Maria Rosa Marinelli, da contadina a briganta!
All’origine del brigantaggio post-unitario ci sono le estreme condizioni di vita nelle quali i contadini meridionali erano costretti a vivere, la disperazione per non riuscire a soddisfare i bisogni più elementari e l’odio contro la classe dirigente che il nuovo regime non cambiò. Molte delle azioni dei briganti consistevano in assalti alle proprietà ed eccidi di persone facoltose su ingaggio di galantuomini nemici. La speranza che il nuovo assetto politico e sociale potesse rendere loro giustizia e che le condizioni di vita potessero migliorare, fu ben presto soppiantata dalla conferma di antiche ingiustizie e dal nascere di nuovi fardelli a loro carico: la pressione fiscale era diventata maggiore e fu introdotta anche la leva obbligatoria.
A caratterizzare il fenomeno del brigantaggio ci fu anche la presenza di figure femminili all’interno delle bande brigantesche. Da un lato c’era la donna del brigante, moglie o fidanzata di uno dei briganti gregari che viveva nei paesi e svolgeva la funzione di sentinella o di fiancheggiatrice; dall’altro le brigantesse che vivevano con il gruppo in clandestinità, partecipavano alle azioni e godevano di un maggiore rispetto anche per essere le donne dei capibanda. Per le donne non si trattava, nella maggior parte dei casi, di una scelta autonoma. Non furono pochi, infatti, i casi di donne trascinate a far parte delle bande brigantesche con la violenza: venivano rapite, violentate e spesso rese complici dei delitti che venivano commessi. In questo modo, una volta che una donna si era macchiata, era difficile per lei ritornare dalla propria famiglia e la sua vita risultava definitivamente compromessa. Anche all’interno delle bande, però, la loro risultava una vita difficile, controllate a vista, non potevano neanche cucinare per il timore dei briganti di venire avvelenati. È vero, tuttavia, che non sempre le donne vivevano alla macchia con i briganti sotto costrizione. Alcune decisero volontariamente di aderire alle bande ed è questo il caso di una brigantessa della banda Masini protagonista del libro di Serena Carrano: Maria Rosa Marinelli – Un fiore di bellezza tra i briganti. Giovane contadina originaria della Val D’Agri, Maria Rosa non era una donna crudele, né una prostituta: era la promessa sposa di Angelo Antonio Masini ancora prima che diventasse brigante per sfuggire al servizio di leva ed era quindi legata a lui da un reale sentimento di amore. Da contadina a brigantessa, quindi, che in assenza del capobanda fungeva da luogotenente e capeggiava gli altri uomini della banda. Maria Rosa era una giovanissima contadina originaria di Marsicovetere, che al tempo della sua “militanza” (tra il 1862 e il 1864) non aveva compiuto vent’anni. “A volte Maria Rosa è stata vista come un’eroina e un’antesignana dell’emancipazione femminile, ad esempio per il cavalcare con i pantaloni o l’impugnare le armi. Di certo Maria Rosa era una donna acuta, forte, intelligente e determinata ma il rispetto che le veniva attestato derivava dall’essere la donna del capobanda e non dal riconoscimento effettivo delle sue virtù”. Particolarmente interessante fu la sua vicenda giudiziaria. Alla morte di Masini, in uno scontro armato a Padula a causa di un tradimento, si consegnò alle autorità di polizia. La pena per i reati commessi era di 20 anni di galera. Intervenne in sua difesa il sottotenente Polistina che riuscì a presentarla come una vittima innocente che aveva agito in regime di costrizione. Inscenò un rapimento, la presentò come vittima di una zia e di una madre snaturate che l’avevano gettata nelle braccia del brigante che aveva minacciato la famiglia della ragazza per averla con sé. Probabilmente, gli ufficiali che componevano il collegio del tribunale militare si lasciarono convincere da questa versione degli eventi perché non volevano accettare l’idea che Maria Rosa fosse stata guidata da scelte autonome. Fu quindi scagionata dal tribunale militare ma non ebbe lo stesso trattamento dalla giustizia civile: il giudice di Viggiano decise infatti di incriminarla e questa volta a nulla valse la difesa dell’avvocato Polistina. Il tribunale stabilì la colpevolezza di Maria Rosa che restò in carcere fino al 1872. “Il brigantaggio post-unitario, non fu poi tanto diverso rispetto a quello pre-unitario perché alla base c’erano le condizioni di miseria nelle quali vivevano i contadini, vittime dei privilegi e dei soprusi dei galantuomini. Alle condizioni economiche che esistevano prima dell’unità si aggiunsero altre questioni, come quella delle terre usurpate rimaste ai galantuomini. Le condizioni in cui vivevano i contadini lucani, anche prima dell’unità, erano semplici: cascine di paglia e di pietra, luce che entrava dalla porta di ingresso, fumo del focolare che fuoriusciva da fessure create nelle mura. Non c’erano strade e in alcune stagioni dell’anno fiumi straripavano, i sentieri diventavano impraticabili e si bloccava anche il commercio. Spesso i contadini dovevano ricorrere a prestiti con tassi usurai, nonostante lavorassero dal sorgere al calare del sole. L’intera giornata di lavoro di una donna, poi, era retribuita con il solo vitto, spesso neanche consumato perché conservato per i figli a casa. “Le ribellioni dei contadini definiti briganti furono viste come sommosse contro lo Stato e di qui l’emanazione leggi durissime come la legge Pica. Proprio per sottrarsi a queste repressioni disumane, qualsiasi contadino che si era ormai compromesso in manifestazioni ostili doveva darsi alla macchia. Quindi con l’unità d’Italia le condizioni di vita non migliorarono, chi riuscì a raggranellare un piccolo gruzzolo emigro “pè terre assai luntane”, dando inizio a quella sanguinosa diaspora che il Regno delle Due Sicilie non aveva mai visto, l’emigrazione che ha spopolato interi paesi. Scontata la pena Maria Rosa Marinelli poté tornare a vivere a Marsicovetere e sposarsi, confortata dall’affetto dei compaesani.
Donne che, per forza, per amore o per convinzione, sparirono nei boschi, e, vestite da uomo, imbracciarono uno schioppo entrando direttamente in azione contro gli invasori, difendendo il Sud: queste sono le brigantesse. E’ chiaro che queste donne erano sopratutto drude delle fiancheggiatrici che hanno voluto o dovuto commettere atti violenti. La prima brigantessa della storia fu Francesca La Gamba di Palmi docile “filandara” finchè non le uccisero i figli durante il periodo francese. Donna avvenente dovette divenire una sorta di Erinni per vendicarsi. Suscitò le mire di un ufficiale francese, che, forte della sua divisa e del suo potere, non esitò a farle delle avances, e tentò di sedurla. Ma la donna, fiera e fedele al legame maritale, respinse l’uomo, che, ferito nell’orgoglio, progettò un’atroce vendetta, facendo affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito francese. Colpevoli di questo strano manifesto i figli della donna i quali erano davvero estranei ma vennero fucilati. Divenne una brigantessa perchè pazza di dolore! Francesca fu l’unica donna brigantessa del periodo francese. Anche se i briganti scorrazzavano ovunque, dalla Sardegna al Lombardo-Veneto, l’epicentro del fenomeno, che conobbe picchi di recrudescenza dopo l’insurrezione di Isernia (30.09.1860) e dopo la crisi di Aspromonte (29.09.1862), fu al Sud, perché nell’incontro tra Nord e Sud il trauma del regno duosiciliano fu il più lacerante e profondo. Il nuovo Stato non rispettò la divisione delle terre i poveri continuavano a lavorare la terra per i galantuomini. La guerra cafona che si aspettava, si manifestò però con la virulenta depressione. Dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico, gli ex soldati si trovarono allo sbando, e i giovani persero una possibilità di sbocco occupazionale, con il risultato che si ingrossarono le schiere di soldati senza esercito e di mancati soldati, aggravando la crisi socio-economica. Non mancarono le nuove chiamate alle armi dello Stato Italiano che toglieva braccia alle campagne. Oltre ai disordini, la diserzione divenne una grave colpa! Molti erano consapevolmente renitenti alla leva, e, a conti fatti, alla morte in battaglia preferirono la “fatìa” dei campi, loro fonte di sostentamento. Soldati borbonici, sudditi, cafoni e veri briganti finirono nello stesso “calderone” per punire i miscredenti Piemontesi alle direttive di un Re coi baffoni straniero. Inizia una guerra i briganti mettono in difficoltà i piemontesi che cadono nelle imboscate in territori impervi. Torniamo alla brigantesse risulta la più famosa Michelina De’ Cesare della Terra di Lavoro morta in combattimento. Il suo cadavere denudato fu esposto con quello del suo compagno Francesco Guerra, ex soldato borbonico, nella piazza centrale di Mignano (Caserta) a monito della popolazione, per intimidirla. Lo Stato Italiano impiegò 10 anni per debellare le 400 bande. Donne che hanno visto crollare il mondo, perdita dei cari dell’amore e magari anche la verginità e volenti o nolenti costrette a vivere come uomini. Altra donne calabrese dedita alla ferocia fu Maria Oliverio detta “Ciccilla” uccise per gelosia la sorella rea di aver sedotto il brigante Monaco. Una vera brigantessa macchiata di omicidio! Dopo la morte di Pietro il potere passò a lei distinguendosi per ferocia, la stessa che dimostrò con la sorella. Altra donna crudele fu la druda di Ninco Nanco, Marianna Corfù condivideva con lui solo “le gioie del talamo”. La meno giovane era la lucana Arcangela Cutugno, nota e temuta come guerriera abile a cavallo e a tirare di schioppo. Non può mancare la Pennacchio per il vezzo di portare in cappello piumato. Fu uxoricida uccidendo il marito con uno spillone in gola, causa della sua fuga divenne l’amante di Caruso, Crocco e Schiavone. Intrepida combattente, e uxoricida partecipò all’eccidio di una decina di soldati a Sferracavallo, sulla consolare. Diversi tribunali, tra Potenza, Avellino e Lucera, testimoniano numerosi capi d’accusa, dall’estorsione all’omicidio volontario. Insomma non erano delle sante! Donne che dopo aver commesso delitti per forza maggiore erano complici, oltre a nascondere i ricercati e a curarli, li coccolavano procurando loro persino il tabacco da fiuto. Diversa situazione le fiancheggiatrici erano delle ammiratrici che uscivano di notte per portare viveri, cure ai feriti ed amore. C’era anche e sopratutto la cupidigia maschile, la voglia di soddisfare i propri istinti, e quindi la caccia a donne giovani e piacenti era sempre aperta, per le strade di campagna, nei casolari, persino in paese. Esempio di brigantessa per forza Maria Giantommaso di Rotello (CB), rapita a 19 anni dopo una giornata di lavoro nei campi, dalla banda Caruso. La donna di brigante “per forza” più popolare del Molise è indubbiamente Filomena Ciccaglione di Riccia (CB) la quale approfittava del suo ascendente per intercedere presso il brigante innamorato e far cessare incendi, rapimenti, ruberie. La Ruscitti sua amante per volontà invece seguì Caruso perchè ammaliata. Il 18 agosto 1863, in uno scontro con una colonna di bersaglieri e Guardie nazionali, in cui morirono sette briganti, Maria Luisa fu catturata e condannata a 25 anni. Quando uscì di galera, nel 1888, aveva 44 anni, era quindi ancora giovane, ma ormai la sua vita era finita. Altra affascinata dalla figura dei briganti fu Marta Cecchino di Roccamandolfi (IS). Amante del brigante Samuele Cimino faceva la corriera dei briganti insomma per il fratello affiliato, rimase con loro! Lì alla macchia si mangiava e si beveva, altro che casa sua. La miseria era alle spalle, lei e gli altri mangiavano meglio degli odiati galantuomini: caciocavalli, prosciutti, uova, lardo, carne, ogni bendiddio razziato a destra e a manca.
Sul capo di AngeloAntonio Masini, venne messa una taglia che in poco tempo lievitò a Lire 20.000 (ventimila), una taglia enorme che certificava la sua grande pericolosità.
Angelantonio Masini venne ucciso in un conflitto a fuoco con i soldati nelle campagne di Padula il 20 dicembre 1864, precisamente nella masseria di Gerardo Ferrara, grazie ad una soffiata, mentre il cugino Nicola, che si costituì poco dopo alle autorità, venne fucilato a Potenza. Della banda facevano parte anche le loro “drude”, le brigantesse Maria Rosa Marinelli, e Filomena Cianciarulo (quest’ultima, amante di Nicola Masini), riparate a Sala nel 1863 per portare avanti la gravidanza di quest’ultima. Nella primavera del 1864, la Cianciarulo partoriva nella casa degli Acciari, altolocata famiglia di Sala coinvolta con i briganti, una femminuccia. La neonata, dopo essere stata battezzata da Don Felice Acciari , fu poi abbandonata nella “ruota degli esposti” della città.
La vicenda viene ampiamente trattata nel citato libro di Alfonso Vesci.
Durante il combattimento nella casa di Gerardo Ferrara, che aveva visto la morte di Angelantonio Masini e di un altro brigante, mentre altri cinque si arrendevano al Cap. Francesco Fera, la Marinelli riuscì a sottrarsi alla cattura saltando, da una finestra posta al piano superiore, sul tetto di una casa vicina.
Il salto le procurò una ferita ad una gamba ma riuscì ugualmente ad eclissarsi e rimanere nascosta nella zona di Padula per alcuni giorni, al termine dei quali, stremata per i morsi della fame, il dolore della ferita, e il grande freddo (siamo a fine Dicembre), si costituì spontaneamente al Comando della Sotto Zona di Marsiconuovo (PZ).
La Cianciarulo invece, di nuovo incinta e pertanto abbandonata dalla banda, non partecipò al combattimento nella Masseria Ferrara, ma venne arrestata nel gennaio del 1865 in casa di Rocco Gioscia a Calvello (PZ) , dove era riparata nel frattempo.
Nel mese di marzo del 1865, mentre era detenuta nel Carcere Correzionale di Potenza, Filomena Cianciarulo diede alla luce un maschietto al quale diede il nome di Angelo Antonio in ricordo del famoso brigante.
Il bambino assunse il cognome materno in quanto di “padre ignoto” e fu battezzato nella Chiesa della Santissima Trinità di Potenza.
Il Gioscia, era un capomastro che per questo episodio verrà condannato a 20 anni di Lavori Forzati, poi ridotti a 15, con l’accusa di complicità in brigantaggio, dal Tribunale di guerra della Basilicata.
Una terza brigantessa, Reginalda Rosa Cariello (Reginella) di Padula, rapita e poi divenuta amante dal brigante Pietro Trezza da Padula, dopo la morte di quest’ultimo in combattimento agli inizi del 1864, divenne la vivandiera della banda Masini. Dopo la morte del capobanda alla fine del 1864, anch’ella, rimasta senza nessuno, si costituì spontaneamente il 14 gennaio 1865 alla Sotto-Prefettura di Sala Consilina con il resto della banda Masini.
Le tre donne processate il 2 maggio 1865 per brigantaggio e altri reati dal Tribunale militare di Guerra in Potenza, vennero, con sentenza del 6 maggio 1865 , assolte dai reati, in quanto commessi in regime di costrizione e non per libera volontà. Le assoluzioni furono pronunciate grazie soprattutto alle abili difese portate avanti dai sottotenenti Gustavo Polloni e Antonio Polistina. Fu particolarmente efficace la brillante difesa del Sottotenente Antonio Polistina, difensore della Marinelli, che contestò le deposizioni dei testimoni dell’accusa, in molti casi false o inesatte e fece leva sulla situazione di coercizione materiale cui era stata suo malgrado sottoposta la sua assistita e l’ambiente familiare di profonda miseria e degradazione in cui era vissuta fin dall’infanzia.
In seguito, le tre brigantesse, nuovamente processate nel 1866 da un’altra Corte non militare per reati commessi prima del periodo passato tra i briganti, furono condannate.
La Marinelli, accusata di “associazione di malfattori, estorsione, sequestro di persona, lesioni” fu condannata a 4 anni di reclusione e 6 anni di vigilanza speciale, la Cianciarulo, accusata di “complicità di estorsione, sequestro di persona, furto di pecore e lesioni” a 3 anni di reclusione e 6 di vigilanza speciale.
Filomena Cianciarulo aveva appena compiuto 22 anni d’età!
La Cariello invece, venne arrestata come le altre, ma fu poi rimessa in libertà, in quanto ritenuta dalla Corte non punibile, avendo commesso i reati in evidente stato di costrizione.
La Marinelli e la Cianciarulo si rifecero poi una vita sposandosi, mentre per quanto riguarda la Cariello, correva voce che fosse emigrata in America.
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