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ADUA 1896,LA BATTAGLIA CHE FECE CROLLARE LA CLASSE POLITICA RISORGIMENTALE

Posted by on Lug 4, 2024

ADUA 1896,LA BATTAGLIA CHE FECE CROLLARE LA CLASSE POLITICA RISORGIMENTALE

Sono pochi gli Italiani che sanno che Adua è una città dell’Etiopia. Ancor meno sanno che oltre un secolo fa vi si svolse una sanguinosa battaglia tra le truppe italiane e quelle etiopi. Quasi nessuno è a conoscenza che tale battaglia, combattuta così lontano dal territorio nazionale, costituì un evento decisivo per la storia d’Italia.

L’Italia di fine Ottocento aveva al potere la classe politica formatasi durante le vicende risorgimentali. Lo stesso monarca, Umberto I di Savoia, aveva combattuto nella II e nella III guerra d’indipendenza, succeduto al trono del padre nel 1878.

Quando si pensa ad Adua, vengono in mente soprattutto due personaggi, ambedue appartenenti ai Mille: Francesco Crispi, presidente del Consiglio, e Oreste Baratieri, governatore della colonia Eritrea e comandante delle truppe coloniali.

Francesco Crispi, siciliano di Ribera, era stato il più importante tra gli organizzatori della spedizione dei Mille che portò all’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Era al quarto incarico di presidente del Consiglio. Col passare degli anni, da rivoluzionario mazziniano si era trasformato in conservatore monarchico. Fin da giovane era affiliato alla massoneria inglese.

Oreste Baratieri nacque nel 1841 in un borgo del Trentino e partecipò giovanissimo alla spedizione dei Mille. Grazie a una legge del 1872, l’ex ufficiale garibaldino, che non aveva frequentato accademie e mancava di cognizioni strategiche, divenne ufficiale di carriera “per meriti storici”. Egli, inoltre, si era portato dietro un’altra dote molto utile, cioè un buon numero di amici potenti che con lui avevano indossato la camicia rossa: Crispi, Zanardelli e Nicotera, tutti poi diventati importanti uomini politici. Anche Baratieri si era buttato in politica, ed era molto più a suo agio tra i corridoi di Montecitorio che nei campi di battaglia. Aveva giocato anche un’altra carta pesante per fare carriera: l’appartenenza alla massoneria come insignito del 33° e ultimo grado del rito scozzese.

Nel 1895 la situazione politica di Crispi era critica: le rivolte dei lavoratori in Sicilia e in Lunigiana erano state represse nel sangue e con migliaia di arresti e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto direttamente lo statista siciliano. Crispi, il quale voleva innalzare l’Italia a potenza imperiale, scimmiottando Francia e Inghilterra, tentò di distrarre l’opinione pubblica con l’avventura coloniale in Abissinia.

La storia coloniale italiana era iniziata nel 1882, quando il governo di Roma aveva acquistato il possedimento di Assab dalla Società di Navigazione Rubattino, la stessa che nel 1860 si era salvata dal fallimento facendosi rimborsare dal governo di Torino le due navi Lombardo e Piemonte “trafugate” dai Mille di Garibaldi per la spedizione in Sicilia. Nel 1890 fu fondata ufficialmente la Colonia Eritrea con capitale Massaua. Tra l’Italia e l’Etiopia era stato firmato nel frattempo il trattato di Uccialli, che in sostanza riduceva l’Etiopia a un protettorato italiano. Il re Menelik, ignorando il trattato, attuò una politica estera autonoma, trattando direttamente con la Russia e la Francia. Così nel 1895 scoppiava la cosiddetta guerra d’Abissinia. Inizialmente Baratieri riuscì ad avanzare e a occupare la regione del Tigré. Ma alla fine del 1895 Menelik era riuscito a organizzare una forza di oltre 100.000 uomini, armati in maggioranza con moderni fucili e con cannoni, respingendo le truppe italiane dall’Amba Alagi e da Macallé. Menelik offrì la pace al governo italiano, a patto di modificare il trattato di Uccialli, ma Crispi aveva un’altra idea: voleva la guerra e l’impero.

I tentennamenti di Baratieri, che con circa 18.000 uomini non si sentiva di attaccare l’armata nemica molto più numerosa, provocarono l’invio di un telegramma da parte di Crispi:

Codesta è una tisi militare, non una guerra; piccole scaramucce sulle quali ci troviamo sempre inferiori di numero davanti al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare perché non sono sul luogo; ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della Monarchia.

Baratieri aveva finalmente capito che le truppe etiopi non erano i 30-40.000 che aveva valutato, ma molti di più. Così, si convinse che sarebbe stato molto più prudente ritirare la sua unità verso i confini dell’Eritrea, per ridurre le linee logistiche e attestare le truppe in posizioni più difendibili. La sera del 27 febbraio riunì il suo Stato maggiore e i comandanti delle brigate dipendenti per far valutare la sua proposta di ritirata. I suoi generali erano quasi tutti piemontesi, casta che costituiva ancora il gruppo più potente e influente dell’esercito. Questi, sottovalutando il nemico e credendo alla superiorità tecnica, tattica e morale degli europei sugli africani, votarono tutti per attaccare. Il più duro e deciso si mostrò il generale Giuseppe Arimondi, comandante della I brigata, in contrasto da tempo con Baratieri, dicendo in dialetto piemontese «Lanciamo quattro granate ed è fatta». Era una superbia che sarebbe stata duramente pagata.

Il piano prevedeva di occupare alcune colline vicine al campo nemico, in modo da obbligare il Negus a dare battaglia da una posizione sfavorevole o a ritirarsi. Le truppe italiane si mossero la sera del 29 febbraio col favore delle tenebre, divise in tre colonne più una riserva. A destra marciava la II brigata del generale Vittorio Dabormida, al centro la I brigata del generale Giuseppe Arimondi, a sinistra la brigata ascari del generale Matteo Albertone, in riserva la III brigata del generale Giuseppe Ellena.

 Lo Stato maggiore di Baratieri non era in possesso di carte topografiche esatte e molti dei suoi informatori erano spie nemiche. In avanguardia era la brigata Albertone, molto più agile perché formata da indigeni. Sbagliando posizione, Albertone si schierò su una collina più avanti diversi chilometri rispetto a quella prevista. La mattina presto del 1° marzo fu attaccato con veemenza dagli etiopi, i quali sfondarono la prima e la seconda linea, costringendo Albertone ad arretrare. Alle 11 del mattino, aggirata su un fianco, la colonna di ascari fu scompaginata e lo stesso Albertone catturato. I superstiti fuggirono verso la colonna centrale.

Baratieri, udito un intenso frastuono di fucileria proveniente da sinistra, ordinò a Dabormida di marciare in soccorso di Albertone, ma questi sbagliò strada e si infilò in un vallone, perdendo il contatto con il fianco destro di Arimondi e andando a finire nel campo degli etiopi. Pressata da tre lati da numerosissimi nemici, la II brigata subì altissime perdite. Lo stesso generale Dabormida fu ucciso. Nel pomeriggio, ormai isolati, i superstiti riuscirono a ritirarsi agli ordini del colonnello Ragni.

La collina lasciata da Dabormida, il Rebbi Arienni, fu occupata dalla brigata Ellena, mentre Arimondi si dirigeva verso Albertone. Gli etiopi che inseguivano gli ascari fuggitivi, alle 10 del mattino si abbatterono sulla brigata Arimondi, accendendo furiosi combattimenti. Aggirata da ambedue i fianchi la posizione di Arimondi, Baratieri inviò alcune unità della riserva per chiudere le falle, ma il nemico era troppo numeroso. A mezzogiorno, caduto Arimondi, la I brigata cedette. Mezzora dopo Baratieri ordinò la ritirata generale.

L’esperienza di quel combattimento selvaggio e senza tregua fu per gli italiani traumatico. Molti, quando circondati dal nemico, si suicidarono o si fecero uccidere senza opporre resistenza. Sul campo di battaglia di Adua rimasero quasi 5000 italiani e 2000 ascari, 1500 furono i feriti e 2700 i prigionieri. Neppure nelle più sanguinose battaglie del Risorgimento le truppe sabaude avevano avuto una percentuale di perdite così alte. Le cifre delle perdite etiopiche non sono concordanti, e vanno dai 4000 ai 10000 caduti e dagli 8000 ai 20000 feriti. La sconfitta degli italiani dimostrava che gli eserciti europei in Africa non erano invincibili, e Adua divenne per gli africani un simbolo di lotta vincente al colonialismo.

Le poche unità italiane superstiti ripiegarono in Eritrea.  Il 3 marzo Baratieri inviò un telegramma al governo informandolo della sconfitta e addossando la responsabilità alla codardia dei suoi soldati. Il 4 marzo il generale Antonio Baldissera, detto l’austriaco, giunse nella colonia, rilevando dal comando Baratieri il giorno seguente. Rientrato in Italia, Baratieri venne imputato da una corte marziale di aver preparato un piano d’attacco “ingiustificabile” e di aver abbandonato le sue truppe sul terreno; per non pregiudicare l’onorabilità del Regio Esercito e non coinvolgere la corona, fu assolto da queste accuse con una discussa sentenza, nella quale comunque fu descritto dai giudici come “del tutto inadatto” per il comando, e la sua carriera militare ebbe fine.

Giunta la notizia della disfatta in Italia, scoppiarono tumulti in molte città, tra cui Torino, Milano, Firenze e a Napoli, dove al porto la folla si oppose alla partenza di altre truppe per l’Africa. Durante le sommosse vennero occupate le stazioni ferroviarie, divelte le traversine e i binari ferroviari per ostacolare l’invio di altri soldati in colonia, assaltate prefetture, sedi di giornali filogovernativi o che si erano mostrati a favore dell’impresa coloniale. Oltre alle forze di polizia, dovette intervenire l’esercito per riportare l’ordine. L’intero Paese subì un trauma che fece perdere al popolo molte di quelle certezze acquisite nei decenni precedenti. La crisi istituzionale sboccò nelle dimissioni di Crispi, sostituito dal governo del suo conterraneo Antonio Starabba di Rudinì.

Mentre in Italia si accendevano i disordini, i prigionieri italiani e ascari erano avviati verso Addis Abeba con una marcia estenuante per migliaia di chilometri che provocò una cinquantina di decessi. Mentre agli ascari prigionieri, considerati traditori, furono amputati la mano destra e il piede sinistro, i soldati italiani non furono trattati male. Inizialmente furono assistiti dalla Missione Sanitaria Russa, ma anche la popolazione etiope e il clero furono generosi. Mancò un’assistenza diretta dello Stato italiano per il quale quegli uomini in cattività costituivano un grave imbarazzo.

Il 26 ottobre 1896 si giungeva finalmente al trattato di pace tra i due contendenti: il trattato di Uccialli fu abrogato, il Negus riconobbe la sovranità italiana sull’Eritrea e furono fissati i confini. Il governo italiano si impegnava a evitare qualsiasi ingerenza nella politica etiope. Inoltre, il governo italiano pagò a quello etiope una somma quale rimborso per il mantenimento dei prigionieri. Il rimpatrio iniziò nel febbraio del 1897. Gli ex prigionieri furono ricevuti con diffidenza e vergogna dalle autorità e dalla popolazione in Eritrea. La classe politica non voleva far vedere quei reduci sconfitti, prova della loro imperizia e dei loro crimini. Furono fatti sbarcare a Napoli di notte, mentre i carabinieri tenevano lontana la popolazione. Inoltre, furono diffidati a parlare con i giornalisti della loro drammatica esperienza. I reduci dalla prigionia si ammutolirono e furono pochissimi a lasciare degli scritti. Tra questi, l’ufficiale Gherardo Pantano così scrisse:

Cominciavamo a capire, dopo aver scorso, passati tanti mesi, alcuni giornali italiani, di dover scontare i grattacapi procurati agli uomini di governo con la nostra prigionia: avevamo il torto di non essere morti tutti […] Così finì la prigionia in Abissinia di cui, dopo tanti anni, posso dire che non fu il periodo più triste della mia vita.

Per quegli uomini il ritorno fu più doloroso della prigionia. Il nuovo presidente del Consiglio Antonio Starabba di Rudinì, che avrebbe dovuto compiere il bene dei cittadini italiani, in particolare di quelli al servizio della Nazione, così disse durante le trattative di pace:

Se Menelik voleva una indennità di guerra doveva venire a prendersela di viva forza a Roma […] Poco importa se il mio rifiuto farà soffrire e morire i prigionieri. Il mio dovere è di rifiutare qualsiasi indennità, il dovere loro è di morire per il decoro della patria. Potrò rimborsare le spese effettivamente sostenute per il loro mantenimento, ma non di più […]

Così la classe politica italiana si scrollava da dosso le gravissime responsabilità del disastro africano.

Chiusa questa vicenda, in Italia aumentavano le tensioni politiche e sociali, e proseguivano i violenti disordini a causa della grave crisi economica causata dalla disastrosa guerra coloniale, dalla corruzione diffusa, dallo scandalo bancario e dal conseguente fallimento di molte imprese. La classe di potere formatisi nel Risorgimento, ormai moribonda, aveva il suo colpo di coda, e reagiva con una politica autoritaria, militarista e repressiva. Nonostante gli urgenti bisogni delle classi più povere, il governo impiegò l’avanzo di bilancio per sostenere gli istituti di credito e gli apparati burocratici.

Il 1898 iniziò con una serie di tumulti che interessarono tutto il territorio nazionale, soprattutto a causa dei bassi salari, degli alti tassi di disoccupazione e dell’aumento del prezzo del pane. Per la repressione il governo non utilizzava solo le forze di polizia, ma anche l’esercito, il quale invece aveva quale compito primario la difesa dei confini nazionali. L’apice fu raggiunto a Milano, dove il regio commissario straordinario, il generale Fiorenzo Bava Beccaris, soffocò i disordini facendo sparare sulla folla affamata con i cannoni. Fu una carneficina. Di conseguenza, anche il governo Di Rudinì fu costretto alle dimissioni. Per i fatti di Milano il re Umberto I decorò il generale Bava Beccaris con la gran croce dell’Ordine militare di Savoia. Per vendetta, il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci uccideva Umberto I.

La sconfitta di Adua aveva spazzato via la classe di potere nata nel Risorgimento che in 35 anni di vita del Regno d’Italia aveva provocato due disastri militari (nel 1866 e nel 1896), aveva dato vita al trasformismo politico, aveva generato una corruzione endemica in ogni ramo della società e si era involuta da liberale e rivoluzionaria a reazionaria e autoritaria. Col nuovo secolo prendeva il suo posto quella generazione disillusa raccontata da Pirandello, la quale non si era sacrificata nei campi di battaglia del Risorgimento o nei carceri degli Stati preunitari, ma aveva trovato una via preferenziale grazie ai privilegi guadagnati dai padri. Iniziava l’era giolittiana, con una politica inizialmente cauta e aperta, poi sfociata in un nuovo colonialismo, precipitando infine gli italiani nel tritacarne della prima guerra mondiale.

30 giugno 2024

Domenico Anfora

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