Alta Terra di Lavoro

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Recensione Prof. Giuseppe Gangemi su “Thiébault Paul, L’invasione francese del Regno di Napoli (1798-1799)”

Posted by on Giu 1, 2024

Recensione Prof. Giuseppe Gangemi su “Thiébault Paul, L’invasione francese del Regno di Napoli (1798-1799)”

Il libro tradotto e pubblicato da Rotondi è solo una parte delle Mémoires du general Bon Thiébault pubblicate a Parigi, nel 1893, da Fernard Calmettes sotto gli auspici della figlia dell’autore, M.lle Claire Thiébault. In effetti, il libro in italiano risulta molto più agile della pubblicazione francese, essendo stati tradotti di quella solo i capitoli IX-XIII, che riguardano l’invasione francese del Regno di Napoli, nel 1798, quando viene costituita l’effimera Repubblica Giacobina del Napoletano.

Come ogni libro tradotto e pubblicato, dopo molto tempo dalla stesura dell’autore e dalla prima edizione, il volume, oltre a narrare vicende relative al 1798, suggerisce tante cose sull’autore, sul periodo in cui viene pubblicato (1893) e sul periodo in cui viene tradotto e ripubblicato (2024).

Quello che l’autore sa e narra con sincerità.

Il generale francese Bon Thiébault racconta quanto succede nella conquista di Napoli dove un buon terzo dei lazzaroni di Napoli “è perito durante il nostro attacco” e dove i granatieri francesi, rafforzati dai loro battaglioni, massacrarono al suono della carica tutto ciò che era di fronte a loro”. “La rabbia e il bisogno di vendetta esaltava le forze dei nostri coraggiosi, non un napoletano restò vivo sul terreno che abbiamo percorso. Mai, se non può essere a Isola, nella seconda parte della campagna, ho visto tanti morti contemporaneamente e non avrei mai immaginato che, in così poco tempo, potesse essere sterminata così tanta gente; non oso valutare il numero; migliaia di soldati napoletani e lazzaroni coprivano il suolo al punto da eccitare la pietà di colui che, per dovere, non aveva risparmiato niente per la loro distruzione”. Viene detto ai soldati di accendere il fuoco sotto le case: “tutto ciò che volle uscire dalle case fu ucciso, tutto ciò che vi restò fu bruciato. Così ordina la necessità, questa spietata divinità che gli antichi dicevano essere di ferro e che là fu di fuoco e di sangue”.

È una descrizione, nuda e cruda, di gravi delitti contro l’umanità, quelli che si presentano, purtroppo inevitabili, in tutte le guerre. L’autore ammette anche altri misfatti contro i civili operati dai Francesi a Sansevero, ad Andria, etc. Come sintetizzerà un viaggiatore scozzese, Norman Douglas, che si farà raccontare queste storie in un suo viaggio nel Napolitano, successivo agli eventi: “bisogna dire anche che i Francesi erano notevolmente sanguinari nelle loro rappresaglie”.

L’autore distingue tra i Lazzari della città di Napoli che si battono contro i Francesi e i Giacobini e hanno tante vittime, sia nel corso degli scontri campali tra eserciti, sia successivamente negli scontri con i cosiddetti briganti che resistono nelle province. “Le atrocità della repressione [francese] accrescevano quelle del brigantaggio senza peraltro debellarlo”.

Dopo avere ammesso i massacri di parte francese nella guerra tra eserciti, il generale Bon Thiébault, in una citatissima pagina delle Memoires, ammette l’inettitudine dei generali napoletani e riconosce il valore delle truppe quando si auto-organizzano, con pochi o nessun ufficiale, per la guerriglia sia urbana, sia campale. “Non appena questi [i Napoletani] formavano dei plotoni regolari, essi diventavano niente; armati come banditi, in truppe di fanatici, essi erano terribili, ed è, per così dire, quando non c’erano più armate napoletane che la guerra di Napoli diveniva spaventosa. Anche se questi Napoletani del 1798, selvaggi e superstiziosi, erano stati battuti dappertutto, anche se, senza contare le perdite che subirono durante i combattimenti, più di sessantamila di loro erano stati passati per fil di spada sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne, noi non li abbiamo lasciati sconfitti su nessun punto”.

L’autore non dice niente sui Sanfedisti che non arrivano a contatto con le truppe francesi e si sollevano solo contro i compatrioti giacobini. A proposito di questi ultimi parleranno molti viaggiatori. Questi mettono in rilievo che, in alcune città, si sono verificate, a distanza di poco l’una dall’altra, una prima sollevazione giacobina e una seconda sollevazione, di segno contrario, antigiacobina e sanfedista.

Qui mi limito a presentare, unica per tutte che si somigliano molto, la descrizione della doppia sollevazione di Nicastro fornita dal viaggiatore francese François Lenormant: “Nel 1799 la nobiltà di questa città (Nicastro), come quasi tutta la nobiltà calabrese e lucana colta e illuminata, si mostrava assai bendisposta verso il liberalismo e le nuove idee. La plebe, al contrario, tenuta in uno stato di completa ignoranza, nemmeno concepiva cosa diversa dal regime esistente, e se aveva sentito parlare della Rivoluzione francese, era stato soltanto dall’autorità ecclesiastica che esercitava su di essa un’influenza onnipotente”. Il dato di fatto è che nobili e borghesi di Nicastro accolgono con entusiasmo l’arrivo a Napoli dei Francesi e aderiscono subito alla Repubblica partenopea. Poi, tutto cambia quando giunge “notizia dello sbarco del cardinale Ruffo a Bagnara e della reggenza reale che egli aveva appena restaurato a Mileto, subito il popolo insorse, rovesciò il vessillo della repubblica e l’albero della libertà … Parecchi gentiluomini che si erano distinti come repubblicani furono massacrati per le strade o nelle case”.

Questo comportamento dei Nicastresi è rappresentativo di quanto verificatesi in molte altre città della Calabria e del Regno. A differenza della rivolta urbana dei Lazzari a Napoli, la rivolta nelle Calabrie non assume i connotati della rivolta legittimista o della resistenza patriottica contro l’invasore francese. Per il semplice fatto che i Francesi, nel 1798, non sono mai scesi fino in Calabria. “La Calabria ignorava l’occupazione straniera. Gli uomini di Championnet non erano andati oltre Salerno”.

Quello che della guerra l’autore non sa perché è già andata via l’armata francese.

Forse per questo, la rivolta calabrese ha assunto subito le connotazioni della lotta di classe, mentre quella dei Lazzari e dei briganti a Nord delle Calabrie, mantiene perlopiù la connotazione di lotta per l’indipendenza dai Francesi. La conseguenza è che i primi, le truppe calabresi di Ruffo, si mobilitano sull’obiettivo della rifondazione del Regno, ovviamente nel nome dei Borbone, mentre quelle dei Lazzari e dei briganti dalla Basilicata in su sull’obiettivo di ripristinare il preesistente, tra cui anche la tradizionale autorità dei Borbone, e su quello della vendetta.

Questa diversa connotazione porta a due diverse strategie: la resistenza statica nelle varie città che si difendono fino ai limiti del possibile all’arrivo dei Francesi per i Lazzari e i Briganti e la resistenza dinamica dei Calabresi che si impongono subito di risalire lungo la penisola e, quindi, di realizzare una rivoluzione. La Calabria non si mobilita nella lotta contro la Repubblica Giacobina perché occupata (Palmi, Bagnara, Scilla e Reggio Calabria restano sotto il controllo dei Borboni perché la sollevazione Giacobina viene prevenuta dalla scoperta dei congiurati, dal loro arresto e dalla loro deportazione, in numero di 74, a Messina), ma perché ha voglia di fare ascoltare al re, dopo 16 anni dal Grande Flagello che ne ha distrutto l’economia tradizionale, le proprie richieste di modificare la situazione sociale ed economica compromessa dalla ricostruzione post terremoto.

La Calabria ha tanta voglia di portare i propri problemi alla capitale e ripristinare la sovranità del re che, anche prima della comparsa di Ruffo, numerosi sono i preti che si propongono come leader e predicano ai parrocchiani di voler andare a riportare l’ordine e la religione a Napoli. Essi sentono questa come l’occasione per fare i conti con i nuovi proprietari terrieri che hanno comprato le terre della Chiesa (per costituire la Cassa Sacra) e hanno privato i poveri dei diritti agli usi civici (spigolare, raccogliere legna, frutti spontanei del bosco, etc.), diritti e usi che la Chiesa considerava sacri.

È soprattutto la zona terremotata nel 1783 (da Reggio Calabria a Catanzaro) che assume l’iniziativa della resistenza dinamica: essi combattono con la volontà di arrivare a Napoli perché i nuovi proprietari delle terre della Chiesa hanno, per convenienza, aderito alla Repubblica e sono fuggiti a Napoli alle prime avvisaglie di rivolte contro di loro. Al di fuori della Calabria, i leader di molti di quelli che si ribellano ai Francesi lo fanno solo per difendersi e si trincerano nelle loro fortezze. Gli Abruzzi formano un piccolo esercito di 6.000 insorgenti che si difendono nella piccola provincia dell’Aquila (p. 173). La Puglia usa le due residue armate napoletane, posizionate alle Forche Caudine, per difendersi e non per dirigersi verso la capitale (p. 173). A Traetto, un vescovo si mette a capo della rivolta e pretende di trattare da pari a pari con Championnet, finché la città non viene assaltata e il vescovo passato per le armi insieme ai suoi combattenti (p. 174).

A tutta questa mobilitazione spontanea mette ordine il Cardinale Fabrizio Ruffo con una guerra di movimento che spinge tutti questi rivoltosi a imitare il suo esempio e rivolgersi verso la capitale. Ruffo riceve dalle popolazioni in procinto di ribellarsi o in aperta rivolta tutto il credito di cui necessita. Quello stesso credito che, inizialmente, non aveva ricevuto dai sovrani a Palermo. Il quale lo dota di pochi uomini, di 3,000 ducati (un impegno a ricevere ulteriori 1500 ducati al mese, il permesso di attingere alle casse dei banchi del regno) e solo una piccola parte delle armi portate da Napoli a Messina. Ruffo parte comunque, malgrado i pochi mezzi, giorno otto febbraio 1799. L’urgenza di partire è dettata dal fatto che gli viene detto che le quattro città di Reggio Calabria, Palmi, Bagnara e Scilla stanno per cadere, attraverso una sollevazione, nelle mani dei Giacobini. Sbarca a Catona con una nave e soli sette uomini e lo raggiungono colà 300 uomini dei feudi dei vari rami della sua famiglia. Come primo suo atto, invia una lettera a tutti i parroci della Calabria Ultra. La lettera viene letta durante le funzioni religiose e produce come risultato che migliaia di uomini validi, con alla testa i loro parroci e i loro monaci, si muovono verso i due luoghi di raduno indicati da Ruffo: Palmi per gli abitanti del Reggino e dell’Aspromonte e Pizzo Calabro per quelli del Nord della Piana e della Sila Piccola. A questi due raduni si presentano, di fatto, i Calabresi i cui paesi sono stati terremotati nel 1783.

Dalle 40.000 persone presenti ai due raduni, il Cardinale ricava circa 7.500 uomini, in prevalenza ex soldati dell’esercito borbonico, sbandatesi dopo la fuga del re a Palermo. Altri 5.000 circa vengono addestrati e fungono da riserva o da massa di manovra, mandata in avanti prima e in altra direzione rispetto a quella progettata da Ruffo. Loro compito è quello di ingannare gli avversari circa le intenzioni dei ribelli.

È il successo che hanno questi due raduni che porta alla formazione di un vero esercito che combatte con un coraggio e una capacità che Thiébault riconosce nelle sue Mémoires. Le diverse e maggiori capacità dell’esercito sanfedista derivano anche dal fatto che “in ogni paese si formavano masse di volontari, regolarmente arruolati, armati e inquadrati in formazioni militari, con inserimento di uomini dell’esercito … le masse eleggevano i loro capi e, senza gli ostacoli degli sconcertanti ufficiali dell’esercito regolare” (Viglione, p. 15) finiranno per diventare molto più efficienti dell’esercito regolare delle Due Sicilie.

L’armata sanfedista incorpora in se stessa una nuova struttura democratica, la gerarchia è organizzata in modo rigido nell’esecuzione degli ordini, mentre sparisce del tutto nella progettazione della strategia, Ruffo, prima di ogni azione, chiama a raccolta i propri ufficiali, che conoscono tutti i loro uomini e le loro specifiche abilità, pone il problema strategico, descrive l’obiettivo e illustra le difficoltà per raggiungerlo. Dopo la sua esposizione, lascia la parola ai suoi uomini cui spetta suggerire quale la migliore strategia per risolvere le difficoltà.

Un esempio di problema viene posto dal Cardinale in questi termini: “c’è una città in mano ai Giacobini che si sono asserragliati dentro le alte mura fortificate; come facciamo a prenderla d’assalto e lasciare nel contempo una via di fuga per non compiere un massacro dentro la città, una volta conquistata?” Dopo un lungo brainstorming (come si chiama il metodo oggi) qualcuno suggerisce di utilizzare decine di scale umane (uomini in piedi sulle spalle di altri per scalare le mura nel modo più veloce possibile) e di lasciare, dalla parte opposta della città, libera una porta per permettere agli sconfitti di fuggire.

Decisa la strategia, gruppi di una dozzina di uomini si muovono lungo le mura e salgono su di esse, saltano giù e si aprono le vie fino alle porte più vicine. Intorno a queste ,si attestano a difesa mentre il grosso delle truppe entra per le porte liberate. Una volta dentro, si muovono lentamente privilegiando il risultato di mettere in sicurezza ogni casa liberata e invitare i difensori ad arrendersi nella certezza di aver salva la vita. Di fronte ai palazzi dei Giacobini, si fermano a distanza e invitano a uscire oppure a lasciare la città, dalla porta non assediata, avendo la garanzia di avere salva la vita. Una volta usciti i liberali e le loro famiglie, come è pratica abituale del tempo, comincia il saccheggio delle case dei liberali lasciati liberi di andare o arrestati.

Questo piano, ineccepibile sulla carta, viene continuamente aggiornato con modifiche dettate dalla conformazione delle mura e con modifiche tendenti a evitare gli errori fatti le volte precedenti. Infatti, non sempre va tutto liscio, come progettato nel brainstorming. Spesso i Giacobini non si sono fidati delle promesse del Cardinale che considerano un brigante; spesso, presa la città, si è scatenato il panico; altre volte i Sanfedisti, avendo subito troppe perdite, reagiscono con brutalità e violenza; altre volte reagiscono perché hanno scoperto che i Giacobini hanno massacrato i legittimisti prima dell’arrivo dei Sanfedisti. In questo ultimo caso, oltre ai saccheggi, si sono verificati stupri e violenze di ogni tipo, fino alla caccia dei Giacobini guidata dai legittimisti sopravvissuti.

Anche nell’autofinanziamento, l’esercito sanfedista di Fabrizio Ruffo si muove su principi liberali avanzati: il Cardinale comincia con il fratello, duca di Bagnara. Pretende e ottiene un contributo di tasse proporzionale al reddito. Lo stesso devono pagare nobili ed ecclesiastici. Un’impostazione liberale che la Chiesa, schierata con il Cardinale, accetta solo finché non si riconquista la capitale e non si libera il Regno dai Giacobini. Poi, tutto cambia. La Chiesa abbandona il Cardinale, come già aveva fatto, per pressioni dell’aristocrazia, nobiliare ed ecclesiastica, dello Stato Pontificio quando, da Tesoriere della Camera Apostolica, finanze propone riforme fiscali in senso liberale ed egualitario.

Perso l’appoggio della Chiesa, anche Ferdinando IV lo abbandona. Da questa emarginazione nasce la decisione di Ferdinando di premiare solo Horatio Nelson regalandogli una Ducea, quella di Bronte. Nel farlo, il re compie un’usurpazione di beni del demanio comunale, proprietà delle città e degli enti caritativi e degli ospedali. Questo violava le leggi dello Stato e la tradizione giuridica del Regno. Ruffo viene praticamente costretto a restare vicino ai sovrani nella capitale e riesce a lasciare il regno solo dopo la morte del Papa (Pio VI). Ritornerà solo dopo un quarto di secolo, qualche anno prima di morire.

Nel 1806, perso di nuovo il Regno di Napoli, da Palermo, Ferdinando IV lo contatta e lo invita rifare l’azione di costruire un esercito di volontari che parta dalla Sicilia per risalire fino a Napoli. Rifiuta e la rivolta antifrancese dei Calabresi, per quanto coraggiosa, si caratterizza solo dalla difesa delle proprie case e delle proprie città. Nessuno dei resistenti delle campagne se ne fregherà della capitale e dei sovrani, a differenza che nel 1799.

La presentazione del traduttore e del prefattore dell’edizione italiana

La breve Prefazione di Massimo Viglione rimane fortemente legata al tema letterale del volume che è quello di narrare chi ha fatto che cosa e come l’ha fatta durante l’invasione. Si parla del trasferimento dei sovrani di Napoli in Sicilia, il re di Napoli è anche re di Sicilia, sottolineando l’analogo trasferimento dei sovrani sabaudi in Sardegna, quasi per suggerire la normalità della soluzione, la fuga, di fronte allo strapotere degli eserciti napoleonici. È una tradizionale difesa dell’operato del re adottata dai neoborbonici. A mio avviso, questa difesa lascia il tempo che trova. Non è, però, compito mio criticarla.

Sempre nella Prefazione, si accenna alla grande razzia di opere d’arte napoletana, cosa questa che si è verificata ovunque hanno dilagato gli eserciti napoleonici. Inoltre, si sostiene che la Francia, dopo il sostegno che Ferdinando IV ha dato al Papa le cui terre erano state invase, ha trovato un desiderato pretesto per invadere il Regno di Napoli. E anche questa si presenta come una difesa dell’operato del re: anche se non avesse dichiarato guerra alla Francia, sarebbe stato attaccato.

Il punto, però, è un altro: gli eserciti francesi avevano già sconfitto una coalizione europea nel 1797 alla quale Ferdinando IV non aveva aderito; poi, nel 1798, da solo dichiara guerra alla Francia, malgrado avvisato di non farlo dal potentissimo sovrano dell’impero austriaco, Francesco II che gli sconsiglia di gettarsi nell’impresa da solo (dato che le potenze europee stanno preparando una seconda coalizione, che si formerà nel 1798). La decisione porta il Regno alla sconfitta, all’invasione e, infine, il re alla subalternità nei confronti di Nelson che lo spinge a trasformarsi in un sovrano che viola il capitolato firmato dai suoi plenipotenziari e da quelli inglesi e, soprattutto, a rompere con Fabrizio Ruffo che quel capitolato aveva fortemente voluto.

Nella Prefazione, si sostiene che il Regno sia caduto per i tradimenti delle gerarchie militari. Questo vuol dire che quanto è successo nel 1860 era già successo nel 1798. Questo vuol dire che i Borbone non hanno saputo trovare le giuste riforme per cambiare il modo di arruolare e formare gli ufficiali in modo da garantirsi il futuro? Mi domando: si può ipotizzare che questo sia dipeso dal fatto che non hanno dato ascolto a Fabrizio Ruffo che, nel 1799, ha intuito che, nei nuovi tempi post rivoluzione francese, era il rapporto tra soldati e gerarchie che andava messo in discussione e riformato? Per esempio, con l’ascolto dei subalterni da parte della gerarchia militare e addirittura l’elezione degli ufficiali direttamente dalla truppa?

Nell’Introduzione, Rotondi fornisce, a mio avviso giustamente, una corretta risposta alle mie domande: con il 1798 emerge la consapevolezza che la classe dirigente borbonica sia terrorizzata più dalle masse popolari che dagli invasori e che questa classe di pavidi opportunisti avrebbe proiettato la propria ombra anche sui decenni successivi. Ma se Ferdinando IV ha avuto dalla propria Fabrizio Ruffo che ha impostato tutte le proprie carte sul rapporto con le masse, che non temeva, perché il re ha diffidato del Cardinale e condottiero e si è fidato di più di quegli aristocratici che le masse le temevano più dei nemici esterni? Perché i re delle Due Sicilie non hanno compreso che Ruffo era nel futuro, in quel futuro immaginato da Giambattista Vico il quale avrebbe potuto dire di lui che conosceva la Dottrina Civile necessaria per guidare le masse.

Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, che si autodefinivano e si consideravano riformisti, forse non lo sono stati abbastanza perché sono stati poco capaci di vedere quanto immaginato da Vico e, in parte, messo in atto da Ruffo. La storia è, a questo proposito, impietosa. Se hai perso un Regno (quello di Napoli) nel 1798 e lo hai perso ancora nel 1806, riuscendo a mantenere solo quello di Sicilia, e se li hai riunificati, forse perché convinto che così rendevi entrambi più forti e, invece, li hai persi entrambi, di sicuro in qualcosa hai sbagliato.

Thiébault Paul, L’invasione francese del Regno di Napoli (1798-1799). Memorie di un protagonista, traduzione di Raimondo Rotondi e prefazione di Massimo Viglione, D’Amico Editore 2024, € 18.00

Giuseppe Gangemi

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“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi nella lettura di Fernando Di Mieri

Posted by on Mar 18, 2024

“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi nella lettura di Fernando Di Mieri

È ora in libreria il terzo volume[i] della trilogia che Giuseppe Gangemi ha dedicato ad un’autentica controstoria di quanto accaduto nel Sud durante il periodo immediatamente postunitario. Nel primo (Stato carnefice o uomo delinquente?) dei due volumi precedenti aveva affrontato il pensiero e l’azione di quel Cesare Lombroso, vero teorico della presunta e antiscientifica atavica inferiorità meridionale, mentre nel secondo (In punta di baionetta) si era occupato delle vittime civili obliate nell’Archivio di Stato di Torino.

In questa terza pubblicazione Gangemi tratta, come recita il sottotitolo, dei civili trucidati e di cui abitualmente si tace. Ovvero, quando proprio non si riesce, si cerca di sminuire nel numero e di gravare nelle responsabilità al punto di precipitare nell’ignominia, pur di tenere ancora credibili certe ricostruzioni artificiose a sostegno di maschere oleografiche della realtà. Un orrore che neanche centosessant’anni, o giù di lì, riescono a far notare neanche ad autori che per altri versi spesso nulla hanno a che fare con l’ideale risorgimentale, ma che proseguono imperterriti un’operazione mistificatrice, mettendo con ciò in discussione il fine stesso del lavoro dello storico, che, almeno a tale distanza temporale, dovrebbe sentirsi più libero di abbandonare le posizioni preconcette ad uso proprio del vincitore.

Giuseppe Gangemi, già docente di Metodologia e Tecniche della Ricerca Sociale presso l’Università di Padova, nel libro che qui presento ancora una volta applica il suo metodo di base, ponendosi dinanzi ai fatti sempre con grande rigore in vista della ricostruzione dei fatti medesimi. Egli non si nasconde alcun riferimento, ma ogni documento sottopone ad una serrata analisi in termini di plausibilità, coerenza con il contesto dei fatti e delle situazioni. E tutto ciò rende testimone vivo quello che sarebbe altrimenti un semplice diario, una scheda d’archivio, una vecchia ricostruzione. Muovendosi su queste linee metodologiche, passando ancora lunghi periodi negli archivi, valorizzando gli spesso negletti ricercatori locali (quelli che con certosina pazienza si recano quotidianamente negli archivi, raccolgono antiche memorie, conoscono luoghi), Gangemi, in circa quattrocento fitte pagine, riesce a ricostruire con altissima plausibilità accadimenti controversi, spesso ribaltando opinioni consolidate nel nostro immaginario o acquisizioni di una storiografia recente che talvolta, pur espressione di accademici,  manco si preoccupa di mantenere quei livelli minimi di scientificità che proprio l’appartenenza al mondo accademico richiederebbe.

La differenza rispetto ad una storiografia ideologizzata risulta evidente e difficilmente contestabile. È bene dire subito quello che va riconosciuto: a proposito degli argomenti toccati, Gangemi ha argomentato tesi che renderanno difficile, e credo per un tempo piuttosto lungo, ad ogni ricercatore non tenerle nella giusta considerazione. Chiunque vorrà parlare dell’azione garibaldina in Sicilia, della strage di Pontelandolfo, delle rivolte siciliane o di quanto ha significato la legge Pica per le popolazioni meridionali interessate (e tanto altro), dovrà necessariamente confrontarsi con quanto Gangemi ha scritto in questo libro.

Non è possibile dar conto di tutta la sua ricchezza documentaria e della sua forza interpretativa, per cui mi limiterò ad esporre il modo di procedere di Gangemi accennando ad un solo caso, la strage di Pontelandolfo (14 agosto 1861 e settimane successive), che, com’è noto, si cerca di diminuire, da parte di accademici di successo e no, nella sua portata di ferocia. Tuttavia, nulla possono contro un’intelligente lettura della documentazione ancora disponibile. È impossibile continuare a sostenere che i civili vittime della violenza sabauda che si abbatte su Pontelandolfo si limitino a tredici (un numero che comunque non avrebbe dovuto esserci), come ostinatamente si vuol insistere da parte di taluni custodi dell’illibatezza risorgimentale. Non possono essere tredici già per intuito, perché quell’azione è la rappresaglia per la morte di quarantadue militari. E, si sa, le rappresaglie non mirano mai a creare solo danni materiali (l’incendio di gran parte del paese), ma devono moltiplicare di un numero variabile quello dei morti subiti. Già questo deve farci guardare con sospetto a certe ricostruzioni, la cui parzialità balza evidente agli occhi. Per procedere adeguatamente e cogliere la verità storica (per quel ch’è possibile) nella varietà dei suoi aspetti è necessario un approccio “sistemico”, che prenda in esame tutte le fonti possibilmente utili e soprattutto non si fermi appena le conclusioni spingono in direzione opposta a quella propria. Allora non ci si può fermare a quanto riferito, ad esempio nel libro parrocchiale dei morti (peraltro già carente), bensì occorre insieme prendere in esame anche i diari di osservatori diretti o di protagonisti della vicenda; gli interventi parlamentari, gli articoli apparsi su autorevoli periodici dell’epoca, gli stati delle anime, le statistiche della popolazione prima e dopo la strage, mettendole anche a confronto con quella di comuni viciniori.

Quando questo lavoro vien fatto, si vede che allora la cifra dei defunti sale, e non di poco. Si giunge allora a risultati di assoluta precisione matematica? Questo non sarà possibile perché vari casi si intrecciano e sono resi molto complessi, ad esempio, dalle considerazioni da farsi a proposito dei morti dovuti alla situazione sociale in cui tanti scampati erano venuti a trovarsi dopo aver perso casa, affetti ed averi. Ad un certo punto subentra la varietà interpretativa delle cause di certi decessi, ma di sicuro una vera ricerca sul piano archivistico generale conferma che il numero delle vittime procurate direttamente da quella tragica giornata del 14 agosto 1861, dalle settimane immediatamente successive e dai tristi eventi che  sempre si accompagnano ai grandi lutti per violenza, diventa impressionante ed è inutile far ricorso a epidemie, della cui realtà troppo si discute perché possano essere accettate acriticamente.

Quella di Pontelandolfo non è stata l’unica strage di civili dovuta al nuovo ordine sabaudo. Gangemi dedica numerose pagine, come già ho anticipato, anche ad altre tragedie procurate, dopo promesse ingannevoli, dal conquistatore. Gli eccidi di Castellammare del Golfo e del Sette e Mezzo palermitano non sono i soli che chiedono di vivere nel nostro ricordo. Da Auletta a Scurcola Marsicana, da Bronte a Montefalcione e così via sono tantissimi i luoghi che hanno assistito alla dura repressione dell’invasore. Tale brutalità riscosse il biasimo di tutta Europa, ma nessuno fece alcunché di concreto per farla cessare, mentre non erano mancati quelli che si erano dati da fare per abbattere la monarchia borbonica. Una monarchia detta feroce, ma che, nel confronto con altri sistemi repressivi e polizieschi, si rivelava, ripeto nel confronto, molto più tollerante. Il Regno del Sud rivelava al momento dell’attacco garibaldino uno spirito rispettoso dei patti, della religione, degli equilibri, che lo rendevano onorato presso ogni Stato, ma proprio questo spirito, insieme con numerosi altri fattori (geopolitici etc.), sarebbero stati esiziali per la sua sorte.

Ancora oggi sentiamo gli effetti della caduta del Regno. Esempi? Appena conseguita l’Unità si impone il problema del rapporto tra dati di fatto e altisonanti dichiarazioni di diritto: non v’è chi non veda che in questo Terzo Millennio tale rapporto è ancora tutto da risolvere. Ancora, a pochissimi lustri dall’Unità comincia la tragedia dell’emigrazione di massa. Esplode la “questione” di un Meridione, che era stato nei secoli luogo di ricchezza e di cultura, eppure neanche oggi, complice il suo stesso notabilato, esso intravede significative risoluzioni.

                                                                                                          Fernando di Mieri


[i] G. Gangemi, Senza tocco di campane. 1860-1870: le vittime civili taciute della Guerra Meridionale, Magenes, 2023.

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“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi per la rubrica “Incontro con l’autore”

Posted by on Feb 29, 2024

“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi per la rubrica “Incontro con l’autore”

Dopo anni di studi e ricerche e dopo l’uscita di due importanti libri, “In punta di baionetta” e “STATO CARNEFICE O UOMO DELINQUENTE”, il Prof. Giuseppe Gangemi chiude la trilogia con “Senza tocco di Campane” (le vittime civili taciute della guerra meridionale) arricchendo con una scientifica e inedita visione, gli studi sui tanti eventi tragici del primo decennio post-unitario. Il Prof. Gangemi collega tra di loro le tante stragi ed eccidi che si sono susseguite, “al di la e al di qua del faro”, riuscendo a legarle tra di loro nonostante le varie motivazioni che le hanno causate, ha utilizzato con maestria la statistica per spiegare la sparizione di una parte importante della popolazione napolitana e siciliana, ha spiegato come è stata preparata politicamente e giuridicamente la Legge Picae come è stata attuata ma soprattutto ha messo la parola fine sulle vicende di Pontelandolfo e Casalduni smontando pezzo pezzo “il revisionismo del revisionismo” messo in piedi da Carmine Pinto e dalla sua collaboratrice Silvia Sonetti che con ingenuità ed inesperienza ha trattato una vicenda così complessa e oscura, e da molti accademici che disperati cercano di aggrapparsi ai documenti ufficiali dell’esercito italiansavoiardo per cambiare una storia che ormai è scritta sulle pietre . Altro grande merito del Prof. Giuseppe Gangemi è quello di aver dato voce e nobiltà ai tanti ricercatori e studiosi locali che grazie alla loro passione, capacità e applicazione condita da una buona dose di entusiasmo, hanno dimostrato che la nostra storia è universale perchè è l’insieme di tante storie locali che hanno peso ed importanza enorme. Per ascoltare dalla viva voce del Prof. Gangemi i vari aspetti del libro “Senza tocco di Campane” nelle linee generali vi invitiamo a vederci venerdi 1 marzo alle ore 21 per la rubrica “Incontro con l’autore” e per farlo basta cliccare di seguito

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PROF. GIUSEPPE GANGEMI SCRIVE AD ALDO CAZZULLO (II)

Posted by on Dic 14, 2023

PROF. GIUSEPPE GANGEMI SCRIVE AD ALDO CAZZULLO (II)

Egregio dott. Aldo Cazzullo.

Nonostante abbia appena visto che la Rete di Informazione delle Due Sicilie ha lanciato, relativamente alle sue dichiarazioni antiborboniche, un post intitolato Prontuario anti-cazzulliano, io continuo a invitarla a un dialogo privato, con richiesta di un sicuro indirizzo postale a cui poterle inviare un mio libro documentatissimo su Fenestrelle. Questo al fine di aiutarla a uscire dalla sua persistenza situazione di inscienza con la quale disinforma i lettori della sua rubrica sul Corriere della Sera.

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