Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (IV)

Posted by on Ago 27, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (IV)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

III

Il brigantaggio a’ nostri giorni – I primi moti negli Abruzzi (ottobre 1860) – Le bande di Lagrange – Giorgi e il suo cavallo zompo – I fatti della Scurgoìa – Aneddoti – II signor De Christen – Come si formarono le nuove bande – I forzati evasi – I soldati licenziati – Parallelo fra l’armata di Francesco II e l’armata di Cromwell – I briganti d’Inghilterra.

È facile ora comprendere ciò che fosse il brigantaggio ai tempi di Giuseppe Bonaparte e di Murat; gli eventi stessi che si compierono in questo anno, ebbero

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allora luogo, ma furono più gravi e più feroci. L’antico regime era abolito, il nuovo non era consolidato, la dinastia era esule in Sicilia, come lo è oggi a Roma, e le bande venivano sfruttate dai partigiani della restaurazione. Aggiungete l’agitazione rivoluzionaria, le memorie del 1799 e quelle del 1848, le false notizie (sempre eguali) sparse altra volta, come lo sono ai dì nostri, l’opinione fatalista che i Borboni scacciati tornano sempre; e voi comprenderete le relazioni che esistono fra i moti repressi da Manhès, e quelli che oggi reprime il generale Cialdini. Unica differenza è la diversità dei luoghi, ove queste scene si compiono: quando Ferdinando I cospirava in Sicilia, simili fatti avvenivano in Calabria; ora che Francesco II cospira a Roma, le provincie più devastate sono quelle degli Abruzzi e di Terra di Lavorò.

Negli Abruzzi la controrivoluzione ebbe principio fino dall’arrivo di Garibaldi. Quelle provincie limitrofe cogli Stati Romani ancor soggetti al pontefice e alla Terra di Lavoro tuttora borbonica, situate assai lungi da quella linea del Volturno che tratteneva il dittatore, erano insorte o piuttosto aveano sposato la causa d’Italia, all’appello di Pasquale De Virgilii intendente di Teramo.1 .

Egli si era posto a capo deliberali, e avea indotte le città e le campagne nel moto italiano.

Ma i monti restavano realisti. Il forte di Civitella del Tronto posto sulla sommità di un mucchio

1 Pasquale De Virgilii cominciò la sua carriera scrivendo poesie, e fu uno de duci del movimento romantico a Napoli. Alla pari di ogni altro entrò nella politica del 1848, e vi tornò nel 1860 dopo dodici anni di persecuzioni. Intendente di Teramo, poi prodittatore, poi governatore della sua provincia, ebbe l’onore di accogliere per il primo sul ponte del Tronto Vittorio Emanuele, quando il Re d’Italia pose per la prima volta il piede sulla terra napoletana. Al signor De Virgilii debbo i ragguagli che vado narrando intorno ai moti degli Abruzzi.

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di scogli quasi inaccessibili, era ancora difeso da borbonici risoluti a non cedere; ed essi potevano mantenermi lungamente, perché il loro celebre castello respinse il Duca di Ghiisa, e in tempi a noi più vicini, nel 1805, resistè per molti mesi con un pugno di difensori all’assedio regolare di un’armata franco-italica: la guarnigione non si arrese, se non quando fu ridotta al numero di sette soldati.

Civitella era inutilissima alla difesa del Regno, nel quale potevasi liberamente avere accesso da ogni lato; ma, per tenere inquieta e in perpetua agitazione la provincia di Teramo, era una posizione eccellente. Molte centinaia di gendarmi vi furono racchiusi per proteggerli contro le popolazioni da essi esecrate, le quali li ricambiavano di pari sentimenti. Così le reazioni furono preparate fin da quando quella provincia si assoggettò al nuovo regime: interrotte al giungere di Vittorio Emanuele, rinacquero dopo la partenza del re, che, lasciando il Teramano sguarnito, si volse colle sue truppe verso Capua.

L’insurrezione scoppiò il 19 ottobre, l’antivigilia del plebiscito. Il popolo era chiamato a votare suffragio universale l’unione delle due Sicilie al futuro Regno d’Italia. I gendarmi uscirono dal forte di Civitella con bandiere borboniche, e a un segnale stabilito, i montanari di tutta la linea degli Appennini, che separano il Teramano dalla provincia di Aquila, si precipitarono nelle pianure. Furono invasi con violenza i villaggi, rovesciate le autorità, all’antiche sostituite le nuove, assalite le case, scannati i liberali come nelle invasioni de’ briganti; tuttavia sarebbe ingiustizia assimilare questi movimenti al brigantaggio dell’anno 1861.

Negli Abruzzi potea trovarsi almeno, nell’ottobre 1860, una ragione politica per spiegare questi fatti. La dinastia, non ancora esautorata, si difendeva

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a Capua e imperava a Gaeta. Il re delle due Sicilie non avea abbandonato i suoi Stati. La rivolta scoppiava prima del plebiscito occasionata da quest’atto sovrano, che non avea legittimata per anco la rivoluzione e la unione all’Italia. Legalmente parlando, i montanari degli Abruzzi usavano del loro diritto.

Per un momento furono i più forti. Giunsero assai vicini a Teramo: respinsero le Guardie nazionali che il Governo avea inviato contro di essi. Per disperderli vi occorse l’ardente legione de’ volontari abruzzesi di Curci, e quasi un battaglione di soldati di linea. Furono separati dai gendarmi di Civitella del Tronto, poi inseguiti di vallata in vallata fino alla Valle Castellana, sulla più alta cima degli Appennini, che domina tre provincie. In quel baluardo naturale poterono accamparsi solidamente, e resistere ancora per lungo tempo. Di tanto in tanto scendevano nelle mal difese borgate per rinnuovare le loro provvisioni, che pagavano colle palle de’ loro fucili.

Diminuita allora colla sommissione de’ montanari onesti, de’ contadini disillusi, la banda non si compose che di briganti macchiati di delitti e indegni di perdono, i quali non si batterono che per scampare dalla forca, o dalle galere: e si batterono quindi da disperati; bisognò inviare contro di essi il generai Pinelli, uno fra i migliori officiali della armata piemontese.

Dopo alcuni conati infruttuosi contro il forte di Civitella, il generale si die ad inseguire i briganti; che tali erano quelli rimasti nella Valle Castellana. Fu allora che egli scrisse contro i medesimi quel formidabile proclama, che ha scandalizzato tanto l’Europa, e col quale minacciava di fucilare tutti i banditi, che avesse presi colle armi alla mano. Il generale fu richiamato dopo le grida di orrore gettate dai filantropi di Londra o di Parigi, i quali non si sentivano in

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guisa alcuna minacciati o negli averi o nelle famiglie dai briganti dell’Abruzzo. Pinelli lasciò dunque il suo comando; ma avanti di partire egli avea distrutto il brigantaggio. Poche fucilate avevano fruttato centinaia di sommissioni e salvato migliaia di vite; dappoiché i banditi di Valle Castellana non rubavano solamente, ma uccidevano.

Quanto a Civitella del Tronto, è noto che essa si difese bravamente, anche dopo la resa di Gaeta e di Messina, rifiutando fino all’ultimo di capitolare. Rendo onore alla bravura, e non confondo la intrepida resistenza di questa guarnigione con la ostinazione forzata de’ malfattori, i quali null’altro cercavano se non di scampare dalla forca.

Così fu spento il partito borbonico nella parte degli Abruzzi, che confinava colle provincie romane annesse all’Italia. Pure gli Abruzzi e la Terra di Lavoro, essendo provincie limitrofe agli Stati rimasti in potere del Papa, erano minacciate e invase ogni giorno da grosse bande di partigiani.

In sulle prime di queste invasioni si ebbe poca cura, perché l’animo di tutti era rivolto a Gaeta; pur nondimeno furono più gravi di quelle, di cui tanto si parlò in appresso.

A dir vero, non si poteano chiamare neppure invasioni, ma mosse strategiche. Un tedesco per nome Kleischt, che facevasi chiamare Lagrange, procedea d’accordo col generale Scotti; questi dalla parte d’Isernia, quegli dalla parte di Aquila dovevano percorrere e sottomettere gli Abruzzi, e, marciando l’uno all’incontro dell’altro, ritrovarsi a Popoli. Kleischt avea anche annunziato alle popolazioni, che un’ armata austriaca era per Teramo entrata nel regno. Forse ei lo credeva; non poche furono in quel tempo le illusioni. Per mala ventura questi Austriaci erano Piemontesi, e Scotti cadde nelle loro mani con 8000 uomini,

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due giorni prima che Kleischt partisse da Avezzano diretto ad Aquila.

Allorché gli fa noto che Scotti era stato circondato, il tedesca tornò indietro, e percorse sessanta miglia a cavallo senza far alto.

Kleischt aveva sotto i suoi ordini un individuo singolare, chiamato Giorgi, che figurò anch’egli come capo di briganti. Era il più buon figliuolo del mondo, morale quanto Gil Blas e alla pari di lui desideroso di avventure. Credo fosse di Civitella, avvocato, se non mi inganno: ma ciò poca monta, dacché avea esercitato molte altre professioni. Fu arrestato per i suoi trascorsi nel mese di settembre J860 e condotto ad Avezzano, innanzi al sottointendente, da due ufficiali della Guardia Nazionale. Non si sconcertò, e, per far buona figura, presentò i due ufficiali al sottointendente come suoi amici.

L’amnistia di Garibaldi restituì la libertà a Giorgi, il quale corse a Gaeta per offrire i suoi servigi a Francesco II. Il maggior torto di quel giovane monarca è stato quello di accettare servigii da chiunque. Giorgi dunque fu posto sotto gli ordini di Kleischt e molto si distinse in quel famoso combattimento della Marsica, in cui i volontari di Paterni e i volontari borbonici di Lagrange si volsero reciprocamente le spalle e fuggirono in trionfo, pretendendosi da ambe le parti di aver vinto una battaglia e aver tolto de’ cannoni al nemico. Né gli uni né gli altri avean cannoni.

Giorgi divenne sottointendente d’Avezzano, e provvide al suo avvenire: ma di ciò non vo’ dir altro. Poco tempo dopo vedendo giungere i Piemontesi, inforcò un cavallo che non gli apparteneva (il miglior degli Abruzzi) e si rifugiò a Soma. Il padrone del cavallo fu desolato, e offrì una forte somma a chi glie lo avrebbe ricondotto.

Un uomo di buona volontà tentò l’impresa.

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Corse a Roma, dove il cavallo appunto era in vendita. – Ecco un animale che zoppica; disse vedendolo. – Che dite mai? rispose Giorgi: è il miglior cavallo degli Abruzzi. – Vi dico che zoppica. – Ed io vi ripeto che non è vero. – La discussione si animò. Fu fatto camminar il cavallo al passo, al trotto, al galoppo: quel l’uomo pretendeva che zoppicasse, e sosteneva che avendo qualcuno in sella avrebbe zoppicato ancor più. – Montate, disse Giorgi furibondo, e vedrete se zoppica. – L’uomo inforcò il cavallo, e partì al galoppo. – Zoppica, gridava Giorgi, zoppica? – Zoppicava tanto poco, che Giorgi non potè più raggiungerlo.

Nella seconda quindicina di dicembre, mentre Gaeta si difendeva, e Pinelli assediava Civitella del Tronto, Lagrange e Giorgi tentarono una spedizione nel Napoletano. Dipendevano da un generale Luvara, uomo assai vecchio, se non m’inganno. Chiedo licenza di riprodurre su questo proposito alcune notizie che feci raccogliere sui luoghi e sui fatti.

1

Giorgi e i suoi compagni riunirono adunque quanti Papalini e Borbonici sbandati poterono trovare, e aggiungendo ad essi alcuni zuavi del papa, gli abitanti di Cecolano, alcuni contadini e alcuni monaci, pervennero a metter insieme forse quindici mila uomini. I quali erano armati, Dio sa come, con fucili da caccia a due canne, con vecchie carabine, con picche, pugnali, istrumenti da lavoro: i più terribili aveano pesto delle punte di ferro in cima ai loro nodosi bastoni, e ne usavano gagliardamente.

Tutta questa banda si rovesciò negli Abruzzi con Giorgi alla testa, decorato del gran cordone di san Gennaro.

1 Queste notizie compavero nel

Temps:

le riproduco nella loro integrità per non alterar i fatti, cambiando le parole. Dirò lo stesso per i documenti che fra molti altri del tutto inediti o sconosciuti, saranno pubblicati in queste pagine a render completo il mio lavoro.

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Occuparono e saccheggiarono con requisizioni forzate Tagliacozzo, Petrella, Curcomello ecc. Ecco quali furono le loro imprese, e qui si limitarono i loro trionfi. Non riuscirono a sollevare le provincie: rimasero/vinti dalla indifferenza popolare, prima di esser cacciati dalle vittorie del generale De Sonnaz. Pure avevano fieri seguaci. Un caporale napoletano per nome Biaz, che ad Avezzano era stato nell’esercito garibaldino e che si era gettato poi nelle bande borboniche, correva per i monti, predicando la santa causa, promettendo piastre, saccheggi, incendii, indulgenze ecc. Volete alcuni ragguagli sopra questa guerra di partigiani, nella quale sembra si gridi come altra volta:

Muori o uccidi?

Eccoli.

Martedì, 19 gennaio, circa le ore 3 e mezzo (mezz’ora prima del tramonto del sole) le alture della Scurgola e le case della parte superiore del paese furono assalite ad un tratto dagli uomini di Giorgi. Una sola compagnia, la quattordicesima del sesto di linea, comandata dal capitano Foldi, occupava la Scurgola. Attaccata all’improvviso, dovè ripiegare fuori del paese, dopo pochi istanti di fuoco: ma essa avea dato l’allarme a due compagnie, che erano a Magliano, scortate da un plotone di lancieri.

I rinforzi giunsero a Scurgola a passo di corsa. Il paese fu circondato: tutti gli insorti presi in un sol colpo, salvo quelli che non erano entrati per anco nel villaggio; questi furono dispersi e uccisi. Il capitano Foldi si distinse assai in quella giornata. Per una fortuna provvidenziale, l’il colonnello Quintini del 40° giunse da Sora la sera istessa. Ascendendo il Salviano, udì da lunge le prime scariche e corse immediatamente ad Avezzano, adoperandosi in ogni guisa per inviar rinforzi ne’ punti ove ferveva la mischia. Quintini solo valeva due battaglioni. Il fuoco durò due ore vivissimo e sostenuto. Gli insorti vi perderono circa 130

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uomini, compresi i fucilati, che vennero puniti sul luogo e, senza indugio. Le truppe italiane non ebbero che due morti e quattro feriti; e queste non sono fandonie, jna cifre officiali. Giorgi, Luvara (il generalissimo che sottoscriveva i proclami) e lo stato maggiore erano rimasti al convento di Sant’Antonio, a mezzo miglio dalla Scurgola,. dalla parte di Tagliacozzo. Vedendo la rotta dei loro, si affrettarono a fuggire. Nel combattimento fu presa una delle loro bandiere. Era un vecchio crocifisso in legno, al quale avean legato con dello spago un pezzo di stoffa rossa, strappata da qualche parato da chiesa: l’asta era un bastone di tenda tolto ai soldati Piemontesi a Tagliacozzo. Ma questo cencio già forato nobilmente come una bandiera, non era l’orifiamma; essa non veniva esposta alle palle e non era uscita da Tagliacozzo. «Era un magnifico quadrato di seta bianca, scrive un testimone che l’ha veduta, adattatissimo per una processione. Da

un lato vi si scorgeva Maria Cristina (madre di Francesco II e principessa di Carignano) in ginocchio davanti ad una Madonna, nell’atto di calpestare la croce di Savoia. Dall’altro lato eravi una Immacolata Concezione. Quello stendardo era stato benedetto dal papa, e se ne attendevano miracoli. Cominciò assai male con questa sventurata spedizione.

Con Giorgi e Luvara

»

continuo a citare la lettera di un testimone oculare «marciava vestito da colonnello alla pari di Giorgi, quel famoso venezia no, che dapprima si credè un cardinale, e che alla fin de’ conti era un semplice

monsignor di Corte.

Tra i prigionieri si trovavano molti antichi soldati, e furono graziati; ma ai partigiani non si concesse quartiere. Uno de1 loro capi, il medico Mauti di Luco, è stato fucilato, e, affrettiamoci a dirlo, è morto coraggiosamente. Gli fu promessa la vita, se avesse

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fatto rivelazioni. Rifiutò: si contentò di rispondere» che per caso trovavasi in mezzo agli insorti: stretto» dalle domande, da uomo d’onore si tacque. Avrebbe meritato la grazia: ma per sua malaventura aveva indosso testimonianze tenibili: è stato fucilato dinanzi al castello. – A Sora sono stati inviati tre prigionieri singolari, i tre individui che avevano portato a Tagliacozzo al maggiore piemontese una intimazione assai audace delle bande borboniche. Uno era officiale de’ Cacciatori napoletani, un altro era caporale dello stesso corpo, e il terzo zuavo del papa,oriundo spagnuolo, antico capitano carlista. Questi tre disgraziati hanno narrato la loro storia, che è una lunga sequela di disinganni. A Roma erano stati assicurati che negli Abruzzi esisteva realmente un’armata, che le popolazioni li attendevano con entusiasmo, e che in quindici giorni sarebbero giunti a Napoli. Hanno trovato cinque o seicento soldati sbandati, due mila contadini male armati, e una plebaglia o indifferente o impaurita. A Carsoli si attendevano armi per tutta questa gente, ma i Francesi hanno arrestato il convoglio. – Fra i fucilati della Scurgola figuravano due preti, un monsignore e il curato di Monte Sabinese. A Poggio Filippo,villaggio vicino, è morto un disgraziato in seguito delle sue ferite. Spogliandolo, hanno scoperto che portava calze violette.»

Mi son giunti poi singolari ragguagli intorno alle disposizioni de’ contadini abruzzesi ili codesto tempo oramai remoto.

Erano borbonici furenti. Si narra l’aneddoto di una giovane donna che fece morire un Garibaldino in casa di lei rifugiato, con una ferocia brutale ed oscena.. Non ardisco riferire le particolarità di questo lungo assassinio. Ma ecco un incidente che è lecito narrare. Dopo la disfatta di Giorgi, il quale non tornò

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più (questa volta, disse fuggendo, la mia balordaggine è stata eccessiva) restavano in Avezzano una cinquantina di prigionieri, non si sapeva che farne, non si potevano fucilare senza barbarie, né lasciarli liberi senza pericolo: si adottò un mezzo termine: ne furono scelti trenta, per esperimentare sopra di essi gli effetti del terrore. Il curato (che faceva parte di questa cospirazione umanitaria) li riunì nella chiesa, e diresse loro un discorso spaventevole; disse che si preparassero a morire, esser suonata l’ultima ora, e li rimproverò i loro delitti con focosa eloquenza. Caddero in ginocchio più morti che vivi. Allora il curato fu assalito da un movimento di pietà. Soggiunse che forse la giustizia umana di essi avrebbe pietà, ma che bisognava che tutti, uno ad uno, colla mano sul crocifisso giurassero che non farebber più parte di alcuna banda d’insorti. Giurarono tutti e vennero posti in libertà. Otto giorni dopo furono ripresi a Carsoli nella banda di Giorgi.

Fu verso quel tempo che la truppa un po’ l’eterogenea del signor De Christen, dapprima scacciata, fu poi attaccata negli Stati Romani dal generale De Sonnaz. Il signor De Christen era un partigiano legittimista, che si batteva per il trono e per l’altare. Circondato in Bauco dai Piemontesi, di cui aveva respinto il primo attacco, consentì a negoziare con essi, e promise sull’onore di non più servire contro l’Italia. Ahimè! tenne parola come i prigionieri abruzzesi. Tentò ancora inutilmente alcune escursioni, poi venne in Napoli con nome falso e con passaporto inglese a fomentare nuovi disordini. Egli trovasi ora in potere della giustizia, ma potrebbe esser lasciato in libertà, perché non è più pericoloso.

Sono già corsi sette mesi1 che le spedizioni legittimiste sono cessate per la capitolazione di Gaeta (13 febbraio 1861). Francesco II dispensò i suoi

1 I primi sette capitoli di questo lavoro furono scritti nel settembre 1861.

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partigiani, e segnatamente De Christen, da ulteriori servigi ormai fatti inutili, come disse il dispaccio borbonico pubblicato ne’ giornali del tempo. Il paese fu sollevato da un gran peso; le città illuminate, e a malgrado dei vescovi, cantarono senza di essi il

Te Deum.

Non già che fosse estinto il brigantaggio. Ma i malfattori che correvano le campagne nulla aveano di comune coi partigiani del re decaduto, non erano più che galeotti evasi dai bagni, profittando dell’ingresso di Garibaldi nel regno. Il Dittatore seguendo il suo cammino da Reggio a Napoli, non avea avuto tempo di ricostituire l’armata e la polizia nelle Comuni da lui traversate al galoppo. Tutte le prigioni al suo passaggio erano state aperte; i detenuti avevano indossato la camicia rossa e proclamato il trionfatore. Tutti attendevano la loro assoluzione dalla grande redenzione italiana; aveano vissuto nei bagni coi detenuti politici: confusi con questi nella pena, speravano esserlo nella liberazione. Non pochi aveano seguito Garibaldi fin sotto le mura di Capua, e si erano coraggiosamente battuti.

Ma quando l’autorità regolare venne ad un tratto a sostituire il potere fantastico del Dittatore, tutte queste speranze caddero.

Per molte ragioni, e sovra ogni altra per onestà, il governo italiano rifiutò i servigi degli antichi detenuti. Uno di essi, Cipriano della Gala, erasi offerto per inseguire i briganti; fa consegnato all’autorità giudiciaria; altera tutti questi individui, riuniti per caso, galeotti evasi, falsi liberali,.malfattori studiosi di scampar la forca rimasti elusi, antichi malandrini, mendicanti, vagabondi, e qualche montanaro affamato formarono le prime bande, e si misero ad assalire e a spogliare i viaggiatori. Tale fu l’origine vera del brigantaggio in quest’anno.

Ma queste bande non erano forti e non comparivano

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che in lontananza in due o in tre provincia Erano ventine d’uomini al più, che abitavano i boschi o le sommità ordinariamente praticate dai briganti, e specialmente la Sila in Calabria. Imponevano qua e là taglie, e se ne andavano contenti, se venivano loro pagate.. Di politica non si occupavano. Con pochi battaglioni di bersaglieri sarebbe stato facile disperderli.

Ma il governo piemontese era in quel tempo sopra up pendio di errori e di sbagli. Vero è che trovavasi assai impacciato, specialmente per le tre armate che avea sulle braccia, cioè la sua, quella di Garibaldi e quella di Napoli.

quest’ultima in specie gli era di grande imbarazzo. Tutti i soldati borbonici erano prigionieri di guerra e dovevano esserlo, ai germini della capitolazione di Gaeta, fino alla presa di Messina e di Civitella del Tronto.

Civitella fu l’ultima a cedere (20 marzo). Che dovea fare il governo dell’armata? Accordò due mesi di congedo a tutti coloro che erano usciti da Gaeta, e dopo questi due mesi, quelli che appartenevano alle leve posteriori al 1857 dovevano essere immediatamente chiamati sotto le armi. Gli altri avevano diritto di arruolarsi, se ciò tornava loro a genio.

Queste concessioni furono i più formidabili errori che potesse commettere un generoso potere. I due mesi di congedo soprattutto (condizione stipulata a Gaeta) compromisero gravemente nelle provincie meridionali la causa italiana. I soldati spesero ben presto la indennità che aveano ottenuta. Allora non seppero di che vivere. E noi non riamo in Inghilterra!

Macaulay racconta che al ritorno del re legittimo fu mestieri licenziare l’armata di Cromwell. Cinquantamila uomini abituati a battersi furono lasciati sulla strada. V’era da aspettarsi che avrebbero

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mendicato il pane o forse lo avrebber rubato. Così non avvenne peraltro: «Alcuni mesi dopo non restava traccia che» indicasse che l’armata più formidabile del mondo,era stata assorbita nella massa del popolo. I realisti stessi erano costretti a confessare che i vecchi soldati prosperavano più di ogni altro in tutte le oneste industrie, che nessuno fu accusato di furto o di brigantaggio, che nessuno ricorse alla carità pubblica, e che se un muratore, un carrettiere, un fornaio distinguevasi, per la sua assiduità al lavoro, o per la sua sobrietà, v’era da scommettere che egli fosse un vecchio soldato di Cromwell.1»

Né è a credersi che mancassero allora briganti in Inghilterra; testimone quel Guglielmo Nevison, di cui parla Macaulay, alcune pagine più indietro, quel generoso ladro della Contea d’York, che si facea pagare un tributo trimestrale da’ mercanti di bestiame del settentrione, e che divideva co’ poveri ciò che egli prendeva ai ricchi; testimone quel famoso capo di assassini, antico paggio del duca di Richmond, Claudio Duval, francese e sì galante con le signore. Egli fermò un giorno la carrozza di una bellissima dama, la quale recava seco 400 sterline. Non ne prese che cento a condizione, che ella si degnasse di ballare una contraddanza con lui sull’erba. Eranvi allora in Inghilterra de’ briganti anche più serii e più cattivi, ma i veterani di Cromwell erano stretti al dovere dalla loro coscienza e dalla loro dignità di uomini liberi. Questo sentimento e quello dell’onora, che ne’ Francesi ne tiene il luogo, mancavano affatto nelle caserme del regno delle due Sicilie. Qui i privilegi e le immunità della spada aveano demoralizzato fino all’abiezione quasi tutta l’armata di Francesco IL

La quale non potè quindi essere pacificamente assorbita dalla popolazione laboriosa. Abituati agli ozii

1 Macaulay,

Storia d’Inghilterra.

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della caserme o delle casematte, i soldati licenziati non vollero essere più operai o coltivatori; e molto meno vollero ingaggiarci sotto la Croce di Savoia, un po’ per antipatia verso i Piemontesi (e ne vedremo più sotto le cause), e molto perché il servizio era più duro e meno pagato sotto la Croce che sotto i Gigli, e moltissimo poi (e ho questa notizia da venti borbonici che me lo hanno schiettamente confessato) perché Vittorio Emanuele era un re troppo guerriero, né si curavano essi di andare a far la guerra all’Austria.

Tali sono le vere cause della defezione de’ soldati borbonici. Altri aggiungeranno una fedeltà catoniana alla causa vinta, l’affetto immutabile al re decaduto, una pia devozione all’eroina di Gaeta. E poiché molti vi credono per fede, così non voglio impugnare queste ragioni patetiche. Mi duole soltanto che abbiano spinto de’ soldati a farsi ladri per le pubbliche vie, perocché, e su ciò insisto, ne’ primi tempi a questo solo si adoperarono: e passaron de’ mesi prima che inalberassero una bandiera qualunque. Nascosti la sera nelle macchie, col pugnale in mano, lungo le strade poco sicure, spiavano i passi di un viaggiatore, i sonagli d’un mulo, erano in cento ad aggredire un uomo solo, e, fatto il colpo, fuggivano in fretta ai loro nascondigli, come i Burgravi degradati di Vittore Hugo.

Non fu che in appresso, allorché i soldati licenziati e i refrattari si congiunsero ai malfattori già sparsi per le montagne, che la cospirazione borbonica organizzata a Roma, a Napoli e per tutte le provincie, mancando di soldati, risolvè di adoperare questi uomini. Allora soltanto il brigantaggio assunse un carattere politico. Vediamo frattanto ciò che fosse codesta cospirazione.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html

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