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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (XI)

Posted by on Feb 17, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (XI)

Assalto al Pianto Romano

Garibaldi esamina quella vallata che divide le sue truppe dal nemico. Sarà difficile attraversarla senza perdite. L’avanguardia la sta già percorrendo e non si può lasciarla sola, così ordina la carica generale.

L’intera brigata dei Cacciatori delle Alpi si scaglia in avanti: a destra il battaglione di Carini, affiancato dai picciotti di Sant’Anna e di Coppola; a sinistra, più arretrato, il battaglione di Bixio.

Figura 53 – Artiglieria borbonica

L’avanguardia attraversa la vallata sotto il fuoco dei cannoni e della fucileria. Giò e gli altri genovesi corrono e corrono a perdifiato, mentre il piombo e le schegge volano attorno. C’è una casupola lì davanti e vi si rifugiano, in attesa dei rinforzi. Ecco arrivare i giovani studenti pavesi di Cairoli che, gridando «Viva l’Italia»,avanzano di corsa e insieme a loro si sale per l’erta, dura, pesante, pietrosa, e il cuore sembra voler schizzare fuori dal petto per lo sforzo e per la paura. Cadono i garibaldini, trafitti dalle micidiali palle cilindrico-ogivali ad espansione che producono terribili ferite. Cade ferito il capitano Giorgio Manin e non riesce a rialzarsi. Una palla nel ginocchio fa cadere bocconi il capitano Montanari[1]. Soffre maledettamente il rivoluzionario modenese, infatti il ginocchio si è fratturato in più punti.

Un gruppetto sparuto di garibaldini giunge trafelato sotto il ciglio della prima terrazza, alto poco meno di un paio di metri, utilizzato come riparo. Giò rifiata, seduto sotto sotto il parapetto, sentendo fischiare sulla testa i proiettili dei cacciatori.

È arrivato il turno dell’artiglieria napolitana. Il tenente Achille De Martini dirige i due obici da montagna in batteria sul poggio. I suoi artiglieri sono ben addestrati e pronti a entrare in azione. Il tenente, però, ha il cuore italiano: suo fratello maggiore è caduto a Montanara nel 1848, quale ufficiale del 10° di linea, combattendo contro gli austriaci. Cosa fare? Ordinare di far fuoco o scappare? Abbandonare i propri uomini o rimanere e combattere? Non c’è più il tempo di pensare: gli artiglieri introducono il cartoccio della carica, spingono col calcatoio il tampone, inseriscono nell’anima la palla a mitraglia, prendono la mira, introducono nel focone lo sfondatoio e bucano il cartoccio, avvitano nel focone il cannello fulminante, agganciano la cordicella da sparo e «fuoco», la strappano. Tuona l’obice e il rinculo lo sposta con un balzo all’indietro.  Il sottile involucro di latta della palla si squarcia e la massa di schegge schizzano attorno, formando una rosa di proiettili micidiali che lacerano le carni dei nemici. Gli artiglieri puliscono con lo scovolo l’anima dell’obice dai residui arroventati del tiro appena effettuato e ricominciano con la procedura di caricamento.

Maringh è riuscito a ricompattare le due compagnie, mentre le altre quattro si stanno avvicinando in rinforzo. I cacciatori sono schierati per plotoni, su due linee, e mentre una linea spara, l’altra ricarica, tenendo sotto un fuoco continuo i nemici riparati sotto il ciglio del terrazzamento. Francesco ripete in continuazione l’Ave Maria e tiene i suoi gomiti a contatto con Rucchitto a destra e con Tommaso Del Pizzo a sinistra, e ciò gli dà coraggio. Il sergente Certosini ordina di ricaricare e i cacciatori della sezione appoggiano il calcio per terra, strappano con i denti la cartuccia di carta, versano la polvere dentro la canna, poi vi gettano dentro la carta della cartuccia a guisa di stoppaccio e con la bacchetta la portano a contatto con la polvere; inseriscono la pallottola e con la bacchetta la premono verso la polvere, ma delicatamente per non schiacciare i granuli; tirano indietro il cane e inseriscono la capsula nel luminello. La linea è pronta al tiro.

I garibaldini sono al riparo sotto il ciglio e ogni tanto si sporgono pericolosamente per rispondere al fuoco. Il carabiniere Angelo Profumo, ottimo tiratore, ha caricato la sua carabina ed è pronto a fare fuoco. Bello e caro giovane, ha compiuto ventott’anni cinque giorni fa, in navigazione. Proviene da San Francesco d’Albaro, elegante sobborgo di Genova che sorge su una collina a oriente della città, dove i genovesi più abbienti usano recarsi in villa per trascorrervi la stagione calda. Si solleva sul parapetto ed è colto da una palla al torace. Giò e Paolo accorrono e lo stendono delicatamente con le spalle sul greppo. Giò appoggia l’orecchio sul cuore del camerata ferito: batte ancora, ma non ne avrà per molto!

Figura 54 – Benedetto Cairoli (1825-1889), comandante della 7a compagnia dei Mille.

Benedetto Cairoli è colto dalla rabbia alla vista di quei giovani compagni che perdono la vita. Vuole farla finita col nemico. Incita gli uomini e li chiama alla carica. Si monta sul terrazzamento, urlando e puntando le baionette. Si sente un indescrivibile ronzio di bacchette che i cacciatori nemici infilano contemporaneamente nelle canne, rumore cupo che fa presentire la morte. Il piombo grandina fitto con un rumore che sembra un disperato miagolio e quando tocca la roccia fischia. I volontari che avanzano allo scoperto si sentono come bambini nudi in mezzo alla tempesta. Vorrebbero nascondere la testa tra le spalle, scavare la dura terra con le mani e sprofondare fino a sparire dalla vista dei cacciatori nemici. Il fumo e il fuoco sono più fitti di un girone infernale! Cadono cinque, dieci, quindici, venti garibaldini, tra urla e imprecazioni, pianti e lamenti. Si ritorna indietro di corsa, al riparo del ciglio.

È la volta della compagnia dei bergamaschi che attraversa la spianata sotto una scarica di piombo fitta e micidiale. Cade Fermo Amati, 19 anni, vetraio. Cade Federico Antonioli, 20 anni, sarto. Cadono vicini, fianco a fianco, Luigi Biffi e Gaspare Tibelli, studenti, il primo avrebbe compiuto 14 anni tra nove giorni, l’altro ha compiuto 18 anni oggi, festeggiando con una pallottola in fronte.

Il capitano nemico urla la carica per dare il colpo di grazia a quei pochi garibaldini che sono riusciti a raggiungere il riparo. I napolitani avanzano gridando «Viva ‘o Re», ma arrivano in rinforzo i bergamaschi di Bassini che li fermano a metà spianata. «Viva Bergamo»,urlano i garibaldini soccorsi.

Si monta di nuovo su e si ripete l’assalto. Un’ulteriore pioggia di pallottole investe i volontari che anche stavolta sono costretti a ritirarsi. Giò ha gli abiti inzuppati dal sudore, le labbra secche e la gola arsa. Per sua fortuna, nel tascapane ha conservato arance e limoni offertigli dai salemitani. Prende un’arancia, la divide e ne offre metà a Paolo. Con l’altra metà bagna la sua bocca asciutta e impastata. Si sente un urlo di gioia: è arrivata in soccorso la 1a compagnia di Dezza. È giunto anche Nino Bixio a cavallo che incita le camicie rosse a un nuovo assalto. Va avanti e indietro sull’orlo della spianata, sventolando il tricolore e attirando le pallottole dei cacciatori nemici, i quali, vedendo quel demonio urlante sul cavallo, lo prendono di mira più volte. È un miracolo! La tempesta di fuoco non lo tocca, lo sfiora solamente e lui, il demonio genovese, torna nella sua linea, dopo aver compiuto l’atto eroico come un cavaliere medievale. Notando i buchi e le strisce sull’uniforme e sulla sella provocati dalle pallottole, Bixio inizia a snocciolare una serie di imprecazioni tutte diverse una dall’altra, articolate e ritmate come le litanie del Rosario recitate dalla madre di Giò.

Il nemico è stato rinforzato dalle quattro compagnie in riserva sulla cima. Altre quattro compagnie, quelle tornate dalla ricognizione, sono giunte e si sono poste nei pressi dei cannoni. Si assalta, seguendo Bixio che inveisce in genovese, puntando le baionette sfolgoranti verso il nemico in linea di tiro.

Il capitano Palumbo guarda quei diavoli rossi avvicinarsi di corsa, ordina il fuoco, che colpisce una decina di nemici. Gli obici di De Martini tuonano e la mitraglia flagella l’aria, abbattendo un gruppo di volontari che cadono giù come foglie secche d’autunno al soffiare della tramontana. Rucchitto vede di fronte a sé avanzare un giovane con l’uniforme da ufficiale piemontese, che gli punta il revolver facendo fuoco. La pallottola gli passa a fianco, lasciandogli un fischio nell’orecchio. Rucchitto prende la mira con calma, come quando va a caccia di malevizi[2], vede il chepì dell’ufficiale dietro al suo mirino e preme il grilletto. Il colpo buca la fronte del giovane piemontese, facendogli volar via il berretto. Le camicie rosse avanzano sotto la tempesta di fuoco. Suona la ritirata e i plotoni di cacciatori si ritirano su una spianata più alta. È trascorsa un’ora dal primo sparo.

Il generale Landi ha osservato la ritirata dal primo terrazzamento ed è preoccupato. Sforza gli ha mandato una staffetta per chiedere altri rinforzi. Cosa fare? Non si può indebolire troppo Calatafimi, rischiando di lasciarlo agli insorti. Alla fine decide di inviare altre quattro compagnie: due di cacciatori e due del 10° di linea.

Per terra, assieme ad altri garibaldini, è rimasto il sottotenente dello Stato maggiore Costantino Pagani di Borgomanero, un giovane piemontese di 23 anni. Si faceva chiamare De Amicis, per nascondere il fatto di aver disertato dal 46° reggimento di fanteria. Ora, col cranio bucato, è immobile, inerte: non è più nessuno.

In prima linea è arrivato Garibaldi: ha il cappello ungherese quasi calato sugli occhi, lo sguardo acceso che spazia sulla linea del fronte, mezzo sigaro nella bocca sorridente, ritto e ben visibile con la sua camicia sgargiante e la sciabola impugnata con la mano destra. Accanto a lui ci sono Bixio, Sirtori, Missori, Bandi ed altri ufficiali. Sta in mezzo alla 7a e all’8a compagnia, ai genovesi ed alle guide. Dal terrazzamento occupato dai borbonici piovono alcune pietre, perché i cacciatori della prima linea hanno finito le munizioni e sono in attesa di riceverne altre dalle truppe giunte in rinforzo. Una pietra colpisce al petto il generale che crolla per terra. Molti temono che sia stato colpito da un proiettile, ma lui si rialza sorridente, anche se gli manca il respiro per la forte botta. Il sottotenente Daniele Piccinini dell’8a compagnia gli mette addosso il suo impermeabile scuro, per renderlo meno visibile, e lo rimprovera con lo sguardo, perché se dovesse morire il generale, tutto sarebbe perduto. Piccinini[3] ha il volto e il fisico del pugile, roccioso come le Alpi Orobie da cui proviene. Sembra uscito da un romanzo di Dumas.

Sirtori, in groppa al suo cavallo di piccola stazza, guarda preoccupato il generale così esposto. Egli indossa un’uniforme nera, bucata in vari punti dalle pallottole nemiche. Smunto e pallido, Sirtori ha un’espressione calma, come se non fosse in mezzo a quell’inferno! Ai lati ci sono le squadre di picciotti che sparacchiano senza molta attenzione per la posizione dei garibaldini. Non si può rischiare la vita del generale.

Figura 55 – Garibaldi a Bixio: «Qui si fa l’Italia o si muore!».

Sforza ha ricevuto i rinforzi e altre munizioni. Ora ha a disposizione quattordici compagnie di fanti. Manda sulla sinistra quattro compagnie per prendere di fianco il nemico. Francesco guarda i suoi camerati delle altre compagnie che avanzano pesanti e rumorosi, urlando «Viva ‘o Re».Li conduce il vecchio capitano Vito Fondacaro di Partinico. Se lo catturassero i suoi compaesani insorti lo farebbero a pezzi.

Edoardo Herter, un bel giovane di ventisei anni della 7a compagnia, medico di Treviso, nota la pericolosa manovra del nemico. Indossa la camicia rossa e un largo cappello nero di feltro che gli copre la capigliatura bionda. Nel viso chiaro porta dei baffetti sottili. Si avvicina al generale e ad alta voce gli dice:

«Generale, siamo presi nel mezzo».

Garibaldi, cosciente che quell’avviso urlato potrebbe creare il panico e scompaginare la linea, lo caccia via con violenza. Herter, mortificato, si lancia su per un greppo, contro le carabine nemiche, ed è subito colpito alla testa[4].

Bixio ha osservato che verso Vita ci sono delle buone posizioni, facilmente difendibili. Si avvicina al generale, fermo sotto un albero, e gli sussurra che forse sarebbe il caso di ritirarsi. Garibaldi guarda il suo ufficiale più ardito con espressione di sorpresa e di rimprovero:

« – Bixio, che dite? Qui si fa l’Italia o si muore!»

E poi, dove ritirarsi, per far cosa, i guerriglieri? È necessario vincere o morire, come hanno saputo morire i fratelli Bandiera e Pisacane.

Garibaldi raccoglie una quarantina di uomini appena giunti dalle compagnie di riserva e attacca con impeto. Poi lancia sulla destra, verso la strada per Alcamo, le compagnie di Carini. I napolitani non vogliono rischiare di vedersi tagliare la via della salvezza e si ritirano verso un terrazzamento più alto, proprio in cima al colle, vicino ai cannoni.

Il sergente dei genovesi Giuseppe Belleno si affaccia dal ciglio e prende di mira un grosso fante borbonico. Fanno fuoco tutti e due, dando e ricevendo la morte.

Si avanza, si sale la china, verso quella massa di uomini irta di baionette rilucenti al sole. Saranno duemila!

Francesco osserva con paura quei diavoli rossi che avanzano puntando le baionette. C’è l’ordine di ritirata sulla cima. A fianco di Francesco c’è il siciliano Giuseppe Masaracchia che sta prendendo la mira per coprire i camerati, ma due colpi, uno al torace e uno all’avambraccio, lo abbattono.

Sono giunti finalmente in cima. Francesco e Rucchitto sono arsi dalla sete e infilano la testa nella tinozza di acqua nera, dove gli artiglieri lavano lo scovolo, ma devono allontanarsi subito per le urla del tenente De Martini.

L’alfiere Luigi Di Jorio ha piantato la banderuola di manovra del battaglione sulla cima del colle, accanto al capitano Palumbo. Da lì non si arretra, si muore sul posto!


[1] Francesco Montanari morì a Vita il 9 giugno 1860 dopo l’amputazione della gamba ferita.

[2] Tordi.

[3] Daniele Piccinini nacque a Pradalunga, in Val Seriana, provincia di Bergamo nel 1830, da famiglia di commercianti benestanti. Partecipò appena diciottenne alla rivoluzione del 1848. Nel 1859 si arruolò nei Cacciatori delle Alpi, con i quali si guadagnò sul campo le promozioni a caporale e poi a sergente. Nel 1860 era con i Mille, sottotenente dell’8a compagnia. Nel 1862 era capitano nel contingente garibaldino per prendere Roma, fermato in Aspromonte dal Regio Esercito. Nauseato da quell’episodio, rinunciò ai gradi di ufficiale e nel 1866 partecipò alla guerra contro l’Austria da soldato semplice. Morì a Tagliacozzo, in Abruzzo, nel 1889, in un incidente di caccia.

[4] Edoardo Herter nato a Treviso nel 1834 sopravvisse alla ferita di Calatafimi. Emigrò in Argentina, dove svolse la sua professione di medico. Morì nel 1889 a Tapalquè (Buenos Ayres).

Domenico Anfora

tratto da

1 Comment

  1. Ben descritta la follia della guerra… droga pura! caterina

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