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BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (II)

Posted by on Ago 25, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (II)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

Napoletani – I letterati e il popolo – La paura – Il diritto del più forte – I Camorristi – I veri briganti – I riscatti – Ferdinando II e Talarico – Amato e Vandarelli – Una parola intorno al 99.

A ben comprendere gli avvenimenti di cui prendo a discorrere, è mestieri innanzi tutto avere un’idea del paese, o meglio degli uomini. Importa conoscere ciò che sieno i Napoletani. Io li veggo giudicati diversamente, quasi sempre con un po’ di malevolenza. Si considerano in massa e si apprezzano male.

Qui vi hanno due classi ben distinte: i letterati e il popolo. Non parlo dell’aristocrazia; più non esiste: essa è a Parigi o a Roma. Nulla dico neppure della borghesia illitterata: qui non si trova.

I letterati per il loro numero e per la loro valentia ci indicano quello che addiverrà questo paese, quando avrà durante qualche tempo vissuto sotto una legge di progresso, di moralità e di giustizia. Fin’ora Napoli fornisce all’Italia il maggior numero di uomini considerevoli in ogni ramo di scibile. Anche prima della rivoluzione i suoi proscritti dominavano nell’Alta Italia; e nella emigrazione napoletana erano gli avvocati, e i medici più ricercati: essa popolava i pubblici uffizi; occupava le cattedre. Questo è opportuno ricordare, perché troppo presto si è obliato.

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E se dopo la rivoluzione, come avviene sempre, caddero alcune reputazioni incorruttibili, e alcuni puritani addivennero ciò che si addiviene quasi per una fatalità al potere, non è giusto dimenticare che per dodici anni, nella terra dell’esilio, nei bagni, o in una pretesa libertà più sorvegliata, più isolata della vita del carcere, i letterati napoletani hanno nella maggior parte fornito l’esempio della dignità, della perseveranza e del sacrificio. Sotto una sequela di monarchi pessimi, senza scuole, senza educazione, senza emulazioni, senza associazioni possibili, essi si formarono da sé medesimi, e divisi dal resto dell’Europa, non rimasero indietro, ma offrirono anzi all’incivilimento il loro tributo di opere, il loro contingente di soldati e di condottieri; eroi taluni, martiri quasi tutti.

Resa giustizia così, io parlerò liberamente del popolo. Non sono i letterati coloro che chiamarono, seguirono, acclamarono i briganti: non dovrò quindi tener proposito di essi in questi miei cenni.

Ma è mio proposito indicare il degradamento delle classi infime, nelle quali comprendo tutti coloro che in Francia costituiscono la piccola borghesia, i

mezzi galantuomini,

come qui son chiamati il piccolo commercio di Napoli, i piccoli proprietari delle campagne, tutti coloro infine che sanno appena leggere e non son miserabili. Trista popolazione, della quale può ripetersi ciò che fu detto di un altro popolo, esser cioè corrotta prima di giungere a maturità.

Queste classi viziose, o meglio viziate (dacché esse nascondono in loro stesse pregi positivi e virtù singolari), hanno già, come noterò in seguito, incontestabilmente progredito dall’ultimo anno in poi; ma in quell’epoca esse erano dominate da un sentimento, fatale, unico, che tutti gli altri assorbiva: la paura La religione che essi professavano era la paura del

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diavolo: la politica che seguivano, la paura del re. 11 governo e il clero tenevano vive queste inclinazioni, per le quali acquistavano onnipotenza e impedivano il disordine. Non si combatteva la miseria e l’ignoranza: non si prevenivano i delitti fondando scuole e opificii, ma minacciando la galera e l’inferno.

La paura teneva il luogo della coscienza e dell’amore al dovere. Per ottener l’ordine, anzi che rialzare l’uomo lo si deprimeva sempre più. In questo paese predestinato all’eguaglianza, perché il sentimento di nazionalità cerca di espandersi e di consociarsi, le gerarchie erano conservate in tal guisa: il soldato temeva i galloni del suo caporale: il cocchiere della vostra carrozza temeva i vostri abiti più eleganti de’ suoi, e si lasciava bastonare. Quell’uomo istesso con uno de’ suoi eguali si sarebbe, per un soldo, battuto a morte.

Che ne avvenne? La paura fu industriosamente usata dai violenti, e il diritto del più forte fu proclamato e riconosciuto, con maggior eloquenza, che non lo sia nel libro del signor Proudhon, in tutte le popolazioni di queste provincie.

Di qui il vero brigandaggio, che non cessò mai nelle campagne e nelle città. Gli uomini energici si riunivano in bande e opprimevano i deboli: tale è la origine della Camorra.

Oggi è conosciuta questa frammassoneria plebea, che ramificavasi in tutta la provincia, e che il potere, impotente a sopprimerla, si studiò sempre di non aver troppo nemica. Tutti coloro che osavano maneggiare un pugnale, erano fieri di appartenervi; subivano due gradi di iniziamento, e poi finivano per esservi arruolati. Aveano capi nei dodici quartieri di Napoli, in tutte le città del regno, in tutti i battaglioni dell’esercito: regnavano ovunque il popolo era riunito, prelevavano una imposta sul danaro che davate al conduttore della

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vostra carrozza; sopravvegliavano ai mercati, e sì attribuivano una parte della vendita; vigilavano ai giuochi di carte fra i popolani, e dal vincitore riceveano un tributo: dominavano perfino nelle prigioni, e la polizia non vi si opponeva: e occorrendo anzi li chiamava in suo aiuto, affinchè scuoprissero e arrestassero in nome del re gli uomini pericolosi. Non è molto tempo che essi seppero prendere un assassino, di cui eransi perdute le tracce; io stesso lo vidi passar per la via coperto di sangue, trascinato alla prigione dai suoi complici!

Talvolta il governo arrestava i camorristi, e li inviava in galera. Ma anche da codesto luogo spaventavano gli uomini onesti, gli uomini che viveano in piena libertà. Dal fondo di un carcere, colle mani e co’ piedi avvinti dalle catene, ricevevano la visita di alcuni paurosi, i quali si recavano umilmente e regolarmente a pagare loro il tributo mensile.

Questa società avea luoghi dove riunivasi, una cassa comune, un forte organamento, leggi inflessibili. I capi si attribuivano spaventevoli diritti sopra gli affiliati: se ad essi veniva imposto un assassinio, erano costretti ad obbedire, sotto pena di morte. Il pugnale colpiva ogni infrazione, troncava ogni disputa. Ogni camorrista ne recava seco due: uno per se, l’altro per voi se resistevate ai suoi ordini; era un duello terribile; egli colpiva nella cassa, ossia nel cuore.

Di fronte a tali costumi il brigandaggio non può recare sorpresa. In queste contrade vi furono sempre briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni, sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai nostri giorni; le strade fra Roma e Napoli non furono mai abbastanza sicure. Immaginate dunque cosa dovesse essere la parte interna e meno frequentata di queste provincie: era un ricettacolo di assassini.

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In talune di esse non fu mai prudente viaggiare anche in uniforme. Paolo Luigi Courrier ha scritto in proposito alcune lettere che sono ornai notissime.

Tutto favoriva il brigandaggio: e la stessa configurazione del paese, coperto di montagne, e le idee del governo, che di quelle montagne non davasi cura, né vi apriva gallerie, ne vi tagliava strade: vi hanno distretti intieri per i quali non è ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri, che i muli non si arrischiano di percorrere; aggiungasi a questo il sistema di agricoltura della Puglia, la vita nomade de’ pastori che passano la estate sui monti, e vivono in quelle cime senza famiglia, in mezzo al loro gregge, in un isolamento selvaggio. I viandanti sprovvisti di ogni difesa, a torto si avventurano in que’ deserti.

Coloro che erano costretti a percorrerli, si facevano scortare da’ briganti. Nell’anno precedente, prima della rivoluzione, un viaggiatore volle salire il Matese: prese una guida e si affidò pienamente in lui. Fece una ascensione penosa in mezzo ad un paese magnifico: a due terzi del suo cammino, trovò un lago in fondo ad una valle selvaggia: trovò arbusti di abeti che cuoprivano gli scogli; dalla cima della montagna, da un lato e dall’altro si godeva la vista de’ due mari. Il viaggiatore e la guida erano soli in mezzo a quella natura così bizzarra e tale da ispirare inquietudine. Si imbatterono in una croce. – Ve la posi io stesso, disse la guida. – E perché?- È un voto che ho fatto! – Con quale scopo? – Per una disgrazia avvenutami. – E quale? – Ho ucciso un uomo. – Tu? – Sì, o signore, là. – E mostrò la ” croce. Sopra diversi punti della montagna ne avea poste altre ventinove.

Tutti i tribunali dell’Europa insieme riuniti non

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basterebbero a giudicare i delitti ignorati, commessi su quelle alture. Il governo li lasciava impuniti; il che permetteva ai più audaci di riunirsi in piccole bande, le quali prendevano dimora in qualche folta foresta, e tentavano poi delle spedizioni. Rileggete GilBlas, cambiate i nomi de’ paesi, e voi avrete il racconto di queste avventure. I viaggiatori erano sempre più esposti a’ pericoli, ma anche i proprietarii di terre vicine a questi luoghi male avventurati non dormivano tranquilli i loro sonni. Se i contadini loro non vigilavano attentamente in armi, correvano il rischio una bella notte di essere presi e condotti nelle montagne. Allora si imponeva ad essi un riscatto. Il prigioniero scriveva alla sua famiglia, e i briganti stessi portavano la lettera. La famiglia pagava.

Questi fatti avvenivano ogni giorno. Non è corso molto tempo che in una provincia fu rapito un uomo; i parenti di lui erano a Napoli: riceverono dai rapitori un messaggio: chiedevano un migliaio di ducati: i parenti ne offrirono la terza parte. Il messaggere tornò con un orecchio del prigioniero e colla minaccia di tagliar l’altro, se fosse stata necessaria una terza intimazione. Questa storia fu pubblicata dai giornali coi nomi delle persone e dei luoghi. I parenti pagarono tutto; oggi sono nella più squallida miseria.

Simili avventure sarebbero impossibili in qualunque altro paese; qui la paura le incoraggisce. Non si osa denunziare gli emissarii; si fa loro buon viso, si stringe ad essi la mano. Basta un uomo per gettare in costernazione una intiera popolazione. Io stesso ne fui testimone con i miei occhi. Era un operaio che aveva ucciso il suo principale; passeggiava tranquillamente a fronte alta nel villaggio. Il sindaco non ebbe il coraggio di farlo arrestare.

Sì; il governo tremava dinanzi a questa gente.

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Erasi istituita una guardia urbana per proteggere le campagne, ma que’ villici armati spesso erano d’accordo co’ briganti. Quando le bande erano troppo numerose e minacciavano di prendere una bandiera, il governo si risolveva a combatterle. Allora cominciavano le guerre sulle montagne che si combattono tuttora, le imprese contro un nemico che scappava sempre di mano, che si ricoverava nei boschi quando era cercato nei monti, che si nascondeva nelle macchie, dormiva fra i campi di grano, nemico invisibile, imprendibile, che fuggiva sempre più lungi e più in alto, fino a che il re, per una trista necessità, prometteva un’amnistia a quelli che si sarebbero resi. E il re talvolta manteneva la sua promessa.1

Lo stesso Ferdinando II un giorno dovè trattare con Giosafat Talarico, che lo cimentava e lo batteva da lungo tempo nel fondo della Sila in Calabria. È una foresta che è stata sempre ricovero de’ briganti. Si convenne che Talarico e i suoi avrebbero non solo la vita salva, ma la libertà, e meglio ancora, una pensione dal re: solamente sarebbero stati confinati nella isola più bella e più ricca; in Ischia. Vi sono ancora, e riscuotono la loro pensione.

Tale fu il vero brigandaggio ne’ tempi ordinarii 5 ne ha cessato mai di esistere. Negli ultimi giorni del regno di Ferdinando II erasi organizzato alle frontiere un servizio regolare per il trasporto di cavalli

1 Non sempre però. «I Borboni restaurati presero uà altro espediente per distruggere il brigandaggio di cui si erano serviti e che allora si riconobbero impotenti a reprimere. Il generale Amato scese a patteggiare con la banda di Vandarelli che infestava la Puglia, e le accordò non solo il perdono e l1 oblio, ma fu stipulato che essa sarebbe trasformata con un ricco soldo in una legione armata al servizio del re, al quale presterebbe giuramento. Stipulate queste convenzioni, la banda venne a Foggia per rendersi, e quivi disarmata per ordine del generale in capo, fu distrutta a colpi di fucile.» – Circolare del barone Ricasoli.

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rubati, di tappa in tappa fino agli Stati Romani, dove gli animali erano venduti. Un Borbonico, oggi celebre, aveva parte in questa impresa: non era però Chiavone. In tempi di crisi politiche il brigandaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni, delle prigioni dischiuse, i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa. È mestieri forse ricordare la sanguinosa spedizione del Cardinal Ruffo nel 1799? Fra Diavolo, Mammone, Proni, Sciarpa, De Cesari furono in que’ tempi celebri, «né di essi saprei dire altro, scrive il Botta, se non che io compiango la causa de9 Borboni per averli a difensori.» – Non è mio proposito descrivere le atrocità di codesto anno sinistro; sono ormai troppo note: ma mi fermerò alcun poco sul brigandaggio ai tempi di Giuseppe Bonaparte e di. Murat. Alcune pubblicazioni recenti mi servono di guida, e mi pongono in grado di narrarvi fatti nuovi e di trovar in essi singolari raffronti con gli eventi dell’anno che corre.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html

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