BRIGANTAGGIO A ITRI E IN ALTA TERRA DI LAVORO
Già nel XVI sec. il brigantaggio ha dato un gran da fare ad Itri; infatti, Il bandito Marco Sciarra, proveniente dall’Abruzzo, dove possedeva un castello, scorrazzò per queste zone associato ad un altro delinquente, tale Angelo Ferro. Sciarra disponeva di un piccolo esercito valutato in circa mille uomini, tra le sue imprese spicca quella avvenuta a Fondi dove mise a ferro e fuoco il castello Acquaviva.
Il Ferro, si dice, dovette ritenersi un miracolato perché per intercessione della Madonna della Civita, smise l’attività malavitosa e si arruolò nelle file di Filippo II impegnato a combattere nelle Fiandre. Marco Sciarra continuò invece a razziare e ad uccidere nelle zone che oggi vanno dal sud pontino fino alla penisola sorrentina. Si stabilì ad Itri nel 1592, pose il suo quartier generale nel castello che domina la città, taglieggiando i viaggiatori che transitavano per la Via Appia. Il più illustre tra questi fu Torquato Tasso, riconosciuto dal bandito si racconta, fu fatto proseguire senza che gli fosse recato danno. Il 15 febbraio 1798 nasceva la Repubblica Romana, ma un certo malessere serpeggiava tra la popolazione laziale che non gradiva l’avvento dei nuovi padroni. Non passò molto che si verificarono focolai di rivolta contro le nuove leggi della neonata Repubblica; una rivolta che cagionò diecine di morti. La repressione da parte dell’esercito francese fu durissima, iniziò da Roma e si estese alle zone del frusinate fino ad arrivare in Terra di Lavoro. Furono trucidati centinaia di persone e dei loro corpi fu fatto scempio. Il 18 gennaio del 1799 Itri fu teatro dell’uccisione di sessanta dei suoi figli, tra questi Francesco Pezza padre di Michele, alias Fra Diavolo; il paese in questa circostanza subì saccheggi e violenze, fu messa a fuoco, molti perirono tra le mura delle loro case impossibilitati a fuggire. Gli atti di morte di quel periodo si trovano trascritti presso le parrocchie di S. Maria in Piazza Annunziata e in quella di S. Michele Arcangelo ubicata nel centro storico d’Itri.
La causa “Sanfedista” capeggiata dal cardinale Ruffo animò le popolazioni del sud per cacciare gli invasori da quelle terre. Rispondendo all’appello di Ruffo, si arruolarono bande di disperati e capi massa d’ogni sorta, in Calabria come in Basilicata, decisi a ricacciare i francesi e a riportare sul trono di Napoli Ferdinando IV. La Campania non rimase estranea agli avvenimenti e in particolar modo la Terra di Lavoro (Caserta). Qui stabilì il quartier generale Michele Pezza, al secolo Fra’ Diavolo, personaggio che si discosta dalla figura tradizionale brigante. Fu accusato di due omicidi, le cause che lo avevano spinto alla macchia, nulla avevano a che vedere con il brigantaggio. Fu solo per amore che dovette vivere nascosto per qualche tempo, prima di essere graziato e arruolato come regolare nell’esercito borbonico. Di quel periodo non vi è traccia di sue azioni banditesche nei rapporti di polizia. In questo volume ho riportato in modo più dettagliato notizie sulla vita del più famoso “chef de brigands” com’era chiamato da Giuseppe Bonaparte re di Napoli, pur rivestendo i gradi di colonnello dell’esercito borbonico.
Non fu da meno Pietro Colletta (storico e politico) ufficiale borbonico, esonerato dall’incarico perché aderì alla Repubblica Napoletana. Nelle pagine del periodico bi-settimanale il “Monitore Napoletano”, organo ufficiale della Repubblica, fondato da Eleonora Fonseca, pubblicato nel periodo febbraio-giugno ’99, è definito: “Assassino, capo di assassini, infame e colpevole”. Agli inizi ci fu un movimento insurrezionale contro i francesi per i massacri che si verificarono in Campania e Basilicata dove le truppe napoleoniche uccisero, depredarono tutto ciò che aveva un minimo di valore, profanarono luoghi sacri cari alla gente. Fu reso legale poi, dal movimento “Sanfedista”, che travolse la breve esistenza della “Repubblica Napoletana”. Anche in quell’occasione, si verificarono massacri ed uccisioni di francesi e loro simpatizzanti. La “Restaurazione”, diede una parvenza di legalità a banditi, che si resero colpevoli dei più efferati delitti; giustizieri in proprio, in una situazione politica di difficile interpretazione.
Ma i francesi ritornarono nuovamente a Napoli, prima con il re Giuseppe Bonaparte e successivamente nel 1808 con Gioacchino Murat. In quel periodo bande di briganti si attestarono tra i monti del basso Lazio. La zona che andava tra “Portella e l’Epitaffio”, considerata “terra di nessuno”, divenne il luogo preferito dei briganti che passavano con facilità da uno stato all’altro sfuggendo ai rispettivi gendarmi. Il confino dello Stato Pontificio risaliva all’anno 1000, come è riportato nella Bolla di Papa Silvestro II, al secolo Gerberto di Aurillac. Il fortilizio dell’Epitaffio è così chiamato per una lapide fatta apporre dal viceré di Napoli Perafan de Ribera, nel 1568; era un invito rivolto ai viaggiatori che entravano nel Regno di Napoli a comportarsi in modo amichevole. Portella, la cui costruzione risale al 1500, era inizialmente di modeste proporzioni, successivamente fu fatta ampliare dal Ministro Cubon nel periodo dell’invasione francese; era composta da un rifugio per la guarnigione ed un muro che prolungava su per la montagna per impedire lo sconfinamento. Così fino al 2 gennaio 1929 segnò il confine tra il Lazio e la Campania.
Sono opportune alcune notizie su questi due luoghi che ebbero un’importanza strategica per l’attività brigantesca nel periodo che va dal 1808 al 1825. Qui spadroneggiarono: Gasbarrone di Sonnino, Massaroni e Varrone di Vallecorsa ma non mancano altri nomi tristemente famosi di capibanda, non inferiori per ferocia, non mancano. Da ricordare la generosa donazione del re di Napoli, Gioacchino Murat, ad Itri nel 1810 dell’omonima fontana posta all’inizio di Via C. Farnese che porta al Santuario della Civita e prosegue per Ceprano. Nello stesso anno Murat fece pubblicare un elenco di trentamila banditi. Alla fine del 1825, si verifica dalle nostre parti un “avvenimento straordinario“, il terribile brigante Mezzapenta (Macaro Michelangelo) che associava le sue azioni a quelle di Gasbarrone, fu avvicinato da quattro canonici di Fondi, don N. Nanni, don G. D’Ettorre, don F. Padula e don O. Costanzo, i quali lo convinsero ad abbandonare quella vita sanguinaria. Mezzapenta fece penitenza e con altri componenti la sua banda, di Fondi e Monticelli (Monte S. Biagio), si recò il 27 di ottobre al Santuario della Civita per deporre le armi ai piedi della Madonna. Dopo aver sentito messa, fu condotto a Gaeta con gli altri briganti per essere trasferito al carcere di Pantelleria. Il 19 settembre del 1929, anche Mons. Pietro Pellegrini, in un’altra chiesa La Madonna della Pietà, posta su un monte di Sonnino, convinceva Antonio Gasbarrone e la sua banda a deporre le armi.
fonte
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/Itri.htm