito come una urgente necessità, non sola è falso, ma è una enorme indegnità: i Napoletani in quell’epoca erano talmente esaltali dalle vittorie di Garibaldi e dai lavori eseguiti al Campo, che poco temevano Francesco; e solo l’indussero ad accettare il plebiscito, gli emissarii piemontesi, e la presenta di Mazzini, in Napoli. In quanto poi alla caduta di Capua, non si dove attribuire la tardanza al troppo amore patriottico del generale Garibaldi, il anale non avea mai voluto adoperare la bomba, tanto per non nuocere agl’infelici ed innocenti abitanti che pure erano Italiani, quanto per non trasmettere al novello Re lo stesso, odioso soprannome, col quale la posterità ha onorata la memoria, di Ferdinando II. Al quarto articolo poi, non solo non si risponde, ma ancora si suppone come non esistesse, dappoiché urta tanto, il buon senso della politica, da far risaltar troppo chiaramente il progetto della ufficialità piemontese di escludere quasi tutti gli ufficiali napolitani per covrire essi soli le numerose piazze che andranno a risultare nella organizzazione dell’esercito Italiano ».

Non condanneremo i nostri lettori a leggere la filippica con cui è fatta la perorazione; e ci basterà accennare che l’argomento di essa più caldo si riduce a dire: «Se Francesco II avesse vinto, voi piemontesi ci avreste abbandonati alla nostra sorte, e noi saremmo stati condannati alla morte o alla miseria; dunque non fummo vili quando per servire a voi ci esponemmo a tali pericoli.» II quale argomento si può con egual diritto incalzare da ogni ladrone che, per obbedire agli ordini del cap0 masnadiere, siasi postò a cimento di perire di capestro.

Dopo ciò lasciamo a chi ha fior dì senno il decidere se v’ebbe traditori, a qual cagione si debba l’unione del regno delle Due Sicilie al Piemonte, e la natura del diritto che si può vantare dal Re di Sardegna alla corona così conquistatagli dal Garibaldi e dalle bombe del Cialdini, come dai potentissimi uffizi dei suoi diplomatici ed alleati.

4. Mentre i felloni si dolgono a essere rimasti colle mani vuote invece della ricca preda che si ripromettevano dal loro tradimento, i napoletani d’ogni fazione e d’ogni ordine civile non sanno darsi pace d’essere abbandonati alla discrezione dei ladri. Il Popolo d’Italia del 27 Marzo grida: «Qui si vuole sicurezza della vita e delle sostanze (altro che la libertà politica!) giacché siam ridotti ai più semplici primordii della vita civile. Non si sa forse a Torino che le province sono in completo disordine? che a Napoli il pane è caro perché dalle ubertose province non havvi una strada sicura che nella capitale traduca il grano?… L’Italia meridionale è boccheggiante. Andiamo sempre di male in peggio. Aumenta il caro dei viveri; scarseggia il numerario per modo troppo manifesto, di tal che pare che mani ingorde e rapaci ci sottraggano ogni giorno di soppiatto l’oro nostro e l’argento, lasciandoci appena il rame. Non si agitano affari di sorta né presso i tribunali, né nella borsa. Nulla è da per ogni dove il commercio. Quest’oggi grossi cartelloni avvisavano il pubblico, esser giunta la farina dall’America, e vendersi a prezzi ribassati. Ma, Dio di misericordia! dobbiamo noi aspettare la farina d’America per cibarci di un pò di pane?» Se avrete da aspettare la farina d’America, avrete anche agio di ricordarvi la favola d’Esopo, di certe rane cioè incontentabili, ed alle quali la soverchia bontà del Re valse di titolo a disfarsene.    .

Il Movimento ha una sua corrispondenza da Napoli che ragiona così: «Noi    siamo alla lettera coperti di ladri; qui bisogna come in Costantinopoli, appena comincia ad imbrunire, unirci a brigate per difenderci dai mariuoli. Le province sono infestate dai malfattori, le pubbliche rendite servono a nutrirli. Non dico le immoralità che si commettono ne’ pubblici offici. Ora si aggiungano gli abusi de’ consiglieri. E poi si domanda dove sieno andati i milioni dello Stato. Un di costoro ebbe per indennità due. 72,000, un’altro ne ebbe 65,000, un’ altro si prendeva due. 11,000 al mese e si facea rimborsare lir. 800,000 per spese di viaggio. «La Nazione di Firenze del 26 ha sopra ciò una corrispondenza da Napoli, che conferma le stesse dilapidazioni, e si citano i nomi, tanto che il Governo è stato costretto a procedere ad inchieste e ripete: «In Napoli il furto amministrativo é organizzato completamente su vasta scala, cominciando dall’ultimo impiegato sino a colui che sta in cima.» Si legge nell’Omnibus: «Sono tante le offese, le ferite, le aggressioni, e sino le uccisioni qua e là, che noi dobbiamo altamente protestare contro la pubblica non curanza verso la sicurezza dei cittadini.. Noi non siamo gente allarmante, ma la stilettata a questo, il colpo di pistola a quello, i cittadini qua e là spogliati, i magazzini di notte scassinati ed altri simili guasti, ci fanno invocare una severissima vigilanza». Va su per tutti i giornali una lista ufficiale, pubblicata in prima dalla Gazette de France, per circa 85 milioni di franchi, che erano nel tesoro di Napoli all’arrivo di Garibaldi, e che furono sperperati in modo barbarico, in pochi mesi. L’esercito meridionale, ossia le bande di garibaldini e di cialtroni napolitani, costarono fr. 46,066,500; le truppe regolari piemontesi, fr. 13,700,000; la marina fr. 418,500. La dittatura si prese, a titolo di compera d’armi, fr. 8,568,000; la Polizia (composta in parte dei famosi galeotti sciolti dal Liborio Romano e dai Camorristi) fr. 46,350; la Segreteria della Dittatura, sotto nome di spese urgenti ecc. fr. 8,314,500; le spese poi di festeggiamenti al Re di Piemonte si mettono innanzi per fr. 8,568,000. Quindi s’intende come mai sotto il Governo legittimo di Casa Bortone non si parlasse di crescere le imposte, ed ora si vede inevitabile il caricare sovr’èsse la mano; e perché i fondi pubblici, che prima si quotavano fino a 120, ora scendano tino al 70. Uno di coloro, sopra cui potea cadere l’obbligo di dar ragione di tali scialacqui, si presentò al giornalista che li avea denunziati al pubblico, e con un revolver alla mano lo persuase a pubblicare che poteva essersi sbagliato!

5.Un decreto del Re di Piemonte; sotto il 29 Marzo, pubblicato anche nel Monitore Toscano del 3 Aprile, diede nuovo ordine all’amministrazione centrale delle province napolitane presso la Luogotenenza, dividendola ne’ quattro seguenti dicasteri: 1.° Interno e Polizia; 2.° Grazia e Giustizia ed affari ecclesiastici; 3.° Istruzione pubblica, Agricoltura e Commercio; 4.° Lavori pubblici e Finanze. A ciascuno di questi dicasteri fu proposto un Segretario Generale dipendente dal rispettivo Ministero; e i scelti a tanto onore furono pel 1.° Silvio Spaventa; pel 2.° il prof. Stanislao Mancini; pel 3.° Paolo Emilio Imbriani; pel 4.° Vittorio Sacchi; tutti napolitani: i loro stipendii e indennità «saranno stabiliti dal Luogotenente Generale e portati sul bilancio passivo delle province napolitane» come si ordina con decreto del 1.° Aprile.

6. Della Sicilia si comincia ad avere qualche notizia men trista, cioè che in qualche luogo sembra che si voglia porre un limite all’anarchia, e che colonne mobili di troppe regolari già scorrono varie province per frenarvi i micidiali e i ladri. La Gazzetta di Genova si consola stampando una sua Corrispondenza da Palermo, che dice cosi: «Qui eravamo a tal punto che si commettevano tre o quattro omicidii al giorno; finalmente ieri l’altro (cioè verso la metà del Marzo) il governo si scosse e molti arresti si sono fatti di genti con armi. La tranquillità pubblica in Sicilia è perduta, e non v’ha sicurezza né nelle città ne nelle campagne.» Le ragioni si possono leggere in un lungo articolo del diario torinese La Monarchia nazionale del 30 Marzo, dove tra te altre cose si accerta che la mano dell’omicida che spia la vita del cittadino pende sul capo dei testimonii e dei magistrati, e le facili paure ne desta e ne procaccia il colpevole silenzio». Speriamo che il sig. Gladstone e Lord Russell non perderanno l’occasione di farsi apologisti e campioni della causa italiana così oltraggiata. Ma. il Montezemolo intanto nom riuscì meglio che il La Farina e il Crispi nell’ufficio di proconsole piemontese, e tolse licenza per cedere il carico al Generale Della Rovere, di cui i diarii di Torino fanno larghi encomii, spiegando bene che egli va in Sicilia come ufficiale e governatore civile.

7. Questo stato di cose destò pure nel cuore di Luciano Murat sensi tenerissimi di compatimento, e perciò si dispose con tutto l’animo per rispondere ai voti che egli suppone volti a lui da tutto il Regno delle Due Sicilie, troppo disingannato dai suoi novelli conquistatori, il Murat, niente sconfortato dall’indifferenza e dalle ripulse onde furono reiette le precedenti sue proposte, si offre di bel nuovo in olocausto all’amore che i Napoletani devono sentire per lui e per la sua dinastia, e con una lettera scritta dal Castello di Buzenval alli 27 di Marzo, ristampata dalla Nazione del 4 Aprile, dichiara che non si oppone all’unità italiana; ma che questa, quale si va foggiando dal Piemonte «surta dal moto e dalla, utopia delle crescenti cospirazioni» non può effettuarsi. «Era più facile ordinare associazioni politiche, perché secondassero i moti apparecchiati; era più facile vincere due o tre battaglie, ordire sottili accorgimenti, adescare l’inopia e le facili coscienze, volgere contro governi meritamente esosi (davvero?) l’odio universale, che decapitare il Regno delle Due Sicilie, far Napoli città di provincia, invadere Roma, senza curasi delle ragioni di Stato e delle forze morali che difendono il Papato ecc.» Quindi flagella quei che credano un giuoco l’atterrare l’Austria nel Veneto; e snocciola le condizioni larghissime di libertà e di felicità con cui saprebbe beare il Regno, quando in esso lui figlio di Gioacchioo Murat, si eleggesse un successore a Francesco II. Staremo a vedere qual conto faranno i Napoletani di tanto amore. Certo è che quel medesimo Constitutionnel, il quale avea dato fiato a tutte le sue trombe per celebrare in tutto il mondo i pregi infiniti della politica e del discorso del Principe Napoleone per la rivoluzione italiana e lo spogliamento del Papa, lo smesso Constitutionne, sotto il nome del Boniface, si affrettò di annunziare aver esso facoltà di dichiarare che «là lettera del Murat è un documento puramente individuale e contrario alla politica del Governo.» Se Napoleone III non vuole Murat a Napoli, certo non vi andrà. Tutto sta a vedere chi ci voglia mettere. Nel Diritto di Torino, n.° 95 si leggono interne a ciò curiose osservazioni. La precipua si è che i più solleciti di ristampare questa lettera, a titolo di documento, furono i giornali officiosi, dandola come ricavata da un giornale straniero. Ora la Gazette de France li sfida arditamente a nominare questo giornale straniero, per la buona ragione che forse i primi ad aver tale documento furono appunto i predetti diarii del governo, e niun giornale straniero lo pubblico prima di loro.

II che si conferma dalla data della lettera, scritta il 27 Marzo da Buzenval, e riprodotta a Parigi il 1 Aprile; ond’è chiaro non esservi stato il tempo dell’andata e ritorno. Ma questa è la fede meritata dal Constitutionnel, dal Pays, dalla Patrie e simili. Quando essi affermano il sì, ognuno tiene per certo il no, od almeno si ripete loro che: on ne vous croit plus;

8. Corse pei giornali la novella di certo dispaccio spedito dalla Luogotenenza reale di Sicilia a Torino, per confortare quel Ministero a non avere eterni timore d’incontrare ostacoli quanto al bandirvi l’abolizione degli Ordini religiosi; e se ne recava per motivo che tutti i claustrali e regolari Siciliani già vi si mostravano disposti, e pronti ad accettare volonterosamente cotal genere dì libertà. Ma una solenne protesta in contrario fu pubblicata sul giornale toscano La Stella d’Etruria, nel n.° 27; dove si toglie argomento da un articolo del Sud, diario siciliano, che porta in fronte l’arme di Savoia, per ribattere quella vituperosa imputazione. E in prova della falsità di essa si reca codesta Protesta, la quale va attorno appunto per raccogliere le firme dei Religiosi, ed i cui originali saranno conservati per memoria nell’archivio dei PP. Minori conventuali di S. Francesco in Palermo.

Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. X. 13 Aprile 1861



RdS, 30 settembre 2008 – https://www.eleaml.org

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