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Carmine Pinto: il lungo Risorgimento letto attraverso il filtro di Cesare Lombroso

Posted by on Ott 7, 2024

Carmine Pinto: il lungo Risorgimento letto attraverso il filtro di Cesare Lombroso

Negli scritti dello storico meridionale Carmine Pinto, originario di Padula e professore ordinario a Salerno, ci sono alcune tesi che sono inaccettabili per un meridionalista. Innanzitutto, Pinto fa partire il Risorgimento napoletano dal 1792, anno in cui una flotta francese, prima per chiedere conto e ragione del mancato riconoscimento dell’ambasciatore della Rivoluzione francese, poi per riparare nel porto le navi danneggiate da una tempesta, si ferma nella rada del golfo.

L’allora contrammiraglio Latouche-Tréville, massone che ha partecipato alla rivoluzione americana, al seguito di La Fayette, rimane in rada e, con i propri ufficiali e marinai, svolge un significativo ruolo nel far conoscere il pensiero rivoluzionario francese.

Questo episodio permette a Pinto di datare a quell’anno l’inizio di una guerra civile strisciante che ha visto contrapposti, ai reazionari e assolutisti borbonici, prima i rivoluzionari giacobini e, poi, i liberali costituzionalisti. Nella narrazione di Pinto, questa guerra civile tocca i propri picchi di violenza quando: alla rivoluzione repubblicana del 1798 si contrappone la controrivoluzione sanfedista del 1799; alla tentata controrivoluzione del brigantaggio politico del 1806 pone fine la Restaurazione assolutista del 1815; sulla rivoluzione liberale-costituzionale del 1820 prevale la controrivoluzione del 1821; alla rivoluzione del 1848, pone fine la Restaurazione del 1849; la rivoluzione garibaldina del 1860 e il regime plebiscitario piemontese prevalgono su una tentata restaurazione assolutista, detta brigantaggio, e durata dal 1860 al 1870.

Questi conflitti hanno prodotto una restaurazione dal basso, quella del 1799, e varie restaurazioni borboniche imposte dall’alto: quelle del 1815, del 1821 e del 1849. La vittoria finale è stata appannaggio dei liberali costituzionalisti e unitari del 1860 e della Guerra al brigantaggio del 1861-1870.

In questo elenco di movimenti violenti si nota il rifiuto, da parte di Pinto, del linguaggio mazziniano, dal momento che il movimento sanfedista del 1799 era stato definito da Giuseppe Mazzini “rivoluzione per l’indipendenza”. Negli anni Quaranta, nel tentare di convincere che quella Italiana è una popolazione predisposta alla rivoluzione, Mazzini ha sostenuto che, nel 1798-1799, nel Napoletano, hanno avuto successo due diverse e contrapposte rivoluzioni: quella giacobina per la libertà dall’oppressione monarchica e quella sanfedista per l’indipendenza dai Francesi. Mazzini aspirava a fondere insieme lo spirito di entrambe le rivoluzioni e a farne una sola che avrebbe combattuto, insieme, la battaglia per la libertà e quella per l’indipendenza. Questo ideale costituiva lo spirito inclusivo del Risorgimento, lo spirito senza il quale il Risorgimento diventa estraneo al Meridionalismo.

Sentimento inclusivo che manca in Pinto per il quale le controrivoluzioni e restaurazioni duosiciliane avrebbero espresso livelli di brutalità e di violenza che non sono stati mai toccati nelle campagne risorgimentali [condotte nel CentroNord], ma che erano comuni nel Meridione.

Va norato, però, che questi livelli altissimi non dipenderebbero dal numero di morti perché gli uccisi dai Francesi nel 1798 e dal 1861 al1870 dagli Italiani unitari erano stati più numerosi: il generale Thiébault racconta, nelle sue memorie, di circa 60.000 civili napoletani uccisi nel Regno di Napoli e di 10.000 uccisi nella battaglia contro i Lazzari per il controllo della città di Napoli; l’esercito italiano ha fatto (o lasciato) morire almeno 17.000 ex soldati duosiciliani nelle prigioni (vedi il mio volume del 2021 In punta di baionetta) e, sicuramente, almeno varie centinaia di vittime civili nel periodo 1861-1870 (vedi il mio volume del 2023 Senza tocco di campane).

Detto questo, se una conclusione si può trarre dalle affermazioni di Pinto, è che, in termini di numeri di morti, la violenza maggiore è stata esercitata da eserciti stranieri (prima quello Francese, poi quello Sabaudo) quando hanno invaso il Regno delle Due Sicilie.

Se poi si volesse supporre che il picco di violenza si realizza con il bombardamento di città, va considerato che è vero che i Borbone hanno bombardato Messina (dal 29 gennaio al 22 febbraio 1848), ma è altrettanto vero che i Savoia (con l’aiuto degli Inglesi) hanno bombardato Genova, nel 1849, Castellammare del Golfo nel 1862 e Palermo, nel 1866. Di conseguenza, non si può dire che i Borbone abbiano provocato i maggiori picchi di violenza contro i propri sudditi, perché i Savoia sono stati altrettanto o più violenti di loro.

Quindi, quando Pinto sostiene che picchi di violenze maggiori delle più sanguinose invasioni e dei più massicci bombardamenti di città sono cosa comune in Meridione, è evidente che i picchi di brutalità e violenze di cui parla non siano misurabili in termini di numero di morti, bensì in termini di “qualità” della brutalità e delle violenze.

Pinto, di fatto e in modo implicito, sostiene che, nel corso dei, da lui, presunti 80 anni di guerra civile meridionale, si sono toccati livelli di violenza e brutalità qualitativamente, non quantitativamente, superiori a quelli riscontrati in Settentrione. Questo giudizio qualitativo è conseguenza degli atti di cannibalismo attribuiti, nel 1799, ai Sanfedisti di Fabrizio Ruffo, per le province napoletane, e ai Lazzari, nella città di Napoli. Scontato è, per lui, che lo zenit cannibalico (rispetto al resto della penisola) sia stato scalato solo in Meridione da parte borbonica o sanfedista.

È, in conclusione, evidente che Pinto legge il lungo Risorgimento (dal 1792 alle Guerre d’Indipendenza) con un filtro lombrosiano. È stato Cesare Lombroso che, nella sua ultima versione della teoria delle due razze conviventi nella penisola, ha sostenuto che tutti i Centro-Settentrionali più le élite meridionali che hanno combattuto per l’Unità d’Italia fossero di razza Ariana, mentre il popolo meridionale fosse di razza Africana.

Pensando alla classificazione (Italiani, Briganti e Borbonici) che Pinto utilizza nel sottotitolo e nell’introduzione di La Guerra per il Mezzogiorno, i Briganti e i Borbonici coincidono con quelli che Lombroso definiva Africani, mentre gli Italiani o Unitari italiani di Pinto coincidono con quanti Lombroso definiva Ariani.

I due chiamano in modo diverso i responsabili di atti cannibalici in Meridione, ma per entrambi la violenza espressa nelle Due Sicilie appare eccezionale e inaudita quando paragonata a quella espressa nel resto d’Europa (Lombroso) o nel resto d’Italia (Pinto).

Giuseppe Gangemi

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