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A. Gramsci e l’Unità d’Italia

Posted by on Set 8, 2023

A. Gramsci e l’Unità d’Italia

Capitolo V Le sconfitte del biennio 1848-49 spostano “naturalmente” a destra tutto l’asse politico del Paese. Le parole d’ordine dell’unificazione del territorio nazionale e dell’indipendenza dall’Austria diventano oggettivamente prioritarie rispetto a quella dell’assetto istituzionale del nuovo Stato (monarchia o repubblica). […]

Ora è proprio sulla parola d’ordine di «indipendenza e unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d’Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di deviare l’attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano … «Sia che vuolsi – o dispotismo, o repubblica o che altro – non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via». Del resto tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell’unità.

[1] Tutto il decennio 1850-60, sotto un certo profilo, si può considerare come il periodo della sconfitta politica definitiva del partito dei democratici-repubblicani di Mazzini e della loro resa al partito dei monarchici-costituzionalisti di Cavour. Una sconfitta che culminerà con lo scioglimento del Partito Repubblicano e la formazione del Partito d’Azione, così chiamato in contrapposizione ad un più propagandato che reale ”partito d’ordine”. Si dimostra, in tal modo, che il discrimine fra i due schieramenti non passa più, ormai, attraverso contrapposti obbiettivi politici, ma, nell’ambito di un comune obbiettivo, tra chi, a dire del Mazzini, si adopera per realizzarlo e chi no. L’egemonia politico-culturale dello schieramento moderato su quello democratico, che nella propaganda politica “bi-partizan” dell’epoca passa attraverso l’appello alla battaglia unitaria per l’indipendenza nazionale, continuerà nei decenni successivi, come Gramsci ebbe a dire a proposito del fenomeno del “trasformismo” […]Il così detto «trasformismo» non è che l’espressione parlamentare dei fatto che il Partito d’Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato.

[2] ed influenzerà, a mio parere, tutta la storiografia post-unitaria e oltre. Tutto il Risorgimento, infatti, viene visto da questa storiografia come un susseguirsi di Guerre di Indipendenza, interpretando, dal “punto di vita italiano” anche la I Guerra mondiale come la IV Guerra di Indipendenza dall’Austria. Si finisce, così, per mettere sullo stesso piano l’Italia ed un qualsiasi paese coloniale, come potrebbe essere ad esempio l’India, in lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, economicamente più evoluta. Vengono, in tal modo, ad essere occultati del tutto la natura di classe del processo unitario, il blocco storico-sociale che ne è il protagonista, e lo scontro di classe che caratterizza, fin dai primi decenni, la vita dello Stato post-unitario, fino ad arrivare allo scontro fra nazioni capitalistiche, che nel primo conflitto mondiale hanno ormai raggiunto lo stadio dell’imperialismo e confliggono fra loro per la conquista di nuovi mercati, l’accaparramento delle materie prime e l’esportazione di capitali. Tuttavia, i primi anni del decennio ’50 – ‘60, nonostante le sconfitte delle Repubbliche di Roma e Venezia, sembrano quasi favorevoli al leader della Giovine Italia, che costituisce il Comitato centrale democratico europeo ed il Comitato nazionale italiano, come articolazione di quello. Di fronte alla chiamata mazziniana il silenzio di alcuni (Manin), in fase di ripensamento critico di tutta l’esperienza repubblicana, e, per ragioni opposte, il rifiuto aperto di altri (Cattaneo e Ferrari), motivato proprio dalla subordinazione della parola d’ordine repubblicana a quella dell’unità nazionale, lasciano trasparire la reale scarsa credibilità delle proposte politico-organizzative di Mazzini, la disgregazione in atto del suo schieramento politico ed il progressivo isolamento suo personale. L’isolamento politico del Mazzini si manifesterà apertamente, sia dopo il fallimento dell’insurrezione a Milano (1853), preceduta dalla scoperta dell’organizzazione mazziniana in Lombardia e dall’arresto e impiccagione dei suoi capi (martiri di Belfiore), sia con il tragico epilogo a Sapri della spedizione di C. Pisacane, che pur non essendo un mazziniano della prima ora, si era avvicinato al neo-costituito Partito d’Azione. Per la prima volta nell’opinione pubblica democratica, ad arte sollecitata dalla propaganda moderata, allo sdegno ed alla riprovazione per gli atti brutali compiuti da regimi reazionari, quali l’Impero austriaco e il Regno borbonico, si affianca e prevale la valutazione negativa del sacrificio umano imposto dai metodi di lotta mazziniani. Ma la perdita di egemonia del partito democratico sul movimento patriottico nazionale, in questa fase decisiva per il processo di unificazione, non può comprendersi, facendo riferimento solo ai due avvenimenti sopra richiamati, senza una valutazione, soprattutto, dei limiti soggettivi più complessivi, manifestati dalla sua leadership nel corso di tutto il processo. Abbiamo visto sopra (Cap.III) quanto arretrata fosse la situazione economica italiana e quanto complessa fosse l’articolazione di un programma per realizzare quella politica di alleanze necessaria a far marciare il processo unitario in senso democratico e repubblicano. […]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la questione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.

[3] […]Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all’attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzate» secondo un piano.

[4] […] La quistione deve essere impostata nei termini della «guerra di movimento – guerra d’assedio», cioè per cacciare gli Austriaci e i loro ausiliari italiani era necessario: 1) un forte partito italiano omogeneo e coerente: 2) che questo partito avesse un programma concreto e specificato; 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari (che allora non potevano essere che agricole) e le avesse educate a insorgere «simultaneamente» su tutto il paese. Solo la profondità popolare del movimento e la simultaneità potevano rendere possibile la sconfitta dell’esercito austriaco e dei suoi ausiliari.

[5] E’ indubbio che la definizione di questo programma doveva contemplare al suo interno la proposta di risoluzione della questione città-campagna e, unita ad essa, una proposta di risoluzione della questione istituzionale, rivendicando il sistema elettorale a suffragio universale. Questa era la vera priorità per i democratici ed il Partito d’Azione. […] Invece il Partito d’Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d’Azione, gli odii tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la sua attività da parte dei più gagliardi uomini d’azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche … Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa.

[6] Sarebbe stato necessario fare tesoro dell’esperienza della Rivoluzione francese e del giacobinismo storico, che i democratici italiani avrebbero dovuto studiare a fondo. Invece, […]…il Partito d’Azione fu sempre implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana

[7] e subì …l’atmosfera di intimidazione (panico di un 93 terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del 48-49) che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per esempio la riforma agraria). 

[8] […] Si può osservare ancora che lo spauracchio che dominò l’Italia prima del 1859 non fu quello del comunismo, ma quello della Rivoluzione francese e del terrore, non fu «panico» di borghesi, ma panico di «proprietari terrieri», e del resto comunismo, nella propaganda di Metternich, era semplicemente la quistione e la riforma agraria.

[9] […] Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e quella sul «maximum», si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece poté abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente sempre possibile. Paradossalmente, proprio in questo periodo (dopo il 1848) si dimostra più giacobino l’abate liberal-moderato V. Gioberti che non Mazzini: […]Dopo il 48, nel Rinnovamento, non solo non c’è accenno al panico che il 93 aveva diffuso nella prima metà del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere più dolci ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il 48 è da notare come fatto culturale molto importante: si giustifica con gli eccessi della reazione dopo il 48, che portavano a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese. Ma oltre a questo tratto è da notare che nel Rinnovamento il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi: 1) Nell’affermazione dell’egemonia politica e militare del Piemonte che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia: questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del 48. Il Gioberti sentì l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del 48, Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica-milizia il primo, per l’ideologia-religione la seconda. Dopo il 48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha il concetto del «popolare-nazionale» giacobino, dell’egemonia politica, cioè dell’alleanza tra borghesi-intellettuali [ingegno] e il popolo; ciò in economia (e le idee del Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte e concrete perché in questo campo c’è meno da compromettersi. …. In ogni modo che l’assenza di un «giacobinismo italiano» fosse sentita, appare dal Gioberti. 

[10] Il più grande difetto del Partito d’Azione, che poi è il punto di maggior distanza dal giacobinismo storico, è, quindi, quello di non aver capito ed affrontato la questione contadina. […]È evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali). Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche d’inquadra mento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno. 

[11] […]Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la questione agraria a favore dei contadini, ..non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia (fatti di Milano del febbraio 53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma paralizzò lo stesso Partito d’Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo dopo il febbraio 53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. … La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la questione del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni. Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di [una] riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti nelle provincie, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza immediati. (Bisognerebbe studiare attentamente la politica agraria reale della Repubblica Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 – anche dopo – col nome di brigantaggio si intendeva quasi sempre il movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra).

[12] […] È da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente.

[13] L’impostazione mistico-idealistica dell’azione politica, unitamente ai suoi pregiudizi antifrancesi, impediscono a Mazzini di porsi ed affrontare la questione contadina e di utilizzare in questo campo il contributo che può venire proprio da un democratico, specialista in materia, Giuseppe Ferrari. […]… Ferrari … fu lo «specialista» inascoltato di quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e viventi alla giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti …. Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche oggi di ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più diffuso, in modo rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è, con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario …. La quistione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato… Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva sotto la forma di un fenomeno pauroso di pauperismo.

[14] Un altro elemento che rimarca la distanza fra Partito d’Azione in Italia e giacobini in Francia è quello della volontà di diventare il partito dirigente della classe di riferimento, la borghesia, che portò i francesi a condurre una lotta senza quartiere contro i partiti rivali: […] Nel Partito d’Azione non si trova niente che rassomigli a questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e l’ordine internazionale vigente e contro una potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarre elementi per una maggiore energia all’interno: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo praticamente più efficace, non divenne elemento politico attivo. Si trasformò «curiosamente», in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin dopo il 1898.

[15] Infine, un ultimo elemento, che rivela la vacuità del programma politico dei democratici e la loro incapacità di porsi come partito egemone nel processo unitario, è la mancata definizione della questione politico-militare. La questione politico-militare nasce dalla presenza in Italia di un esercito, quello austriaco, vero gendarme posto a tutela dei regimi più reazionari e dalla necessità di dare continuità alle esperienze di volontariato che episodicamente, ma spesso con grande successo, vengono messe in campo man a mano che scoppiano moti insurrezionali (vedi il ’48, la Repubblica romana, la stessa spedizione dei Mille). Nonostante che fra i democratici militino capi militari geniali e capacissimi, primo fra tutti G.Garibaldi, e teorici del calibro di C.Pisacane, la questione militare non viene mai messa all’ordine del giorno e dibattuta nel movimento democratico, che per questo finisce, anche sotto il profilo militare, per fungere da stampella dei moderati, in questo caso dell’esercito piemontese, i cui capi, pur sfruttandone le capacità, non vorranno mai riconoscere il valore e l’importanza del Corpo dei Volontari. (Esempio emblematico sarà la richiesta di Garibaldi, avanzata dopo l’impresa vittoriosa dei Mille nel Regno dei Borboni e respinta dal re e dalle gerarchie militari, di integrare nell’esercito regolare italiano, con il grado conseguito da ciascuno in battaglia, gli ufficiali del Corpo dei Volontari) . Così come per la questione agraria G.Ferrari rappresenta il teorico, le cui conoscenze potrebbero essere messe a frutto dal movimento democratico, nella questione politico-militare della costruzione dell’Esercito di Liberazione Nazionale, embrione del futuro Esercito Italiano, Carlo Pisacane, che pur possiede la visione strategica e la capacità di affrontare il problema, non viene minimamente coinvolto, rimanendo isolato. […] Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi, ….comprende, a differenza del Mazzini, tutta l’importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola, e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare dell’Impero asburgico, cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.

[16] Dal punto di vista politico-militare, Gramsci accosta Pisacane a Machiavelli, nelle cui […]…scritture politico-militari … è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura. A questa corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo Pisacane, per il quale il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari (dopo averle suscitate con la propaganda) è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito del Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione: il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone, trapiantati a Napoli sotto i regni di Giuseppe Buonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone….; Pisacane comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria, ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati Maggiori dell’antico regime.

[17] Tuttavia, i limiti che caratterizzano il movimento democratico si riflettono anche nelle proposte politiche di Pisacane, che, per di più, rimane anche isolato. […]La verità è che il programma del Pisacane era altrettanto indeterminato di quello del Mazzini e anch’esso segnava solo una tendenza generale, che come tendenza era un po’ più precisa di quella del Mazzini.

[18] […]….anche per il Pisacane è da dire che non rappresentava nel Risorgimento una tendenza «realistica» perché isolato, senza un partito, senza quadri predisposti per il futuro Stato ecc.

[19] Riepilogando, mi pare che le differenze più grosse fra il Partito dei democratici-repubblicani italiani ed il giacobinismo storico francese che sono, anche, le critiche più importanti che Gramsci muove al Partito d’Azione (come si chiamerà a partire dalla metà degli anno ’50 il partito democratico) si possano riassumere in : 1. mancanza di volontà nel diventare partito egemone dello schieramento borghese, attraverso una battaglia politica condotta contro gli schieramenti politici avversi e 2. mancanza di un programma politico articolato, comprendente al suo interno la questione agraria e la questione militare. Sul fronte opposto a quello dei democratici gli avvenimenti del biennio 1848-9 operano una chiarificazione politica e favoriscono l’isolamento della componente più oltranzista dell’aristocrazia piemontese (Solaro della Margherita), antiliberale ed antidemocratica più che anti-austriaca, a tutto vantaggio della componente più moderata che per raggiungere l’obbiettivo dell’unificazione nazionale non disdegna l’alleanza con il movimento democratico, anche se nel rapporto di alleanza si adopera a tenerlo in posizione subordinata, evitando di riconoscerne pubblicamente la dignità, ed evitando, soprattutto, che siano le masse popolari a rendersi protagoniste del processo. Sconfitta dai fatti l’ipotesi politica neo-guelfa, sostenuta da Gioberti, di pervenire all’unità attraverso una Confederazione di Stati a guida papalina, sempre di più si fa strada l’ipotesi che sia il Piemonte e la monarchia sabauda a dover svolgere un ruolo di unificazione-allargamento del Regno, sfruttando all’uopo quel gioco di alleanze internazionali che sempre più si volge contro l’Impero austro-ungarico. E’ Cavour il vero protagonista-regista del decennio 1850-60. Secondogenito della famiglia dei Benso, nobili titolari della Contea di Cavour, eredita dal padre la tenuta di Leri, che la famiglia ha acquistato per denaro ai tempi del Regno napoleonico, e la trasforma negli anni quaranta in una moderna azienda capitalistica, specializzata nella produzione risicola, che Camillo commercializza direttamente, girando per i principali Paesi europei. Di formazione politica cattolico-liberale, entra in politica stimolato dall’azione riformatrice di Pio IX, ma ben presto antepone il liberalismo al cattolicesimo. Fonda e dirige con Balbo il giornale Il Risorgimento, dalle cui pagine incita la monarchia sabauda all’intervento anti-austriaco             durante le cinque giornate di Milano. Nel ’49 diventa deputato ed una delle sue prime leggi istituisce una imposta fondiaria, giuridicamente modellata su quella vigente nei paesi più progrediti (Francia e Inghilterra), che colpisce la rendita fondiaria, ed in particolare quella degli Enti ecclesiastici (imposta di manomorta), favorendo gli investimenti capitalistici in agricoltura. Resosi conto della mancanza di prospettive della proposta politica neo-guelfa, si adopera con successo per la costruzione di un nuovo schieramento centrista, che, isolate le componenti della destra più oltranzista, unisce i liberali moderati con i democratici più realistici (Rattazzi-Correnti-Dabòrmida) sulla base di una piattaforma politica di compromesso che prevede laicizzazione e modernizzazione del Regno piemontese, senza, però, la pregiudiziale repubblicana e la rivendicazione del suffragio universale o solo di un suo allargamento. E’ la politica del cosiddetto connubio. L’arte del compromesso e l’indubbia capacità politica di saper sfruttare a proprio vantaggio gli avvenimenti consentono a Cavour di spaccare ulteriormente il fronte democratico, già in crisi di identità agli inizi degli anni cinquanta, e di approfondirne lo smembramento, attirando sul partito liberal-moderato le simpatie di tutti i democratici, con l’offerta di asilo politico e di indennizzo economico per le proprietà confiscate agli esuli milanesi dopo le cinque giornate e con il ritiro dell’Ambasciatore piemontese da Vienna dopo le condanne a morte di Belfiore. L’operazione politica appena descritta, che marcia di pari passo con la perdita di credibilità del Mazzini, di cui si è detto sopra, culmina, dopo i fallimenti dell’insurrezione milanese del ’53 e soprattutto della spedizione di Pisacane, con la costituzione della Società Nazionale, fondata a Torino nell’agosto del 1857 dagli esuli di tutta Italia sulla base della proposta di pervenire all’unità sotto la bandiera sabauda, a cui aderirà anche Garibaldi. L’inserimento del Piemonte nel gioco internazionale di alleanze anti-austriache che si svolge nello scacchiere europeo, prima con la guerra di Crimea e poi con i contatti ed i trattati con la Francia e l’Inghilterra, completa l’operazione politica che consente al Regno piemontese di essere il vero protagonista del processo di unificazione, sfruttando a proprio vantaggio anche l’impresa dei Mille, guidata da Garibaldi. Non va dimenticato, a riguardo, che le condizioni internazionali favorevoli al processo di unificazione, in parte costruite dal Cavour ed in parte determinatesi spontaneamente, vengono ad arte esagerate per sminuire l’importanza del contributo popolare “spontaneo” portato al processo stesso, che in tal modo appare nella forma di progressive annessioni di territori al regno piemontese, suggellate da plebisciti popolari. […] I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa popolare, è un’altra quistione.

[20] Ma al di là delle indubbie capacità politiche di Cavour, occorre analizzare, con le parole di Gramsci, quali sono le condizioni storico-politiche che consentono ai moderati di esercitare un rapporto di egemonia (direzione) su tutto il movimento democratico e quali i metodi adottati. […]…storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re…. I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il così detto «trasformismo» non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.

[21] Occorre su questo tema indagare più in profondità di quali classi sociali furono espressione i moderati e quali metodi adottarono per esercitare l’egemonia sui democratici: […]Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati…

[22] …. I moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, cioè i moderati erano un’avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione.

[23] […] In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè attraverso l’iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all’azione pratica e organizzativa). D’altronde, cioè era «normale», date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico. Per il Partito d’Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati.

[24] Con riferimento a quanto detto da Gramsci a proposito dei moderati, si può meglio comprendere il ruolo essenziale da lui attribuito, in generale, agli intellettuali nell’esercizio dell’egemonia (direzione) della classe rivoluzionaria sulle altre (soprattutto nella fase della presa del potere, quando la mancanza di mezzi di coercizione e di ricatto affidano inequivocabilmente al solo convincimento spontaneo la forza di attrazione e coesione del blocco storico-sociale) ed il ruolo e la funzione degl’intellettuali organici, cioè di quegl’intellettuali che, essendosi fusi con la classe di appartenenza, meglio ne rappresentano le aspirazioni immediate e future, e di come questi possano svolgere un ruolo catalizzatore su tutto il restante ceto intellettuale . […] Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione. Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami di ordine psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico-giuridici, corporativi, ecc.).

[25] E, parlando della capacità di attrazione sugli intellettuali da parte dei moderati, a cominciare da V.Gioberti, in misura diversa e progressivamente maggiore di quella esercitata dai democratici e da Mazzini in particolare, Gramsci dice: Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano apparire come vuote chiacchiere (l’abate Galiani aveva insegnato a sfottere quel modo di pensare e di ragionare).

[26] Ma è soprattutto nella struttura scolastica laica, riformata dallo Stato piemontese, con cui vengono a contatto gli intellettuali esuli della penisola che si realizzerà la conquista degli intellettuali alla causa dei moderati, condizione essenziale per la gestione dell’apparato dell’istruzione pubblica del futuro stato unitario. Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogico concreto opposto alla scuola «gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi: l’aveva allora anche maggiore di oggi, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento dei partiti, industria, apparato statale estesissimo ecc. hanno allargato in modo inaudito le possibilità di impiego). L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della vita, una filosofia (Gioberti), che offra agli aderenti una «dignità» intellettuale che dia un principio di distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie dominanti coercitivamente; 2) Un programma scolastico, un principio educativo e pedagogico originale che interessi e dia un’attività propria, nel loro campo tecnico, a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai professori di Università). I Congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1) riunire gli intellettuali del grado più elevato, concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una più rapida concentrazione e un più deciso orientamento negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati normalmente a seguire gli Universitari e i grandi scienziati per spirito di casta. Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto dell’egemonia dei moderati. Un partito come quello dei moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali. (Per questa funzione di partito italiano di governo servì ottimamente dopo il 48-49 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che avrebbe fatto un futuro Stato unificato).[27]

fonte

https://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custbb24-008295.htm

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