Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VI)

Posted by on Ago 29, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VI)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

V

Il brigantaggio in Basilicata (aprile 1861) – Primi moti di Ripacandida – I capi – Donatela – Crocco e consorti – Presa di Venosa – Tragedie e Commedie – Bocchicchio – Scritti di Crocco – Presa di Lavello – Insurrezione di Melfi – Crocco e la Madonna – Rivincita degli Italiani – Aneddoti – Bella condotta della Guardia Nazionale – Una lettera da briganti – Atrocità – Un borbonico sincero. 

Entriamo dunque in Basilicata col pregevole libro del signor Cammillo Battista.

Da lungo tempo in quella provincia eranvi de’ crassatori. Non se ne dava cura il governo; e la guardia nazionale, fatte alcune escursioni per le campagne,

Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera del 1861, per Cammillo Battista (Potenza, Stabilimento tipografico di V. Stentarello, 1861) con questa epigrafe di Botta: «La moltitudine commette il male volentieri e si ficca anche spesso il coltello nel petto da sé, tanto i moti suoi sono incomposti, i voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei possono più sempre gli ambiziosi che i modesti cittadini»

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nulla avendo trovato, erasene tornata pienamente tranquilla; di modo che i ladri ogni dì più numerosi e più audaci, levavano imposte sulle proprietà, involavano cavalli per il proprio uso, rapivano uomini, che venivano da essi restituiti in cambio di sacchi di piastre; padroni della campagna, essi occuparono ben presto le foreste e le alture di Melfi.’

Il governo di Napoli non avea soldati da inviare in quelle provincie: i ladroni quindi poterono operare a lor talento, ed a ciò si posero d’accordo con i capi della reazione. Presero coccarde rosse, e entrando il 7 aprile ne’ dominii del principe Doria a Lagopesole o Lago Pensile, eccitarono i contadini a gridare con essi

Viva Francesco II,

promettendo loro sei carlini al giorno per cadauno, senza contare gli incerti, vale a dire il saccheggio. Contemporaneamente annunziarono che il Borbone era sbarcato sulle coste con migliaia di Austriaci; voci che i preti dal canto loro spargevano e raffermavano. Tosto centinaia di cappelli furono decorati di rosse coccarde, e bande di contadini armati alla rinfusa corsero le campagne gridando ciò che volevano.

Nella notte dal 7 all’8 aprile assalirono il corpo di guardia di Ripacandida. 11 capitano. Michele Anastasia, che comandava la guardia nazionale, uscì dalla caserma a’ loro gridi, e fu ucciso. Questo assassinio fu una vendetta privata: l’omicida era un uomo di Melfi, chiamato Ciccio.

All’indomani giunsero rinforzi di contadini e di soldati sbandati: tre o quattrocento uomini, con i seguenti capi.

Cannine Donatelli di Rionero, soprannominato Crocco. Era un forzato evaso, fin d’allora colpevole di 30 delitti: 15 furti qualificati e consumati; 3 tentativi di furto; 4 carceri private; 3 omicidi volontari, 2 omicidi mancati, bestemmie, resistenza alla forza pubblica ecc. ecc.

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Carmine Donatelli prese il titolo di generale, e fu il capo della banda.

Vincenzo Nardi di Ferrandina era già stato 15 Tolte ladro e quattro volte assassino: per amore di brevità non dirò degli altri suoi misfatti. Prese il nome di D’Amati e il grado di colonnello. Fu lui che entrando a Rapolla pronunziò quel cinico motto «Si dice che Francesco II è un ladro. Or bene: io ladro di professione, vengo a restaurare un ladro sul trono.»

Michele La Rotonda di Ripacandida, accusato di 4 furti, di 2 omicidi premeditati e mancati, di due carceri private ecc. fa nominato luogotenente colonnello.

Ma Giuseppe Niccola Summa, il quale non avea sulla coscienza che tre furti qualificati e due omicidi mancati, dovè rimaner pago del grado di maggiore.

Questi capi e le loro milizie, impadronitisi di Ripacandida, fecero suonar campane, inalberare bandiere bianche, cantarono il

Te Deum

e nominarono un governo provvisorio. Nel tempo istesso vuotarono il magazzino di un ricco possidente chiamato Giuseppe Larusso, dopo averlo legato innanzi alla porta, perché fosse spettatore della sua rovina. La casa del capitano Anastasia ucciso da que’ miserabili fu del pari saccheggiata. La famiglia di lui ne richiese il cadavere per dargli sepoltura: lo ottenne, sborsando una forte somma di denaro.

Durante due giorni Ripacandida fu in feste. Non vi furono che petardi, illuminazioni, balzelli imposti e percetti ad libitum: tutti rubavano allegramente.

Nel tempo istesso la reazione scoppiava nella borgata di Ginestra, e l’indomani a Venosa. Venosa è considerata come una città importante, non per la sua popolazione, che giunge a poche migliaia d’anime, ma per le sue memorie. Ha una cattedrale e un vescovo. Si ghiaino Venusia e fu patria di Orazio. È tenuta in conto di città, ed è una delle

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due, che sole nelle turbolenze di questo anno sono state occupate dai briganti.

Il sotto intendente della provincia, Racioppi, avea fatto quanto poteva per resistere al movimento. Avea chiesto truppe a Napoli, riunito Guardie nazionali di tutte le comuni della Lucania. Molte erano accorse all’appello. Quella di Venosa erasi preparata alla resistenza: la città era coperta di barricate; molti sospetti erano stati arrestati, fra i quali il fratello di Crocco.

Ma nella mattina del 10 una sessantina di guardie nazionali di Maschito, di Forenza e di Venosa, essendo uscite da questa ultima città, si imbatterono in una frotta di contadini, che fuggivano pallidi dalla paura. «Migliaia di briganti marciano contro di voi, esclamarono, rientrate immediatamente in città.» Rientrarono; il terrore si impadronì di Venosa, ma sopraggiunto un rinforzo di Guardia nazionale, fu risoluto di battersi. Le barricate, il campanile e il castello erano gremiti di difensori.

Giunsero i briganti, 600 all’incirca, 150 armati di fucili, il resto di zappe e di scuri. Tenuti a distanza da una delle porte della città assai ben difesa, l’attaccarono da un altro punto, donde vedevano agitarsi de’ bianchi lini. Era la plebe che li chiamava e prestava loro le scale. I nazionali ammassati nel campanile volevano tirare sopra gli assalitori. «Per carità non tirate! gridò loro da una finestra un timido borghese; non tirate, son nostri fratelli e ci recano la pace.»

Non tirarono: e la città fu presa.

Il generale comandante (Crocco Donatelli) ordinò il saccheggio; fu con ardore obbedito: si cominciò dalla cassa della Comune: ciò che non si potè trasportare, fu bruciato; non si risparmiarono le finestre e le porte. Poi venne la volta delle case

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dei canonici Albano e La Conca: la nipote di quest’ultimo, fanciulla giovane e graziosa, ebbe la faccia tagliata a colpi di sciabola.

Un’ altra donna giovane di Venosa, assalita da un brigante, gli diresse un colpo di pistola: l’arme non prese fuoco: allora essa si gettò dalla finestra. Ahimè! tutte non ebbero codesto coraggio.

Il procuratore del monastero di San Benedetto dovè pagare somme ingenti. La prigione fu aperta, e i detenuti lasciati liberi per la città. Svaligiarono la casa di un orologiaio, Raffaelle Montrone, e gli uccisero sotto gli occhi il figlio dodicenne. Entrarono in casa del dottor Francesco Nitti, medico e vecchio, e poiché egli veniva contro di essi, fu atterrato con un colpo terribile sulla testa, poi, già morto, forato di palle. Tali furono (e non mi dilungo) le imprese di questi forsennati.

Tuttavia il castello resisteva ancora difeso dai patriotti. Fu loro inviato un parlamentario colla promessa che sarebbe cessato il saccheggio, non appena si fossero arresi. Si arresero, e il saccheggio continuò liberamente.

Poi vennero le commedie. All’indomani dell’invasione, dugento soldati sbandati si riunirono dinanzi alla casa Rapolla, abitata dal generale de’ briganti. Indi col tamburo alla testa e a bandiera spiegata uscirono dalla città per andare, a quanto dicevano, incontro al generai Bosco, che era per giungere alla testa della sua armata. Gli abitanti di Venosa lo crederono: in quel paese si crede tutto.

Si prestò fede perfino ad un soldato borbonico che, affannato, ansante, coperto di polvere, giunse un giorno sulla piazza pubblica. E il popolo a farglisi attorno e a chiedergli:

«D’onde vieni? che havvi?» – «Vengo da Napoli, don Francesco II è tornato sul trono di suo padre.»

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II saccheggio di Venosa durò tre giorni. Tutti i galantuomini furon posti a riscatto, salvo quelli che avevano agevolata l’invasione. Coloro che non pagavano erano fucilati. Un tal Giuseppe Antonio Ghiura parve esitasse a gridare

Viva Francesco II;

fu scannato sulla piazza pubblica.

Dopo di che il general Crocco passò in rivista i suoi prodi. Uno di essi, denominato Romaniello, chiese di tornare nel suo paese. Il generale si degnò di inviargli, colle sue proprie mani, una palla nelle spalle.

Nella mattina del 14 la banda lasciò Venosa, dopo essersi fatti precedere a Ripacandida, da nove muli carichi di una somma di ventimila ducati.

Ma partiti i briganti, restava la plebe che volea continuare il sacco. Non vi fu che un mezzo per pacificarla, cioè darle quanto essa chiedeva. Il 16 finalmente giunse una forte colonna di Guardie nazionali, più di 400 uomini, de’ quali 130 a cavallo, comandata dal maggiore D’Enrico; erasi organizzata in due giorni: fu ricevuta con acclamazioni e al suono delle campane. Coloro che avevano gridato Viva Francesco II, gridarono a voce più alta Viva Vittorio Emanuele.

Fra i capi della milizia nazionale trovavasi il famoso Gabriele Bocchicchio di Forenza. Egli stesso con dieci uomini fidati, avea impedito quattro giorni prima l’invasione di Maschito. Imboscato sulla strada che percorrevano i briganti, a tempo avea assalito e disperso la loro avanguardia, composta di una ventina d’uomini che erano venuti a preparare il terreno.

Questo Bocchicchio era un’ antica conoscenza di Crocco, come ne fa fede la seguente lettera:

Melfi, 16 aprile 1861. Carissimo Gabriele,

Oggi a Melfi da una Commissione militare è stato ristabilito il

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governo provvisorio. Le cose vanno bene. Io ho agito per ordine superiore: il Decreto è stato rilasciato a Roma il 23 febbraio da S. M. il nostro Re Francesco II (che Dio guardi e protegga). Se tu

vuoi prender servizio, i superiori di qui vi daranno armi e libertà e sarete elevato al mio grado. Riunite dunque, e prontamente, delle forze e praticate ciò che ho fatto, vale a dire il disarmo del paese e la distruzione della bandiera di Vittorio Emanuele, e sii sicuro che tutte le popolazioni, come un sol uomo, insorgeranno al grido di Viva Francesco II, Re delle Due Sicilie.

Se voi accettate fatemelo sapere con fatti splendidi, senza di che se i tuoi sentimenti sono diversi, sortite in campagna colla vostra armata e datemi appuntamento dovunque, perché io sono pronto a incontrarvi col fucile alla mano e a farvi pagare care le vostre imprudenze.

Son sicuro che farete tesoro delle mie parole e che non mi costringerete a perseguitarvi.

Il generale comandante le armi Carmine Donatella.1

È certo che Bocchicchio non rispose a questa lettera, e che si battè coraggiosamente per la causa italiana. Un brigante (quale lo accusano di essere) non avrebbe resistito a tutte queste tentazioni.

La lettera è datata di Melfi; là infatti Crocco si era condotto lasciando Venosa. Era passato per Lavello insorta con molte altre borgate della provincia, cioè:

1 Questa lettera è un capolavoro di Crocco, ma non è lui che l’ha scritta: egli l’ha firmata soltanto: il perché vi è un solo errore di ortografìa, e questo errore è appunto nella soscrizione –

Donatella invece di Donatelli.

– Esistono non pochi autografi del generale di Francesco II: non posso resistere al desiderio di trascrivere il più corto: così si conteranno gli errori. £ una ricevuta rilasciata da Crocco al signor Luigi Del Bene, agente del principe Doria, al quale egli aveva estorto 360 ducati:

«II Generalo si ha preso dalla genio D Luigi del Beno del prigipi Dorio docati trecento sessanta, perché servono per i miei soldati.

IL Generalo Carmini Crocco Donatella.»

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– Avigliano, sollevata dall’arciprete ottuagenario Francesco Clapo, di cui dovrò parlare più tardi; – Ruoti, dove ne un galantuomo né un prete (è fatto degno di nota) secondò il movimento; – Caraguso e Calciano, sole borgate forse ove vi fu reazione senza brigantaggio; – Rapolla, di cui gli abitanti gridavano con trasporto di gioia «I topi hanno mangiato i gatti,» intendendo per topi i borbonici; – Atella, Barile, Rionero, Grassano, San Chirico ove avvenne un fatto commovente. Le Guardie nazionali di Tolve recandosi a Grassano, doverono passar la notte in questa Comune. Vi furono ricevuti freddamente; gli abitanti non vollero alloggiarli. Dalle parole si venne ai fatti, e vi furono alcuni feriti e due morti, fra i quali un uomo di San Chirico, chiamato Lacava. Il capitano dei Nazionali di Tolve ebbe l’accorgimento di far battere la ritirata per risparmiare effusione di sangue. Ma sette de’ suoi uomini rimasero nel paese, fra le mani degli abitanti ancora ardenti pel conflitto. Uno di questi disgraziati, fuggendo, cadde in casa della moglie di Lacava, madre di sette fanciulli, che gli uomini di Tolve aveano reso orfani. – Ebbene! codesta vedova accolse il fuggitivo che era cercato per porlo a morte: gli die da cena, e un letto nella sua casa, da donna cristiana. – Questo fatto non recherà sorpresa altrove; ma in paesi fanatici, in cui la religione eccita alla collera e assolve la vendetta, apparisce quasi divino.

In Lavello, fin dal 10 aprile, eransi preparati alla resistenza. Per combattere l’effetto delle voci sinistre di Venosa, i patriotti avevano perfino offerto pane e danaro alla gente del popolo. Fatica gettata, perché la paura soverchiò ogni altro sentimento. Lasciando Venosa, Crocco potè occupare Lavello senza resistenza, L’avanguardia a cavallo vi entrò colla pistola in mano, e, a guisa di avvertimento, uno de’ cavalieri scaricò la

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sua arme sopra un certo Pietro Bagnoli, che cadde morto.

Entrati i briganti, saccheggiarono la città e presero quanto trovarono. Alle donne strapparono perfino gli orecchini. Dopo di che, a suono di tromba proclamarono che il furto era proibito, sotto pena di morte.

Un individuo fu colto sul fatto in contravvenzione a questa legge: subì tosto la pena: gli vennero bendati gli occhi, fu posto a distanza, e fu esplosa contro di lui una pistola. Cadde col capo in avanti. – Gli abitanti di Lavello seppero in seguito che la pistola era carica a polvere.

Quindi Lavello fu disarmato. Gli abitanti fecero i fasci con 300 fucili a munizione dinanzi al generale: ma nella città eranvi ancora 27 facili da caccia a due canne. Crocco li richiese come cosa a lui spettante, e bisognò consegnarglieli.

Si recò in seguito (il 15 aprile) con una scorta armata dal cassiere municipale, signor Palmieri, e gli chiese i 7000 ducati che restavano nella cassa della Comune. Palmieri rispose che la somma era stata esagerata. Crocco fece un segno colla testa e la cassa fu scassata. Allora Palmieri supplicò il generale di non prender tutto e di lasciare qualche cosa per i poveri. Crocco prese 500 ducati soltanto. Non basta: sottoscrisse u processo verbale (e questo documento esiste tuttora), dal quale apparisce come la cassa era stata forzata.

Lavello si aspettava maggiori sventure. Ventisette liberali dovevano esser fucilati l’indomani 16 aprile, e l’arciprete Maurizio non lasciava Crocco, che l’aveva nominato cappellano della sua brigata.

Ma per buona ventura alcuni messaggi, che ripetutamente giungevano da Melfi, attrassero i briganti sopra quella preda più importante. Crocco partì ad un

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tratto con i suoi uomini, non lasciando a Lavello che venticinque fucili pessimi. L’ indomani le bandiere bianche e le coccarde rosse erano scomparse, e tutto era tornato tricolore.

La rivolta di Melfi è l’episodio più importante della reazione in Basilicata, e fors’anco di tutti i moti che,mentre scrivo, agitano l’Italia meridionale. Quasi dapertutto vediamo infatti invasioni violente che si limitano al disarmo de’ corpi di guardia, al saccheggio delle ricche magioni, a prestar mano agli aggressori;ma è la popolazione povera, la plebe affamata che vuole una parte del bottino. Infine queste bande armate, in generale, non attaccano che impercettibili ca>solari, i nomi de’ quali sconosciuti non si trovano neppur nelle carte geografiche. •

Ma così non è di Melfi, città famosa nella storia. Il terremoto che la rovinò, or sono quasi dieci anni, ringiovanì a tempo la sua celebrità: ha una cittadella, una cattedrale, un vescovo: Bouillet, gli assegna 7000 abitanti; è infine la città più importante, che siasi sollevata a prò della decaduta dinastia. La sommossa non fu qui esclusivamente plebea e comunista. Eccitata dai notabili, prese un carattere assai diverso e quasi moderato; nacque da una cospirazione, e fu frenata dai suoi stessi capi; insomma fu una vera e propria insurrezione; la sola che siasi manifestata ne’ tempi che corrono.

Alcune famiglie aristocratiche di quella città (e segnatamente gli Aquilecchia) eran rimaste fedeli a Francesco II: sognavano una restaurazione, e chi vuole il fine vuole i mezzi; in quel paese è questa la prima regola di politica. Fino dall’apparizione de1 briganti a Venosa i borbonici di Melfi patteggiarono con essi: nel tempo medesimo istruirono il popolo: gli annunziarono l’ingresso di Francesco II negli Abruzzi con gli Austriaci, l’apparizione dei suoi soldati sopra navi

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francesi nel porto di Napoli, molti sbarchi sulle coste delle Puglie, e infine il prossimo arrivo del generale Bosco alla testa di 12 mila uomini.

Il sindaco si era adoperato a contrapporre menzogne a menzogne: dal canto suo avea annunziato ravvicinarsi di truppe italiane, avea nominato una commissione per preparare gli alloggi. Ma l’artifizio non riuscì: un dispaccio officiale proveniente da Foggia, e dissigillato prima che giungesse al sindaco, dichiarava dolorosamente che in quel momento il Governo non poteva inviar truppe.

La rivolta scoppiò dunque il 12 aprile. Il popolo si riunì in folla sulla piazza del mercato, gridando:

Viva Francesco li, morte ai liberali!

Furono aperte le prigioni, bruciate le carte della polizia, del municipio, de’ tribunali. Un soldato dell’esercito licenziato, per nome Ambrogio Patino, assunse il titolo di generale, e costrinse quanti passavano a inchinarsi dinanzi a lui. Un Michele Proietto prese i ritratti di Garibaldi e di Vittorio. Emanuele, li portò sulla pubblica piazza, e li mise in pezzi a colpi di scure, dopo averli ricoperti d’ingiurie e di sozzure. Le Guardie nazionali, indossando vecchi spogli di guardie urbane e di guardie d’ onore abolite, si unirono alla reazione. La plebaglia condotta dai preti convenne innanzi alla casa del cavalier Colabella che l’arringò e le gittò dalla finestra un immenso lenzuolo bianco. Questo lenzuolo tagliato in bandiera ondeggiò sopra diversi punti dell’attruppamento. Colabella e Aquilecchia furono condotti in trionfò. Nessun giornale entrò più in città, e le voci sparse non poterono esser smentite, né contraddette

Per quattro giorni Melfi appartenne al popolo, e fu quasi spaventevole veder una plebe armata di fucili, di pistole, di sciabole, di scuri, di coltelli da macellaio, che brandiva queste armi per le vie, gettando

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grida feroci, disarmando i cittadini, invadendo le case, entrando dovunque, assorbendo tutto. Le donne erano più inferocite degli uomini; una vecchia di sessant1 anni, vestita da soldato, minacciava di trucidare tutti. Era ubriachezza e furore.

Pure non furono molti gli eccessi: alcune case furono derubate, e non altro. Aquilqqchia nominato prodittatore impedì il saccheggio. Nella chiesa ove fu cantato il

Te Deum,

il curato raccomandò si rispettassero la vita, l’onore, le proprietà dei cittadini. Con molto denaro la plebe fu pacificata; la città fu decorata, si alzarono troni, si inalberarono da pertutto ritratti di Francesco II e di Maria Sofia. Per ultimo si accumularono provvigioni per ricevere 1 armata borbonica, e fu in gran fretta preparata un’uniforme di velluto verde per offrirla a Crocco, che la comandava.

Nella sera del 15, Crocco fece il suo ingresso in Melfi. Due carrozze erano uscite ad incontrarlo, piene di guardie d’onore, di preti ornati di medaglie borboniche, recando quattro bandiere bianche a frange d’argento e a galloni d’oro. Seguiva la folla agitando alcune torce. Fu un ingresso trionfale, e Crocco potè chiedersi se egli era o no il re.

Àquilecchia e Colabella lo riceverono alle porte della città in mezzo a frenetiche acclamazioni. Il generale fece una genuflessione ad una specie d’inginocchiatoio innalzato all’ingresso del palazzo municipale, ed osò ringraziare la Vergine santissima, dicendo che essa medesima avea guidato e protetto le sue armi vittoriose.

Dopo di che Crocco percorse la città fra le acclamazioni ognora crescenti. Poi impose tasse a tutti, levò balzelli e riempì le sue casse: furono eseguiti i suoi ordini, sotto pena della fucilazione. Egli dettava leggi a guisa di dittatore.

Questo stato durò tre giorni, fino al 18 aprile.

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Avvertito che sopraggiungevano i Piemontesi, Crocco fece prontamente i suoi bagagli, abbandonò la città indifesa alla repressione, ma portò seco 30,000 ducati.

E tosto Melfi riprese le sue bandiere tricolori, i suoi ritratti di Vittorio Emanuele e Garibaldi, la sua maschera italiana. La popolazione corse incontro all’Intendente che per prudenza l’avea abbandonata, e dichiarò che non avea cessato di esser liberale. Colabella e Aquilecchia furono trascinati per le vie in mezzo ai fischi della plebaglia, e racchiusi in una carcere fra i ladri.

Ho dimenticato di narrare che pochi giorni innanzi alla sua insurrezione a favore di Francesco II, Melfi, chiamata a nominare un deputato al parlamento nazionale, avea eletto uno de’ patriotti più avanzati dell’avanguardia della rivoluzione: Francesco Domenico Guerrazzi.

Dunque gli Italiani giungevano. Un po’ tardi, ma impotente a dar di più di quello che avesse, il Governo si era deciso a spingere contro i briganti alcune compagnie del 2° battaglione della brigata Pisa; furono ricevute con manifesti segni di gioia; bastarono a rianimare lo spirito pubblico, e subito le Guardie nazionali furono in ordine, pronte a battersi. Un attacco vigoroso in vicinanza di Barile e di Rionero, e in Barile stesso, durò sette ore, e mise fuori di combattimento 150 insorti.

Non voglio stancare il lettore narrando tutte le scaramuccie che avvennero; sarebbe cosa, monotona ed inutile. Senza aver sotto gli occhi una di quelle immense carte edite dalla tipografia officiale, non si potrebbe seguire questa insurrezione dei briganti, in mezzo a borgate sconosciute.

Mi limito ad un incidente che fornirà un’idea degli altri. Il capitano David Mennunni di Genzano, di un coraggio già esperimentato, ardeva dal desiderio di battersi.

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Si staccò quindi dalla colonna della Guardia nazionale, comandata dal maggior D’Errico, e si die a correre i boschi con un centinaio di uomini a cavallo. Giunse dinanzi a Lagopesole sopra l’estremità d’un bosco, ove dei tuguri raccolgono durante l’inverno le mandrie del principe Doria. Il luogo gli parve sospetto: si avvicinò ad uno di questi tùguri; nascondeva 20 briganti; una sentinella vigilava all’ingresso: vedendo Mennunni e i suoi compagni con vesti da contadini, la sentinella esclamò:

Son de’ nostri!

Ma uno de’ banditi accovacciato nel tugurio conobbe l’errore e mirò al capitano. Per fortuna la carabina di lui era mal caricata e il bandito stesso ne ebbe la morte. Mennunni aveva la mano pronta:

Avanti, figliuoli, Viva Garibaldi! gridò; e tosto, a piedi o a cavallo, uscendo dal tugurio e da una vicina capanna, i malandrini si posero in fuga, a tutte gambe, a spron battuto, stretti da ogni lato; ne caddero morti più di venti. Due uomini uscirono per gli ultimi, uno fu ucciso a pochi passi; l’altro vestito di una lunga casacca e col capo coperto di un enorme cappello era» stato già preso di mira. Ebbe appena tempo di gridare: «Son piemontese, sono de’ vostri!» Lo era infatti. Alcuni giorni innanzi a Carbonara gli Italiani, partendo per una spedizione non avevano lasciato che undici uomini incaricati di guardare le provvisioni. Questi disgraziati assaliti all’improvviso avevano dovuto abbandonare il luogo..Uno di essi era stato forato dalle palle, in secondo (un furiere) fatto in pezzi a colpi di scure; il terzo, restato prigioniero, era quegli che gli uomini di Mennunni avevan preso di mira.

Sopra uno de’ morti nel fatto di Lagopesole fu trovata una lettera indirizzata a S. E. Don Carmine Crocco da un tal Luigi Caputo di Rionero. Ne cito una frase preziosa: «Voi dovete accordarmi, secondo» la mia parola, di riunirmi alla vostra santa bandiera

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del nostro padre Francesco II, per la grazia» di Dio, di V. E. e di tutte le nostre truppe.»

I briganti si ritirarono saccheggiando ancora Monteverde, Carbonara e Calibri. L’arcivescovo di Conza fece loro una magnifica accoglienza a suono di campane e benedisse nel nome di Dio la loro sacra falange. Dopo di che diminuiti e scoraggiati gli uomini di Crocco si aggirarono per qualche tempo sulle rive dell’Ofanto, aggredendo i viaggiatori.

Un giorno alcuni preti liberali rientravano a Melfi, da essi abbandonata durante la reazione. A tre miglia della città udirono gridare dietro di loro

Al ladro, al ladro!

Accorsero a queste grida, credendo vi fosse da difendere la vita di qualcuno. Erano i briganti che con questo artifizio aveano attratto i preti. Uno di de’ quali, per nome Ruggiero, cadde vittima di tale tranello; gli altri due avevano buoni cavalli, e furono inseguiti a colpi di fucile fin entro la città.

Le Guardie nazionali del paese fecero il loro dovere in questa aspra campagna. Vorrei pubblicare i nomi dei più valorosi, ma ne conosco alcuni soltanto, e sarei così ingiusto di fronte agli altri. Per equità dunque mi taccio.

Ricordo soltanto che poco tempo dopo la repressione del brigantaggio in Basilicata, sulla proposta di Terenzio Mamiani, il parlamento nazionale dichiarò solennemente che:

le guardie nazionali dell9Italia meridionale hanno, negli ultimi avvenimenti, ben meritato della patria.

Ecco ora un documento che getta una viva luce sopra le inclinazioni del popolo ne’ Comuni insorti. È lettera di una donna di Ripacandida indirizzata a suo marito. Trascrivo parola per parola, e conservo scrupolosamente la punteggiatura, non conservando però l’ortografia.

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Carissimo Marito,

Mi sono rallegrata che voi siate in buona salute e che Dio vi abbia liberato da ogni cattiva disgrazia io sono ad ogni momento pregando Dio di liberarti ma intanto si dice pubblicamente a Ripacandida che voi siete stato coraggioso per la patria e che il Signore vi accompagni fino nella fine di riportar la vostra vittoria per una sola cosa io mi sento molto dispiacente perché tutti i Ripacandidesi hanno portato ricchezze alle loro famiglie io piangendo e lacrimando diceva perché mio marito non si ricorda di me dicendo io povera donna non ho fortuna in alcuna ora e io diceva a me stessa mio marito aveva un cuor generoso perché mostra egli un cuore di macigno vi prego al più presto di togliere la mia miseria vi salutano caramente i miei fratelli e vi dicono che vogliono un ricordo di voi date un fucile a ognuno perché si ricordino del vostro buon cuore e il fucile che avete inviato non l’ho ricevuto. Vi abbraccio caramente. Scritta da me Michele Guglielmucci e anche a me mandate fucilino.

Vostra affezionatissima moglie

Teresa Sairna.

Alle mani di Donato RegaVenosa.

Io non mi sono esteso sulle atrocità commesse dai briganti, per non esser tacciato di inverosimiglianza. Ma ecco una testimonianza che non sarà posta in dubbio, un considerando di una sentenza pronunziata contro un calabrese di Feroleto Vecchio, chiamato Fertfinando Pietropaolo e capitano dello stato maggiore di Crocco:

«Considerando che la ferocità di Pietropaolo è posta in evidenza anche dalla scoperta di un mento umano con pizzo alla Napoleone (imperiale) tolto a qualche disgraziato di opinioni liberali, e che Pietropaolo portava barbaramente seco…. ecc.»

Diciamo pertanto tutta intera la verità. Fra questi miserabili vi erano alcuni uomini convinti e sinceramente affezionati ai Borboni.

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Tale era l’arciprete di Avigliano don Ferdinando Clapo. Questo vecchio ottuagenario e istruito era fedele al papa-re e a Francesco II, e dopo il Te Deum cantato il 21 aprile nella chiesa di Avigliano per celebrare la vittoria degli Italiani, ebbe il coraggio in faccia alle Guardie nazionali e agli officiali piemontesi di annunziare il prossimo ritorno di Francesco II in mezzo ai suoi ben amati sudditi, e di esortare gli assistenti a rimanergli fedeli.

L’arciprete fu invitato a parlare con maggior prudenza: crebbe in lui l’audacia, e fu arrestato. Condotto a Potenza, capo luogo della provincia, sostenne ancora la sua tesi, e volle assolutamente il martirio. Questa grazia non gli venne accordata.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html#Basilicata

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