ABOLIZIONE DELLA FEUDALITA’ NEI REGNI DI NAPOLI E DI SICILIA
In seguito alla vittoria conseguita sull’esercito asburgico a Bitonto e all’ascesa sul trono di Napoli e di Sicilia della dinastia borbonica si crearono le condizioni storiche ideali affinché, le idee assolutistiche di marca esplicitamente illuministica prendessero largamente piede. Sulla scorta delle pensiero innovatore volto a ridimensionare prima il potere politico, e poi quello sociale ed economico, del clero e delle classi aristocratiche del regno, fu stipulato un nuovo patto concordatario nel 1741 tra la sede apostolica e il reame borbonico.
In applicazione dei dettami contenuti nel concordato, nel 1741 fu introdotto, tramite decreto reale di Carlo di Borbone, un blando sistema di tassazione sui beni ecclesiastici e progressivamente furono imposte delle limitazioni al diritto d’asilo nei luoghi di culto cattolico (unica religione dello stato).
Il provvedimento legislativo del 1741 si innestò, inoltre nel più vasto programma di razionalizzazione e di riforma organica del sistema tributario portato avanti dal governo napolitano culminato con l’istituzione del celeberrimo catasto onciario carolino.
Le disposizioni del 1741 non mettevano in discussione neanche teoricamente l’assetto feudale del regno di Napoli (non era neanche nella volontà del sovrano abolire gli istituti giuridici nati in età feudale), ma indubbiamente il provvedimento determinò l’inizio della crisi dell’antica impalcatura organica e tradizionale della monarchia sacrale nel meridione d’Italia. Il lento processo rivoluzionario volto alla sostituzione delle antiche franchigie feudali con un nuovo regime monarchico di stampo assolutistico era stato innescato anche nelle successive decadi per impulso del ministro e reggente Bernardo Tanucci. Con la celebre prammatica XXIX denominata “de administratione universitatum” del 23 febbraio 1792 promulgata dal Re Ferdinando IV di Napoli fu regolata, per la prima volta, la questione delle ripartizioni dei demanii e fu introdotto de facto, l’affrancamento delle servitù civiche. Seguì la legge eversiva della feudalità del 2 agosto 1806 del governo di Giuseppe Bonaparte (“la feudalità con tutte le attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, e i proventi qualunque che vi siano stati annessi sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili”). Abrogò interamente la legislazione antecedente sulla feudalità nei soli territori del regno di Napoli (il Re Giuseppe Bonaparte rivendicava formalmente anche la sovranità politica sulla Sicilia controllata dagli anglo – borbonici), accrescendo da un lato la potestà dello stato sulla società e il monopolio della sovranità politica del Regno a danno dei diritti conculcati del ceto baronale e aristocratico e, dall’altra, contribuendo a parcellizzare e a frammentare le vaste proprietà terriere. Il provvedimento proseguì con la legge del primo settembre del 1806 e con il decreto reale del 3 dicembre 1808, attraverso il quale, si affidava agli intendenti di ciascuna provincia del regno il compito di determinare i diritti riconosciuti degli antichi baroni. Per risolvere, infine, i contenziosi tra le popolazioni e gli aristocratici il Re Giuseppe Bonaparte istituì uno speciale organismo che chiamò da subito commissione feudale (di cui diventerà responsabile David Winspeare nel 1808) con i compito di ridimere i “contrasti di ogni natura tra le università e i baroni”. Il termine fu prorogato con un ulteriore decreto reale il 28 novembre 1808. Dalla detta commissione, in pochissimi mesi, furono emesse oltre 3000 sentenze, che furono riconosciute valide nel periodo della restaurazione per il Napoletano dal Re Ferdinando I delle Due Sicilie. Infatti quest’ultimo non abrogò la legislazione in materia feudale e, più in generale, amministrativa, del cessato governo murattiano. Più in generale, non allontanò molti degli esponenti di spicco del governo murattiano, preferendo assumere una condotta politica tesa alla pacificazione e alla riconciliazione tra le istanze reazionarie e controrivoluzionarie presenti in alcuni ambienti della corte borbonica e quelle di chiaro carattere rivoluzionario propugnate dai notabili del precedente regime napoleonide.
Questo atteggiamento politico fu denominato dagli storici l’amalgama. In Sicilia, diversamente da quanto era accaduto nel reame napoletano, i diritti feudali furono abrogati dallo stesso regime anglo – borbonico relegato sull’isola durante il decennio francese, con l’entrata in vigore della costituzione del regno di Sicilia del 1812 (istituto di chiaro stampo liberale britannico) sotto l’asfissiante influenza del vicerè William Bentinck. Altri provvedimenti in materia si ebbero, ad opera di Francesco I e Ferdinando II, nel 1825, nel 1838 e nel 1841.
In definitiva, l’abolizione della feudalità nel regno di Napoli si ha, ufficialmente, con la legge firmata da Giuseppe Bonaparte nel 1806. La strada era stata però già aperta dalla prammatica di Ferdinando IV nel 1792. In Sicilia il feudalesimo viene abrogato solo con la costituzione del 1812 e le Due Sicilie, al momento della restaurazione nel 1815 vedono cancellato il sistema del feudo sia al di là che al di qua del faro.
L’abolizione nel Regno avviene però con ritardo, se paragonato a quanto successo in alcuni degli altri stati italiani esistenti all’epoca. Tra i primi paesi ad abolire il feudalesimo ci fu il Granducato di Toscana con il provvedimento del 16 marzo 1749, cui seguirono, fino al 1789, tutta una serie di norme con cui si confermò sempre più il nuovo sistema amministrativo. Come nel caso della legge del 24 aprile 1783 pose fine al diritto di caccia sulle terre dei vassalli, o ancora il 12 marzo dello stesso anno si passò all’abolizione del diritto di pascolo. A testimonianza di questa verità un brano tratto dal Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana: contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, volume 5, compilato da Emanule Repetti (socio ordinario dell’imperiale e regia accademia dei georgofili e di varie altre), stampato a Firenze presso l’autore e editore coi tipi di Giovanni Mazzoni nel 1843 che riporto qui di seguito:
“Altro esame sullo stesso feudo della Triana fu instituito ad istanza del conte Spinello Piccolomini, nel tempo che egli tentava, sebbene invano, di liberarsi dal rigore della legge del 21 aprile 1749 relativa all’abolizione delle giurisdizioni feudali” (1).
La stessa contenutistica si evince da un intervento del deputato De Witt presso la camera dei Deputati del parlamento subalpino di Firenze nel 1867:
“Di diritti feudali e di feudalismo nelle province toscane sono degli anni assai che non se ne deve più parlare; e poiché tanto l’onorevole Capone, quanto l’onorevole ministro di agricoltura e commercio hanno parlato di questi diritti feudali, così io dico che queste frasi altro non sono che un fantasma che ci si mette davanti come cosa reale cui dovbbiamo combattere […] Volete vedere che in toscana non vi è ombra di feudalismo, e che noi oggi vogliamo uccidere un uomo morto? I diritti feudali così detti politici, il diritto di imporre tasse, il diritto di imporre pedaggi, i diritti di mero e misto imperio furono aboliti definitivamente in Toscana colla legge 16 marzo 1749, e non se ne parla più. Rimanevano i così detti diritti civili dei faudatari, e questi con successive leggi furono tolti uno ad uno. Infatti colla legge del 24 aprile 1783 fu abolito il diritto che avevano i feudatari di andare a cacciare nelle terre dei loro vassalli; colla legge del 12 marzo dello stesso anno fu abolito il diritto di pascolo e di legmatico sui fondi dei soggetti; con la legge 11 dicembre 1785 fu abolito l’obbligo che avevano i vassalli di andare a macinare il proprio grano al mulino del feudatario, a frangere le proprie olive al frantoio del feudatario. Rimanevano quelle leggi le quali incatenavano alla feudalità i beni feudali, le leggi le quali vietavano di disporre dei beni feudali senza preventiva autorizzazione, e di disporne in onta all’atto di fondazione. Or bene, questo rimasuglio dei diritti feudali fu abolito colla legge del 23 febbraio 1789, colla quale furono aboliti i fidecommessi esistenti,e fu vietato di crearne di nuovi. Quindi la mala pianta del feudalismo fu atterrata fino dal 1789, e se ne rimase qualche sterpo, qualche ricacciaticcio, questi rimessi furono fino alla radice sbarbati e sterpati dalle leggi della rivoluzione francese, che furono pubblicate in Toscana e v’imperarono fino al primo maggio 1814. Fu ripristinato il Governo lorenese nel 1814; e, sebbene esso abolisse tutta la legislazione francese, che era statain vigore durante l’occupazione francese, pure nel motuproprio del 15 novembre 1814 così dichiarò (mi permetta la Camera che legga questo brevissimo articolo della legge toscana, relativo alla conservazione di una parte della legislazione francese): Resta ferma l’esecuzione delle legi del cessato Governo, che riguardano la feudalità, i fidecommessi, le commende e qualunque altro vincolo di che fossero stati affetti i beni immobili”(2).
Altro caso significativo, nel panorama italiano (e antecedente anch’esso al caso di Napoli), è costituito dalla Lombardia che si trovava sotto il governo austriaco di Maria Teresa. Nel 1774 con un editto del 6 giugno, Maria Teresa d’Asburgo creò numerose Prefetture Regie per regolare le regalie straordinarie. Nel 1786 vi fu l’abolizione del Senato di Milano, eredità del sistema municipale e ducale, e si assistette alla parificazione tra le preture regie e quelle feudali ad opera di un editto dell’11 febbraio firmato da Giuseppe II. Nel 1792 il fratello Leopoldo II confermò, una volta asceso al trono, i provvedimenti precedentemente assunti e respinse le richieste di modifiche avanzate dai vecchi feudatari.
Sulla mancata abolizione della feudalità nel regno di Napoli sotto Carlo di Borbone fa fede anche quanto sostenuto dallo storico Vittorio Gleijeses:
“Il regno indipendente non apportò grandi cambiamenti alle istituzioni municipali napoletani: rimasero immutate le funzioni dei seggi, degli eletti, delle deputazioni e del tribunale di San Lorenzo che ebbe riconfermata anche la sua autorità sull’annona […] Le riforme che re Carlo avrebbe voluto attuare si dimostrarono troppo difficili all’atto pratico anche perché tutto il sistema fiscale era in effetti nelle mani di alcuni creditori dello stato, gravando pesantemente sul popolo, anche se Napoli, a differenza delle altre città, godeva di alcuni privilegi”(3).
Conclusione.
La politica detta dell’amalgama adottata dal governo borbonico nel periodo della restaurazione scontentò tanto i legittimisti, e più in generale, i più leali servitori della patria napoletana, sia gli innovatori rivoluzionari murattiani o repubblicani. Si cercò sotto il regno di Ferdinando I una posizione equilibratrice tra due visioni del mondo e della realtà completamente opposte. Vennero quindi a crearsi progressivamente dei fattori interni di forte destabilizzazione dell’apparato amministrativo e delle stesse forze armate del regno e una lenta ed esiziale erosione di consenso intorno al trono delle Due Sicilie. Questa crisi latente si paleserà con i rivolgimenti costituzionali del 1820-21 e si manifesterà ulteriormente nel biennio rivoluzionario 1848-49 nel napoletano e in Sicilia sotto il governo costituzionale di Ruggero Settimo fino al collasso definitivo socio – politico dello stato nel 1860 – 61
(1) Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana: contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, volume 5, compilato da Emanule Repetti (socio ordinario dell’imperiale e regia accademia dei georgofili e di varie altre), Firenze presso l’autore e editore coi tipi di Giovanni Mazzoni, 1843, pag. 598.
(2) Intervento dell’onorevole De Witt al parlamento di Firenze del 1867. Atti del parlamento subalpino, anno 1867, Firenze, eredi Botta, tipografi della camera dei deputati, Palazzo Vecchio.
(3) V. GLEIJESES, La storia di Napoli dalle origini ai nostri giorni, Società editrice napoletana, 1977, p. 674.