CAPODICHINO: L’INIZIO DELLA DISCESA…DI ERMINIO DE BIASE
Tra le tante colline che incorniciano la città di Napoli, il Vomero, i Camaldoli, Posillipo, Capodimonte, per un motivo o per l’altro, sono certo più conosciute ma non altrettanto immerse nella storia, quanto quella di Capodichino, quartiere San Carlo Arena, nome che trae origine da quell’Arenella che, trascinata dalla pioggia lungo il dorso dell’omonimo colle e scorrendo per tutta la lunghezza di via Foria, la strada più larga della Napoli di un tempo, diventa sempre più… Arenaccia.
Già, ogni denominazione è lì per un motivo, per un preciso motivo, mai messa a caso, così come per Capodichino, il nome che oggi (dopo che l’omonima piazza fu ribattezzata Giuseppe Di Vittorio[1]) è rimasto solo alla Calata ma che, un tempo, si estendeva a tutta la collina da cui si accedeva alla città di Napoli. Nella pianta Schiavoni del 1872, infatti, l’attuale viale Maddalena, la via Don Bosco e la via Nuova del Campo formavano, insieme, la Strada di Capo di Chino mentre l’attuale Calata era la vecchia, antica strada di Capo di Chino. Originariamente, essa era una sorta di impervia scorciatoia, una gola coperta da fitta vegetazione. Comunque sia, era da qua che cominciava la discesa verso la città, l’inizio del declivio che portava verso Napoli, era il caput clivii, per l’appunto che, italianizzato, diventerà Capodichino. Nel Medio Evo, quella strada era il clivo beneventano con palese riferimento alla città che quella strada univa a Napoli. Nel periodo classico, la valle di Capodichino era occupata dai piazzali delle cave di pozzolana dove furono trovate tracce di alcune catacombe paleocristiane. [2]
Il suddetto Clivius maior a nord della città, dove si apriva la via per i casali dell’entroterra, compare per la prima volta in un racconto della traslazione delle reliquie di Sant’Atanasio, scritto nell’877. A quell’epoca, la viabilità era molto diversa, perché l’attuale strada era solo un impervio sentiero coperto di boscaglie e infestata da ladri. Il caput-de-clivio, ovvero la cima della collina, si raggiungeva da oriente uscendo da Porta Capuana e percorrendo la via di Puglia, per poi imboccare a sinistra una “via transversa” (più o meno, l’attuale via Santa Maria del Pianto) che conduceva a San Pietro a Patierno. La moderna strada fu aperta solo nel 1585 dal viceré spagnolo di Napoli Pedro Giron, duca d’Ossuna. L’apertura della strada di Capodichino alla fine del Cinquecento fu determinante per lo sviluppo di Secundilianum, una contrada agricola che compare per la prima volta in un documento del 1113. Secundilii sono i colli dai quali questa zona si affaccia su Napoli, ma potrebbe anche essere stato il nome di un’antica famiglia romana. O più semplicemente, come suggerisce Bartolomeo Capasso, una stazione al secondo miglio, alla seconda pietra miliare, lungo la via Atellana (che da Napoli portava ad Atella e poi a Capua). Questo stradone che sale verso la provincia cominciò ad essere maggiormente trafficato solo un secolo e mezzo dopo quando, a metà del Settecento, Carlo di Borbone fece costruire la Strada Sannitica (l’attuale s.s. 87) che da Capodichino porta a Caserta, dove stava sorgendo in quegli anni la nuova monumentale reggia.[3]
La prima testimonianza dell’antichità di questi luoghi ci viene data dai cosiddetti Ponti Rossi, grandiosi avanzi di un antico acquedotto, di cui restano più archi formati di solido masso di tufa rivestiti di mattoni rossicci,[4] risalente ai tempi dell’imperatore romano Claudio o, addirittura, ad Augusto. Esso partiva da Serino, presso Avellino, e giungeva fino a Miseno per rifornire di acque potabili la flotta imperiale ivi stanziata. Si snodava per cinquanta miglia attraversando Mercato Sanseverino, Sarno, Palma Campania, Pomigliano detto ad arco proprio dagli archi dell’acquedotto, per il territorio di Afragola e di Casoria e per San Pietro a Patierno. Traversando, infine, la collina di Capodichino esso giungeva alla valle, oggi soprannominata Ponti Rossi.[5]
Gaetano Nobile, nella sua Descrizione della città di Napoli e sue vicinanze, del 1863, ci rivela che su questa Calata trovasi altra chiesetta intitolata a San Giuliano, costruita nel 1333 da alcuni napoletani che vi aprirono un ospedale per la gente di campagna[6] (secondo qualche voce raccolta in giro, ma non storicamente provata, il luogo in cui sorgeva quella chiesa, dovrebbe essere là dove oggi rimane un’edicoletta rivestita di piastrelle su cui sono raffigurate delle anime del purgatorio). Dalla chiesetta di San Giuliano, risalendo il tracciato di quello che fu l’antico passo stretto ed infossato, si giungeva sulla sommità della collina.
A proposito di “immagini sacre”, un viaggiatore tedesco degli anni trenta del XIX secolo, Karl August Mayer, ci racconta che non soltanto all’interno delle chiese, delle cappelle e delle stanze, si trovavano immagini pie, ma anche i muri esterni delle case e le pareti ne erano tutti decorati e che, per la maggior parte, erano degli scarabocchi fatti da imbianchini. Così, nel sobborgo di Capo di Chino, si vedeva raffigurato il diavolo con un setaccio, sul quale venivano sparse delle anime. I cattivi, attraversandolo, precipitavano all’inferno, i buoni restavano sul setaccio ed ascendevano verso il cielo…[7]
Lo stesso autore testimonia pure che da “La Strada del Campo (il proseguimento fuori città in linea retta di via Foria) innalzandosi dolcemente, porta alla grande piazza d’armi (il Campo, per l’appunto) ed offre una nuova, piacevolissima veduta della città e della ridente, fertile pianura sulla quale emerge l’oscura sagoma del Vesuvio. I forestieri che vengono da Roma, passando per Capua, fanno molto bene a fare una piccola deviazione e ad imboccare questa strada per ricevere una magnifica impressione di Napoli. Un altro ramo di Foria va a sinistra, attraverso il sobborgo di San Giovanniello e attraverso una gola continua verso la collina di Capo di Chino, va a Roma, per Aversa e Capua e non è mai vuota di vetture adatte a lunghi tragitti e di case viaggianti di inglesi.[8]
A questo punto, per associazione di idee, viene spontaneo il richiamo alla cosiddetta “villa inglese”, una costruzione dall’aspetto di una grande masseria che oggi ospita numerosi nuclei familiari. In realtà, però, gli “inglesi” hanno poco a che vedere con questo edificio che nel ‘700 era una lussuosa dimora extra moenia (oggi la chiameremmo seconda casa) del console commerciale della Corona di Danimarca dal 1789 al 1797 nel Regno di Napoli, il signor Christian Heigelin. A causa di una deformazione di pronuncia dei napoletani, “Villa Heigelin” veniva indicata come “Villa Eglen” o “Villa di Englen” e da qui a “Villa inglese”, il passo è breve. Può anche darsi, però, che la suddetta denominazione sia dovuta al cognome, autenticamente britannico, della proprietaria che successe ad Heigelin, Olympia Cutler. Oppure perché da un lato era fiancheggiata, per l’appunto, da un boschetto inglese…[9]
L’Heigelin era un facoltoso commerciante tedesco,[10] di famiglia benestante, buon conoscitore di lingue estere e, soprattutto, massone. Grazie alla sua fiorente attività commerciale, oltre alla proprietà in città, poté acquistare questa casa in campagna, divenendo così proprietario di una delle più belle ville di Napoli della fine del XVIII secolo. [11]
All’epoca, nei dintorni della Reggia di Capodimonte, a nord di Napoli, sorgevano numerose ville che, per splendore, facevano a gara fra loro. Prevalentemente, esse venivano costruite sul lato occidentale del poggio, ma Villa Heigelin si trovava sul lato orientale, tra la calata o discesa del “caput clivii” e gli archi dell’antico acquedotto romano “ai Ponti Rossi, sopra via san Giovannello, in un piccolo poggio con terrazzamenti a viti. Se nella scelta del suolo ebbe importanza la vicinanza del Palazzo Reale di Capodimonte, altrettanta ne ebbe per il fatto che di lì passava la strada per la residenza reale di Caserta. Heigelin stesso seguì la costruzione della villa. La struttura sovrastava una piccola altura terrazzata per le vigne. Da lì – riferiscono le cronache del tempo – si aveva “una incantevole vista” sul golfo: dal Vesuvio a sinistra alla fortezza di Sant’Elmo a destra.
A “Villa Heigelin” ci si arrivava inerpicandosi per un angusto sentiero fiancheggiato da piante rigogliose: il viottolo terminava in una stretta scala davanti alla quale i visitatori dovevano lasciare la loro cavalcatura e proseguire a piedi. Alla fine della scala, c’era un grande arco con delle nicchie occupate da statue in stile antico… Insomma, era un luogo in cui la natura appariva con tanta grandeur, come la definì il medico tedesco Hermann Friedländer che ebbe modo di accedervi durante il suo viaggio in Italia negli anni 1815 e1816.
Da un poggio di fianco alla casa, una costruzione a due piani in stile classico, si poteva godere di una splendida vista della collina dei Camaldoli.
Per molto tempo, quella residenza, fu l’eremo contemplativo dei “liberi muratori” dell’epoca, italiani e stranieri, che vi si riunivano in “ritiro spirituale”.[12] Tra i “big” che frequentarono la villa, citiamo il “confratello” Wolfgang Goethe, massimo rappresentante della Letteratura Tedesca.
Il banchiere, comunque, si muoveva non solo in ambito massonico, egli organizzava anche “the” e serate alle quali partecipavano numerosi stranieri in visita alla città. Tra questi, ricordiamo i due artisti Philipp e Georg Hackert ed il diplomatico inglese sir William Hamilton. Pare che sia stato ospite del facoltoso Console Heigelin anche Wolfgang Amadeus Mozart, una delle più famose personalità del suo tempo, che fu a Napoli insieme col padre tra il maggio e il giugno del 1770. Con l’invasione francese del 1799, cessò questa attività mondana.
Ovviamente, come tutti i monumenti della setta, la “Villa inglese” era esposta ad est, ad oriente: per la precisione guardava ad est-sud-est. Essa si sviluppava su due piani e, anche se ritenuta di modeste dimensioni, era di notevole fattura. Scale, archi, statue, una splendida peschiera, bassorilievi allegorici, terrazze, alberi la incorniciavano e, a proposito di cornici, molti quadri di autori contemporanei completavano l’arredamento interno: oltre al già citato Philipp Hackert, Johann Tischbein, G. B. Lusieri, J. Christian Reinhart ed altri ancora.
Tutto il complesso era una vera e propria isola di antichità ricca di vestigia di vetuste mura, mosaici, bassorilievi, simulacri, busti, iscrizioni e dipinti. Molte di quelle opere provenivano dagli scavi di Pompei, di Capri e di altri centri archeologici campani.[13]
Come abbiamo visto, la casa di Heigelin col suo “giardino incantato” era un centro di vita sociale molto frequentato, dove si intrattenevano amichevoli relazioni con molti protagonisti del Grand-Tour che passavano per Napoli.
Nel XVIII secolo, nella nobiltà e nell’alta borghesia mitteleuropea, erano usuali dei viaggi formativi, attraverso i quali si volevano acquisire le più ampie conoscenze dei Paesi visitati. Sin dagli anni ’60 del Settecento, il predetto Grand Tour serviva alla formazione della personalità e meta principale era l’Italia, in particolare quella del Sud che, allora, culturalmente, primeggiava nel campo della Musica, della Pittura, della scultura e della Architettura. Con il suo paesaggio, le sue chiese, le collezioni d’arte e con i suoi scavi archeologici, Napoli era la destinazione più importante. Per cui, visitandola, numerosi viaggiatori danesi e tedeschi vennero in contatto con Heigelin ed allacciarono con lui cordiali rapporti. Molti lo menzionano positivamente nei loro diari o nelle loro memorie.
Christian Heigelin morirà a Napoli il 15 marzo 1820 nella sua “Villa”, all’improvviso ed in maniera indolore. All’epoca, in città, non c’erano cimiteri per protestanti. Di norma, essi venivano seppelliti sul mare, presso il Capo di Posillipo nei pressi della “Scuola di Virgilio”. Ai più facoltosi si aprivano, dietro consistente pagamento, le porte di un boschetto sito sulla porta settentrionale della capitale. Qui il Console trovò la sua sepoltura. [14]
Non avendo eredi diretti, alla sua morte subentrò nell’attività commerciale l’inetto nipote Wilhelm che, con una pessima gestione del cospicuo patrimonio, si trovò presto in fallimento. Debiti, ipoteche, espropri dispersero ben presto i tesori artistici che la villa inglese conservava e che, col passare degli anni, finì poi, inevitabilmente in possesso di… comuni mortali.
Ancora di recente, prima di ulteriori scavi sulla collina di Capodichino, si poteva visitare una grotta, ormai scomparsa, dove si potevano osservare, chiaramente impressi sulle pareti, graffiti massonici.[15]
Ritornando all’epoca romana, pare che per Capodichino sia passato anche il poeta latino Virgilio e, probabilmente, qualche secolo più tardi, Carlo VIII il 22 febbraio 1495, quando i francesi invasero Napoli.
Ai primi del Settecento, nel quadrivio di Capodichino, si eseguivano le condanne a morte ordinate dal Commissario di campagna (un giudice delegato).[16]
Capodichino visse un momento storico di particolare intensità nel giugno del 1799, quando il brevissimo ciclo della cosiddetta Repubblica Partenopea vide il suo epilogo, come documentò pure Pietro Colletta, che così descrisse la situazione esistente: “Il Cardinale Ruffo pose le stanze a Nola e le sue torme campeggiavano sino al Sebeto; le altre di Fra Diavolo si mostrarono a Capodichino. Il controllo della collina [da parte nemica] era affidato al generale Basetti il quale con piccola mano correva il poggio di Capodichino, minacciando, per le viste più che per le armi, l’ala diritta dell’immensa torma che avanzava…”[17]
In questa zona, infatti si concentrarono gli uomini dell’eroico Colonnello dell’esercito borbonico, Michele Pezza, il leggendario Fra Diavolo, che, con le sue ardimentose iniziative, con la sua guerriglia creativa, con i suoi geniali impulsi aveva fatto letteralmente vedere i sorci verdi agli invasori francesi venuti a portare, col ferro e col fuoco, la loro liberté alle popolazioni dell’Italia meridionale costringendo, così, chi non la voleva ad accettarla per forza… Fra Diavolo, fatte disarmare le sentinelle repubblicane in località Ottocalli,[18] piazzò dunque intorno a Capodichino circa duemila dei suoi uomini migliori. Una posizione strategica vitale, perché da lì si controllava l’unico accesso alla capitale verso il Nord. Gli mandarono incontro il generale Basetti che credeva di cavarsela con una carica a sciabola sguainata, così da mettere in fuga quelli che lui credeva fossero briganti. Invece, giunto sul posto e imboccata appunto la salita di Ottocalli, di briganti non ne scorse neanche uno. Per le strade solo qualche cane randagio. Mentre stavano pattugliando sospettosamente i casolari ammutoliti, i cavalleggeri di Basetti proprio vicino alla chiesetta di San Michele vennero attaccati da una moltitudine di vagabondi del quartiere più malfamato di Capodichino, detto Pasca, precedentemente istruiti da Fra Diavolo, che scaricarono all’impazzata i loro archibugi, facendo terrorizzare uomini e animali. Essendo incalzati a sud dal Cardinale Ruffo, per i repubblicani era indispensabile fare in modo che Fra Diavolo sloggiasse da Capodichino e si creasse, così, per loro una via di fuga. Fu dunque vergato un falso ordine firmato dal Cardinale Ruffo in cui si ingiungeva a Fra Diavolo di raggiungere il Ponte della Maddalena. Venne poi dato l’incarico ad un povero disgraziato di portarlo a destinazione. Il messaggero riuscì persino a consegnarlo nelle mani stesse del destinatario ma, compiuta la missione, dimostrò un comprensibile eccesso di fretta nel volersene andare. Fra Diavolo, che di farsi fare fesso aveva perso l’abitudine da un pezzo, lo mandò a riprendere e si mise a torchiarlo con domande a raffica. Il malcapitato non rispose male, né cadde in contraddizioni. Niente avrebbe potuto smentirlo. Niente, tranne il suo… forte accento genovese. Lo fucilarono seduta stante.[19]
Come per tutte le altre vie d’accesso alla città, durante l’epidemia di colera del 1837, sul Colle di Capodichino, al cominciamento della strada, all’entrata di Napoli, fu apprestata dal Governo una struttura presidiata da ufiziali del Comune adibita a posto di blocco per chi entrava a Napoli ed a casa pe’ convalescenti.[20] Un vero e proprio Lockdown ante litteram…
[1] Autorevole sindacalista meridionale nato nel 1892 e morto nel 1957.
[2] R. Di Castiglione – Una villa massonica nella Napoli del ‘700 – Roma 1996 – p.34
[3] Giuseppe Pesce – Napoli e i suoi casali – Napoli 2013 – pp 37,38, 41 e 42
[4] G. M. Galanti – Napoli e contorni – Napoli 1829 – p. 96/7
[5]G. Nobile – Descrizione della Città di Napoli e delle sue vicinanze – Napoli 1863 – vol. II –pp. 34/35
[6] Idem – p. 42
[7] C. A. Mayer – Neapel und die Neapolitaner – Oldenburg 1842 – vol. II – p. 10
[8] C. A. Mayer – op. cit. – 13ª lettera – vol. I – p. 107 (L’autore usa il termine Reisenhäuser, più o meno gli antenati dei nostri camper)
[9] Domenico Romanelli – Napoli antica e moderna – Napoli 1815 – vol III – pp 212/213
[10] Christian Heigelin, nato a Stoccarda il 15 dicembre 1739, si trasferì a Napoli con la famiglia verso la metà degli anni sessanta del XVIII secolo ed in seguito, arricchitosi grazie alla sua attività commerciale, poté acquisire vari immobili importanti tra cui la villa in questione. Benché fosse di nazionalità ttedesca, fu console di Danimarca dal 1789 al 1797. morì, probabilmente, intorno al 1840.
[11] R. Di Castiglione – Una villa massonica nella Napoli del ‘700 – Roma 1996 – pp 37-40
[12] Idem – p. 23
[13] Idem – p. 16
[14] J. Arnold – Christian Heigelin (1744 – 1820) – Stuttgart 2012
[15] R. Di Castiglione – op. cit. – p. 47
[16] G. Pesce – Napoli e i suoi casali op. cit. – Napoli 2013 – p 43
[17] A. Caccavale – A. Esposito – La collina di Capodichino – Napoli 1999 – p.71
[18] In origine (1743) Ottocavalli: in questo punto periferico della città si pagava qualche gabella o pedaggio dell’importo di otto Cavalli (Cavallo, contratto dalla plebe in callo, era l’infima moneta napoletana). [G. Doria – Le strade di Napoli – Napoli 1943 – p.347]
[19] G. dall’Ongaro – Fra’ Diavolo – Novara 1985 – pp. 97/98
[20] G. Guacci Nobile – Storia del cholera a Napoli – Napoli 1978 – pp 11 e 31
II EDIZIONE
CONTINUA……….
L’AUTORE
Erminio de Biase (Napoli, 1948), ricercatore storico e germanista, ha al suo attivo le seguenti pubblicazioni:
- L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie: vivi e lascia morire – Napoli 2002(Premio Speciale della giuria nella III edizione del Premio Internazionale “Giuseppe Sciacca”, l’Aquila 2004; Vincitore della III edizione del Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
- Memorie di un ex Capo-Brigante di L. R. Zimmermann – Napoli 2007 (Premio Internazionale Giornalistico “I.N.A.R.S. Ciociaria”, Frosinone 2007; Premio Speciale della Giuria al Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
- Capodichino, l’inizio della discesa… – Napoli 2012;
- C’era una volta… il Vasto e Poggioreale – Napoli 2014;
- La Valchiria di Gaeta di M. L. von Wallersee, Napoli 2015 (Premio Speciale della Giuria al Premio Letterario “Giuseppe Villella”, Motta S. Lucia (CZ) 2019);
- La guerra in classe: il Secondo Conflitto Mondiale vissuto nelle scuole di Napoli – Napoli 2017