Posted by altaterradilavoro on Ott 31, 2019
La figura del
cardinale Fabrizio Ruffo (d’ora innanzi, semplicemente “il cardinale”) rischia
di rimanere un enigma, anche dopo due secoli dalla sua impresa, notissima
perché strabiliante: la “riconquista” del Napoletano, in poco più di quattro
mesi, al comando di poche migliaia di “briganti calabresi” contro i Francesi
armati ed organizzati di tutto punto. Benvenuto allora lo studio di Ruffo-De
Maio (IL CARDINALE FABRIZIO RUFFO TRA PSICOLOGIA E STORIA)[1] che,
scritto a quattro mani, cerca di rispondere al dilemma: “docile strumento
di quei due esseri inferiori” (Francesco IV e Carolina di Napoli) ovvero
“ personaggio che con calma e risolutezza giunge al fine che si era
prefisso, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli”? (pp. 27 e
50). Una sciarada di non facile soluzione.
E, per
cominciare, il motivo della “sorpresa” di fronte al risultato
imprevedibile (anzi disperato) sta, anzitutto, nella mancanza di un diario
autobiografico del protagonista. Motivo parallelo sono le reticenze del
segretario, l’abate Domenico Sacchinelli, che dovrà limitarsi al racconto delle
vicende relative alla marcia vittoriosa, tralasciando il resto della vita del
“cardinale”, per il timore troppo giustificato dei veti della corte, che
temeva venisse alla luce la parte poco onorevole che essa aveva
avuto in quelle circostanze. Si pensi, per farsi un’idea dei procedimenti di re
Ferdinando, che ad impedire al “cardinale” di far resistenza agli ordini di
impiccare i napoletani passati ai francesi (fra cui l’ammiraglio F. Caracciolo
e il giurista F. M. Pagano), il re non esitò a prendersi come ostaggio il
fratello di lui, Francesco, ordinando nel frattempo che lo stesso autore
della liberazione fosse imprigionato (Nelson voleva addirittura impiccarlo!).
La colpa? Aver garantito una resa onorevole agli insorti, ormai assediati a
Napoli in Castel Nuovo e Castel dell’ Ovo. Con una simile censura, non c’erano
davvero incentivi a cercare le “cause” del miracolo all’interno dell’animo del
cardinale-condottiero.
Ma è proprio questa la nostra
curiosità: che “diavolo” era mai quel cardinale di santa romana Chiesa, che si
improvvisava comandante di truppe e le elettrizzava coi suoi discorsi e
proclami, in maniera non meno efficace di quanto sapesse fare Napoleone? E’
l’inchiesta affidata al professor Domenico De Maio, neuropsichiatra, che ha
steso il primo dei tre capitoli dell’opera. La quale, sia detto en passant, è
poi resa preziosa anche da foto di documenti riguardanti provvedimenti di
Napoleone a favore del “cardinale” o dipinti di personaggi e luoghi
legati alla sua attività, una cui panoramica essenziale, ma tutt’altro
che ripetitiva, è offerta dalla parte del volume stesa dal dottor
Giovanni Ruffo, un discendente della famiglia del cardinale Fabrizio, esperto
degli archivi di famiglia. Questi ha, dunque, potuto conoscerne al meglio le
vicende esteriori, dalla fanciullezza alla morte, vicende che sintetizza qui,
dopo averne discusso più ampiamente in “Calabria sconosciuta” (XVIII, n. 65:
“Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia”) e soprattutto nel saggio
“Il cardinale rosso”, Calabria letteraria editrice, 1998. Inquadriamo
storicamente il fatto principale.
Quali siano state le peripezie
della “repubblica partenopea” fondata e persa dai francesi proprio due secoli
fa, è a tutti noto. Napoleone, occupata la fortezza di Mantova nel febbraio del
1797, minaccia l’Austria da vicino e la costringe alla pace di Campoformio (17
ottobre). Gli stati pontifici erano già stati sistemati il 19 febbraio, a Tolentino:
Bologna, Romagna, le Marche occupate, con una taglia, in più, di trentun
milioni di lire e di numerose opere d’arte. Ma il Direttorio di Parigi aveva
chiesto al suo generale di occupare tutto lo stato del papa: Napoleone aveva
umiliato il suo governo. E questo cerca l’occasione per disfarsene. Bonaparte
vuole andare in Egitto a tagliare la via delle Indie agli Inglesi? Bene: ecco
la flotta, ecco i soldati, ecco il danaro. Dopo la sua partenza, il Direttorio
riesce nelle sue mire su Roma: aizzando i rivoluzionari locali con emissari
propri, suscita disordini, in uno dei quali perisce il generale francese Duphot
(28 dicembre 1798). Era il “casus belli” che il Direttorio cercava. Il generale
Championnet occupa Roma e urge su Pio VI perché abdichi. Non essendovisi egli
piegato, lo si fa prigioniero e lo si avvia in esilio (morirà a Valence, in
Francia il 29 agosto 1799). Ma quando Horatio Nelson distrugge la flotta
napoleonica ad Abukir (1 agosto 1798), si forma la terza coalizione contro la
Francia, con Austria e Russia pronti ad invadere l’Italia. Come in
precedenza, i Borboni di Napoli sono della partita. Si sentono impegnati a
rivendicare i torti subiti dal pontefice e a non lasciar tracimare la
rivoluzione in casa propria. E, poi, l’Austria ha fornito, quale comandante per
il loro esercito, nientemeno che il generale Karl Mack. Già nel novembre 1798
“Del Tirreno dai liti| con soldati infiniti venne a Roma bravando| il re D.
Ferdinando.| E in pochissimi dì,| venne, vide e fuggì” (p. 18). Il generale
Mack ha compiuto il suo primo capolavoro. Un altro lo consumerà ad Ulma nel
1805: dopo di che, ad evitarne ulteriori, verrà giustiziato dal suo governo. I
responsabili delle fortezze del Regno si arrendono uno dopo l’altro: dal
generale Luigi de Gambs in Teramo, al comandante Tschudy per Gaeta, al
duca di Roccaromana di Capua. Solo viltà, per paura; od anche tradimento, per
il fascino delle idee giacobine? Su 130 vescovi del Regno, si fa il conto che
ben 19 si professarono repubblicani filofrancesi (a cominciare dall’arcivescovo
di Napoli, il cardinale Capece Zurlo) e solo 10 contro di loro, mentre la più
parte si trincerò in un silenzio prudenziale. La corte borbonica? Il 21
dicembre 1798 si imbarca sul Vanguard dell’ammiraglio Nelson e si rifugia a
Palermo, sotto la custodia della flotta inglese. A Palermo giunge anche, dal
Casertano dove è responsabile della colonia di San Leucio, il nostro cardinale.
Il re lo nomina “vicario generale del Regno”, cioè suo luogotenente con tutti i
poteri (25. 01. 1799) ed egli passa lo stretto di Messina, sbarcando a
Capo Pezzo (Villa San Giovanni) l’8 di febbraio “con sette persone… una
misera somma…nemmeno un militare di carriera” (p. 19). Ebbene: il 19 giugno
egli ha praticamente terminato la sua missione, ottenendo la firma di resa dai
repubblicani rinserrati in Castel Nuovo e Castel dell’Ovo e coi francesi
rinchiusi in quello di Sant’Elmo. Che, poi, il Nelson dichiarasse infami le
clausole della resa onorevole concessa dal cardinale Ruffo ed impiccasse,
d’accordo con la corte tutti i “giacobini” ribellatisi al re e caduti nelle
mani degli inglesi, è cosa purtroppo nota. Il 28 giugno, il re privava il
“cardinale” d’ogni potere militare, sicché egli scriveva alla regina,
licenziando. E, in attesa di essere sostituito, aiutava 500 patrioti a mettersi
al sicuro. E si sarebbero potuti salvare anche i “giacobini” dei due castelli,
se avessero seguito il suo suggerimento di fuggire per via di terra: li perse
quella stessa mancanza di senso della realtà, che V. Cuoco rimprovera loro nel
suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”.
La regina Carolina, come fu la più
sanguinaria nel volere la morte dei ribelli e l’annullamento dei patti
sottoscritti dal “vicario generale del regno”, così era stata la più scettica
all’inizio dell’impresa del “cardinale”: lo riteneva matto. Eppure egli riuscì.
Il perché va ricercato nella personalità di Fabrizio Ruffo, che De Maio ci
presenta al vivo, seguendo con occhio clinico tutta la vita precedente la
“reconquista”. Vorremmo prendere le mosse dalle conclusioni, salvo a
documentarle nelle motivazioni: “Ruffo era nato per mettere ordine, per
temperamento e per educazione; era un leader carismatico che ha sempre seguito
un percorso logico e razionale, in ogni occasione dominando le emozioni e controllando
le situazioni, vigile e diffidente come si conveniva ad una persona che per
tutta la vita, dovette navigare tra “Scilla e Cariddi” di agguati, maldicenze,
invidie e accuse” (p.27). E già prima: “aveva in sé il senso della
predestinazione…era in pectore quello che sarebbe diventato”
(p. 15). Noi siamo tentati di definirlo un temperamento passionato, cioè attivo
(capace di trascinare all’azione gli altri) ed emotivo (capace di scuotere ed
impegnare la sfera emozionale altrui), in maniera stabile, cioè non occasionale
ma continuata. L’intelligenza privilegiava quella condizionata dall’emisfero
destro (concretezza, decisione, dinamismo), mentre sobria, funzionale,
essenziale doveva essere la parola, ignara di retorica e di sfumature poetiche.
Che ci pare anche il giudizio di Alessandro Dumas padre (cfr. p. 11).
Chiediamo ora al professor De Maio
gli indizi intuiti nei dati biografici e negli scritti.
Già da ragazzo (o, addirittura, da
fanciullo?) i fratelli lo battezzano “biscia ostinata” (“lifitu testarinu”: p.
11). I fratelli lo vedevano solo per le brevi vacanze estive, ché
il prozio, cardinal Tommaso Ruffo (morto a 90 anni nel 1753), fin dai quattro
anni lo portò con sé a Roma, affidandolo ad un precettore eccezionale: Giovanni
Angelo Braschi, suo segretario e futuro papa Pio VI. Tale distacco , fa notare
De Maio, non portò alcuna nevrosi né altra deformazione psicologica nel
ragazzo: sano, robusto e intelligente, trasformava in esperienza intellettiva
ed in fortezza di volontà le privazioni affettive (pp. 14-15: “ancora in
giovane età, Ruffo agì con un perfetto sincronismo emotivo, comportamentale,
volitivo e programmatico: si rese subito cosciente delle aspettative che si
ponevano su di lui. E lui le fece proprie”. Difficile pensare, a nostro parere,
che a quell’età il tipo di formazione impartita da G. Angelo Braschi potesse
incidere in modo determinante sulla tenacia e puntigliosità del carattere, da
renderlo paragonabile al vitalismo irritante di una biscia: era il suo
temperamento che si consolidava con la disciplina e la dedizione allo studio.
Vi è un secondo dato significativo:
il prozio muore (il 16 febbraio 1753) quando Fabrizio (nato il 16 settembre
1744) non ha ancora nove anni: eppure egli prosegue negli studi e nella
carriera ecclesiastica, come programmato.[2]
Gli indizi a conferma del “tipo”
psicologico si moltiplicano. Si è parlato di “studi e disciplina”. Ma non ci si
aspetti una dedizione troppo docile e passiva. Almeno con il prelato Braschi,
ci informa De Maio: “Comportamentalmente era però un ribelle, che passava da
una punizione all’altra, senza modificare punto le linee del suo carattere”.
(p.11). Fra le altre marachelle, c’era quella “di giocare con i… lunghi ed
inanellati capelli” del suo precettore, che una volta anzi si ricevette uno
schiaffo da Fabrizio, “infastidito dall’ostacolo che questi opponeva ai suoi
tentativi” (ivi). Se ne può dedurre che “La sua ubbidienza era totale solo
quanto agli studi.” (ib.). E, anche a questo proposito, egli seppe ritagliarsi
i suoi campi di specializzazione che furono la giurisprudenza (si laureò a 23
anni, alla “Sapienza” di Roma) e l’economia. Lettore dei moderni teorizzatori delle
due branche del sapere, egli faceva particolare riferimento a Pietro Verri (p.
53).
Un altro atto rivelatore della sua
chiarezza di propositi e di intenti: accettando il diaconato, non proseguì fino
al sacerdozio. Nè mai sarà prete (come il cardinale Ercole Consalvi ed a
differenza del prozio Tommaso, che divenne anzi arcivescovo di Ferrara): un
segnale di impegno non “indissolubile” con la Chiesa, essendo l’obbligo del
celibato, al di fuori del sacerdozio, dispensabile con la fuoruscita
dall’ascrizione al clero.
Con l’elezione a papa Pio VI
del suo ex-precettore, le sue chances di carriera si fanno concrete: nel 1785
diviene Tesoriere generale, vale a dire ministro dell’economia dello stato
pontificio. Si trova d’accordo con i progetti papali di ammodernare la
situazione, attraverso una serie di provvedimenti economicamente e socialmente
avanzati: abbattimento delle barriere doganali interne, provvedimenti
protettivi delle manifatture dei sudditi, favore alla coltivazione della canapa
e del cotone, sviluppo di una marina mercantile. Altre direttive furono
l’abolizione dei vincoli produttivistici (monopoli di privati), la concessione
di terreni demaniali in enfiteusi a contadini nullatenenti e la diminuzione dei
poteri dei “cardinali legati” (delegati, cioè, al governo delle varie regioni
dello Stato pontificio). Se il primo gruppo di decisioni era certo destinato a
dare, col tempo, vantaggi anche per le casse dello stato, il secondo gruppo
erano sorgente immediata di proteste, ostilità, accuse (di aderire ad idee
illuministiche e, quindi, anche religiosamente sospette). Visto che le
finanze del pontificato di Pio VI peggioravano sempre più (per le imprese
sproporzionate alle disponibilità, come il prosciugamento delle paludi, le
costruzioni grandiose, il nepotismo); e che i princìpi seguiti dal papa e dal
suo economo erano sfociate in Francia nella rivoluzione, allora la posizione
del Ruffo alla Tesoreria divenne insostenibile: fatto già cardinale “in
pectore” nel 1791, con un “promoveatur ut amoveatur” Pio VI lo “pubblicò”
nel 1794 e lo licenziò dall’incarico.
Ed ecco che il “cardinale” si rende
indipendente, si porta a Napoli, dove il re lo fa sovrintendente di Caserta,
con il compito particolare di sorveglianza sul gioiello della corona: la
colonia agricolo-industriale di San Leucio dove, a parte altri provvedimenti
sociali d’avanguardia, l’istruzione gratuita era obbligatoria anche per le
ragazze! Per garantirgli lo stipendio, gli conferì le rendite dell’abbazia di
S. Sofia in Benevento, dichiarata arbitrariamente di “regio patronato”. Erano
tempi in cui il giurisdizionalismo faceva soffrire la Chiesa un po’ ovunque
(Pio VI si era recato a Vienna nel 1782, nel vano tentativo di stornare le
leggi ostili di Giuseppe II, imperatore illuminista, massone e sacrestano) e il
provvedimento di Ferdinando IV era solo un colpo di spillo in più tra le ferite
che egli ed il ministro Bernardo Tanucci avevano già inferto al papa. Solo
quando la rivoluzione francese toccherà da vicino Austria e Napoletano, ci si
rivolgerà di nuovo alla Chiesa come a garanzia del senso morale, necessario per
mantenere l’ordine e governare. Ma quello che a noi interessa è rilevare come
anche il cardinale non tenne conto della disapprovazione del papa e continuò
nella sua opera di governo e di socialità. Il “cardinale”, cioè, cavalcava i
tempi: le sfide che questi gli presentavano, erano per lui non sorgenti di
paure e fughe, ma occasioni di lotta e di superamento. Citiamo da De Maio:
“Nelle vicende che lo videro coinvolto, sempre da protagonista, il cardinale
dimostrò saggezza ed equilibrio, ossia da uomo normale in armonia con la
definizione datane da Freud – l’individuo normale è una persona in grado di
amare e lavorare -. Nel caso del cardinale, – l’amare -, ovviamente, è
l’equivalente di – amore -, che egli metteva in tutti i suoi progetti” (p. 23).
Dopo questa “psicostoria” (p.10), l’impresa da Capo Pezzo a Napoli non può più
apparire come un “raptus”, un caso fortuito, un colpo fortunato: il suo
successo nella marcia politico-militare non è che l’esprimersi, poste le
circostanze, di “valori” coerentemente costruiti in un’intera esistenza,
a partire dalle doti biologiche (cfr. pp.21-22). E, tra i valori, vi sono
quelli della giustizia, dell’equità e della compassione. La prima è presente
nei continui appelli ed interventi, perché ci si astenga da carneficine e da
saccheggi; e perché, anche a tal fine, questi stessi uomini siano pagati
regolarmente. La seconda genera la preoccupazione di creare una condizione di
vita tollerabile nelle terre “liberate” (ridimensionamento del latifondo;
abolizione dei dazi interni, provvedimenti per regolare la produzione e il
commercio della seta: pp.33-34 e 57). La terza preordina il perdono ai
“repubblicani” pentiti, fino a prevederne il rientro al servizio della
monarchia (brani delle lettere al ministro Acton, riportate a pp. 32 e 52;
sintesi di altre lettere allo stesso Acton, al re ed alla regina: pp. 50-2).
E’ alla luce di questo
“cristianesimo secondario”, ossia delle ricadute dei princìpi evangelici sui
rapporti sociali, che egli poté trovare le parole giuste al momento giusto per
infervorare, trascinare e condurre alla vittoria i contadini calabresi. De Maio
sottolinea giustamente le geniali intuizioni presenti nel “proclama di Palmi”.
Anzitutto, in due parole, la riabilitazione dei popolani dal marchio di
briganti e peggio (“crocifissori di Cristo”, secondo la leggenda che calabresi
fossero i soldati assegnati, il venerdì santo, alla tragedia del Calvario):
egli si rivolge loro come ai “bravi e coraggiosi calabresi”. In secondo luogo,
il richiamo di tutti gli ideali più sentiti dall’uomo preilluminista: religione
e monarchia, Dio e re, Chiesa e famiglia. Infine si rivela la praticità
dell’organizzatore: come segnale del proprio partito, egli stabilisce una ben
visibile croce bianca, ritagliata in stoffa, cucita sul vestito. Egli creava
l’esercito della “santa fede”, con un’icona inconfondibile, impegnativa,
nobilitante: anche confortatrice in casi di ferite o di morte.
Ma gli eccidi di Crotone? E il
saccheggio di Altamura? A Crotone il “cardinale” non era presente il 22 marzo,
quando la città venne inaspettatamente consegnata, in seguito al tradimento
della guarnigione interna: vi accorse il 26, appena seppe del comportamento
delle sue truppe; e fece cessare la carneficina. Altamura non volle arrendersi
e fu sottoposta a regolare saccheggio: ma il “cardinale” riuscì a salvare la
gente (stabilì una porta della città come sicura uscita per gli abitanti);
anzi, del bottino, fece restituire i mobili e le masserizie più vistose. Tanto
che, a Catanzaro, dove i cittadini si sollevarono contro i giacobini prima
dell’occupazione della città, le truppe del “cardinale” furono invitate dentro
dagli stessi repubblicani, per evitare vendette ed eccessi da parte degli
esasperati e scatenati monarchici. D’altronde egli era troppo
cosciente che i “suoi” uomini erano quelli da cui dipendeva la riuscita
dell’impresa: e doveva tollerare, quando non poteva frenare. Lo seppe troppo
bene, non appena la Calabria fu liberata del tutto: molti dei capibriganti che
l’avevano seguito se ne andarono, soddisfatti del loro bottino. Per
rifare la propria “Armata Cristiana e Reale”, egli dovette attendere a lungo:
solo alla fine di aprile poté pervenire alla liberazione della Basilicata…
E, sulla scorta di Domenico De Maio e di Giovanni Ruffo, si potrebbe continuare
a mettere le fondamenta per una ricostruzione in positivo dell’opera del
cardinal Fabrizio, fino a fondare la grandezza dell’uomo, più che sulla
riuscita effimera della “riconquista”, nel suo sforzo per una maggiore
giustizia sociale e, forse, nel suo sogno di una monarchia costituzionale
(pp.52 e 69).
A favore di una sua rivalutazione stanno non soltanto le sue
lettere e le “Memorie economiche” (pp.50 e 66), ma anche una palinodia di
Benedetto Croce, parallela a quella che gli toccò di scrivere a proposito dei
“Promessi Sposi”. Convinto che ogni forma di letteratura finalizzata a scopi
morali si escludesse automaticamente dalla perfezione artistica, egli pubblicò
una stroncatura del romanzo manzoniano nel 1926 (ora in “Conversazioni
critiche”, III, 247-256). Ma, a pochi mesi dalla morte, fece riparazione
riconoscendo la sublimità estetica del capolavoro e attribuendo l’errore ad una
insufficiente riflessione (“Lo spettatore italiano”, marzo 1952). Ebbene, anche
a riguardo del nostro personaggio, nel 1897 (“La rivoluzione napoletana del
1799”, Bari, Laterza) egli ebbe a dare un giudizio sprezzante, definendolo
“docile strumento nelle mani di quei due esseri inferiori”. Ma, pubblicando “La
riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del Re,
della Regina e del ministro Acton”(ivi, 1943), egli elogia il “cardinale” in
questi termini: “Il personaggio che nella lettura di questo carteggio spicca ai
nostri occhi è lui, Fabrizio Ruffo, che pensa e opera e, con calma risolutezza,
affrontando e superando continue difficoltà e pericoli, giunge al segno che si
era prefisso… A siffatti propositi (di vendetta, da parte del re e della regina)
il Ruffo, pur nel mezzo delle sue cure e dei suoi affanni, opponeva chiaramente
e fermamente, fin dal primo delinearsi del felice andamento della sua impresa,
il diverso sentimento suo e il diverso suo pensiero e la diversa sua pratica:
cioè, che invece di punizioni o restringendo a pochi casi le punizioni, fosse
da adoperare larga clemenza e indulgenza…” E cita dalla lettera all’Acton
questa riflessione sulla condizione tormentata del suo spirito: “E’ certo che
il caso di far guerra e temere la rovina del nemico è la più crudele
situazione, ed è la nostra”. C’è molto da ridire sulla religiosità del
“cardinale” (e il prof. De Maio è piuttosto sulla negativa: cfr. p. 24 “egli
non fu uomo di Chiesa, anche se certamente fu uomo della Chiesa”; anzi, “Il cardinale…forse
non era nemmeno religioso” p. 23), ma una cosa ci sembra certa: il sentirsi
angosciato per la salvezza del nemico, che pur si è costretti a combattere, non
è sentimento che si riesca a trovare espresso fuori del Vangelo e della
fede che vi si riferisce: è un “proprium” della civiltà cristiana.
Ma, qualunque sia stato il peso dell’educazione nel far maturare il suo
temperamento (innato) in carattere (liberamente forgiato), pare di dover
proprio assentire con De Maio quando conclude (p. 38) che la sua eccezionale
personalità e le sue opere eccezionali “giustificano in pieno il prestigio di
cui il cardinale godette dopo”: sia presso il re Ferdinando, che presso
Napoleone, che presso il papa. A Napoli fu fatto ambasciatore presso la S. Sede
e Consigliere di Stato; a Roma Pio VII gli affidò la soprintendenza alla
Deputazione dell’annona e della grascia e lo nominò in due diverse occasioni
membro della congregazione economica ; Napoleone lo volle presente al suo
matrimonio con Maria Luisa, nel 1810 e gli conferì la Legion d’onore nel 1813.
Perché gli storiografi posteriori
non sono unanimi nel giudizio di lode ad un personaggio così eccezionale?
Cedano alfine i pregiudizi alla verità dei
fatti.
don Marcello De Grandi.
[1] Giovanni
Ruffo e Domenico De Maio- Il cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia-
Rubbettino- 88049- Soveria Mannelli, 1999, pp.118, Lire 18.000.
[2] Ma chi
aveva preordinato il curricolo della sua vita? In che misura egli lo faceva
proprio? Anche nelle dimensioni religiose? Forse la domanda non ha molto senso
per lui: l’obbedienza ai genitori era allora non solo un comandamento di Dio,
ma un mito sociale, almeno in certe classi nobiliari (i Ruffo, non si
dimentichi, erano prìncipi): implicava anche la scelta dello stato, nonostante
le precauzioni in contrario della Chiesa. E, poi, in un parentado che fra il
1706 ed il 1891 poté vedere eletti al cardinalato altri quattro membri,
l’ambizione di Fabrizio alla carriera ecclesiastica poteva parere cosa
appetibile e degna, senza per questo escludere nè includere
necessariamente la fede. D’altra parte, questa, era un’eredità ovvia
nell’ambiente in cui era cresciuto, sia di famiglia che nel contatto con il
precettore romano e nel collegio Clementino dove, ad un certo punto,
anch’egli si iscrisse come lo zio, per gli studi teologici: era la scuola dove
si formavano i diplomatici e i candidati alle alte cariche
ecclesiastiche, anche attraverso gli studi di teologia dogmatica e morale. Ma
l’aver rifiutato il sacerdozio per tutta la vita, fa del nostro “cardinale” un
enigma su questo punto. Almeno fino ad un certo segno. Angelo Braschi si fece
ordinare sacerdote solo a quarantuno anni, quando già da tre era canonico
maggiore di San Pietro. E, cardinale dell’ordine dei preti, fu consacrato
vescovo dopo la nomina a papa. Consalvi, il segretario di Stato di Pio VII, non
fu mai sacerdote, ma seppe rispondere a Napoleone che non si illudesse di
riuscire a distruggere lui la Chiesa, visto che non c’era riuscito il clero in
diciotto secoli!
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