L’intervento precedente – escludendo le due appendici – si chiudeva con la promessa che si sarebbe parlato del sangue di vittime innocenti che, a causa dell’invasione francese dovuta all’invito dei “liberali” nostrani, impregnò di sangue, sia durante la discesa che durante la risalita, le zolle della nostra terra ed arrossò perfino le acque dei nostri fiumi.
Michele Arcangelo Pezza Colonello dell’Esercito Napoletano e Duca di Cassano alias Fra’ Diavolo l’11 novembre 1806 fu condannato a morte e giustiziato a P.zza Mercato dall’esercito invasore giacobino Francese e nonostante la giovane età e con moglie e figli a carico, preferì lasciarsi morire e non tradire il suo Dio, il suo Popolo e il suo Re. Nonostante la vulgata dominante giacobina cerca di infangare da 227 anni il nome del Mito napolitano le sue gesta, il suo coraggio e la sua fedeltà non è solo e vivo ancora ma si rafforza giorno per giorno.
Anche a Tramonti ricordano con forza l’eroe Itrano e grazie alla ” Paranza do Tramuntan” che ha scritto e musicato una cantata a lui dedicata capiamo che in tanti angoli del Regno il Mito di Fra’ Diavolo non solo è ricordato ma addirittura il suo ricordo si rinnova giorno per giorno.
Di seguito la cantata a Fra’
Diavolo che gentilmente la ”
Paranza do Tramuntan” ha eseguito in esclusiva per l’Ass. Id. Alta
Terra di Lavoro in quel di Torre Annunziata.
di seguito monologo in lingua laborina di Raimondo Rotondi con protagonista Fra’ Diavolo recitato il quel di Itri.
“La Repubblica Partenopea”: se non ci fossero di mezzo migliaia di morti, questo sarebbe potuto essere il titolo di un’opera buffa del San Carlo. Che bei nomi di protagonisti! Abbiamo scelto quelli più famosi, come appunto si fa a teatro per ragioni di botteghino: Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Caracciolo e due prime donne, Luigia Sanfelice ed Eleonora de Fonseca Pimentel, ma che a Napoli ancora adesso tutti ricordano come Eleonora Pimentel Fonseca, e infatti suona meglio. ………
Sembrerà strano che nell’anno del Signore 2019 si avverta il bisogno di parlare ancora del
1799, un momento della storia lontano ormai ben duecentoventi anni. L’ esigenza
si pone, però, per almeno due motivi. Il primo – che potrebbe anche non rappresentare
cagione di preoccupazione – è rappresentato dal numero non indifferente di
eredi spirituali, che si nutrono ancora delle idee dei giacobini del 1799. Il secondo, invece, è quello che preoccupa di
più, perché costoro, nei gangli della società, occupano le posizioni di maggior
prestigio, da cui hanno la possibilità di imporre un “pensiero unico”,
influenzando cultura, politica e informazione. Il che consente loro di
beneficiare di consistenti concessioni di fondi negati ad altri come si potrà rilevare
dalle due appendici in calce.
Vediamo dove affondano le radici di tali preoccupazioni.
L’anno che ci accingiamo ad esaminare arrossò di una lunga ed ininterrotta scia di sangue, da
nord a sud , da est ad ovest, il suolo dei vari Stati della penisola italiana,
poiché, invaghiti dalle idee dei giacobini francesi, i sedicenti liberali
italici (non ancora italiani in senso strettamente politico) fecero violare i propri confini
dalle feroci e fameliche truppe francesi. Se una tale decisione fosse stata
presa dal “popolo basso”, quello che i “liberali” non ritenevano degno di
essere considerato “cittadino” , la cosa poteva anche essere scusata, essendo l’ignoranza la causa della
loro scelta. Ma qui stiamo parlando di
una classe sociale che è stata e viene tuttora presentata come la “crema”
dell’intellettualità napoletana, quindi, con tutte le credenziali per raccogliere gli insegnamenti della
rivoluzione che pochi anni prima aveva sconvolto la loro madrepatria ideale e
valutarne le catastrofiche conseguenze. E dire che proprio uno storico di parte
come il Cuoco – mostrando, in verità, poca coerenza – aveva affermato :
<<… la mania per le nazioni estere
prima avvilisce, indi immiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in
lei ogni amore per le cose sue …>>.
Se il Cuoco, nelle sue scelte politiche, si fosse attenuto anche a questo solo principio e, anziché
farsi abbacinare dalla nuova ideologia, avesse cercato di convincere gli amici
sulla bontà del suo postulato, avrebbe dimostrato di essere una persona
coerente, proprio perché non ignorava che libertà e liberazione difficilmente
possono essere garantite da eserciti stranieri e che, anzi, l’unico elemento
certo in una scelta del genere è che il cambiamento non avverrà in maniera
indolore, ma sarà causa di lutti e rovine.
Lutti e rovine che furono veramente tanti, non risparmiando nessuna
città, nessun paese, neppure i luoghi sacri.
Sappiamo bene che la storia non ammette “se”, ma poiché molti giudizi su
queste decisioni sono presenti addirittura nella cultura dei nostri giorni, non
possiamo evitare di tentare un’ analisi di tali fatti, non tanto per decidere
se i protagonisti del 1799, affascinati dalle idee rivoluzionarie, abbiano
sbagliato o no, perché un giudizio di condanna o di assoluzione non cambierebbe
né le situazioni né i fatti storicizzati, quanto per esprimere un giudizio su
chi, ancora oggi, difende ad oltranza scelte e comportamenti che le epoche
successive si sono incaricate di dimostrare sbagliati e riprovevoli e che
continuano ad influenzare la società odierna. Per ritornare ai “se” non ammessi
dalla storia, analizzando sia i presupposti che le conseguenze del momento
storico della Repubblica Napoletana, si può tranquillamente affermare che se
gli intellettuali che invitarono i francesi a violare i confini delle
rispettive patrie si fossero astenuti
da tale aberrazione, si sarebbero evitate tutte quelle violenze che invece
interessarono la martoriata terra italica : saccheggi, uccisioni di massa,
incendi, stupri, violazione di luoghi sacri, ecc. Riandando, infatti, con la
mente agli eccessi della rivoluzione del 1789, mostratasi liberticida piuttosto
che libertaria e tirannica piuttosto che democratica, quelli che vengono
celebrati come “martiri”, non avrebbero avuto difficoltà, applicando un
semplice processo di analogia, a trarne ammonimento non avvertendo nella nuova
rivoluzione figlia della precedente e quindi con le stesse caratteristiche
genetiche le nefaste conseguenze a cui avrebbero portato le loro scelte.Questa
pretesa non è tanto assurda perché qui non stiamo parlando di plebaglia, di lazzari, di persone solo istinto secondo la convinzione dei
giacobini, ma di persone di elevata istruzione e cultura (medici, avvocati,
giudici, sacerdoti, vescovi, alti ufficiali, nobili, ecc.). Accertato, quindi,
che a motivo della propria istruzione costoro avevano la scienza necessaria per
evitare i lamentati danni, anche se
ritenerli colpevoli non serve a mutare quanto storicizzato, dobbiamo far
capire che le loro scelte non ebbero nulla di eroico e quindi dobbiamo
abbattere l’aura mitologica in cui sono
stati inseriti, perché essi, già nel momento in cui facevano la loro scelta,
erano ben consapevoli che stavano facendo qualcosa di cui non andare fieri, se
dobbiamo credere almeno alla chiara denuncia del Colletta, che, nonostante la
sua faziosità, non potette far a meno di riconoscere : << … Tu, cittadino generale, hai presto scordato
che non siamo, tu vincitore, noi vinti ; che qui sei venuto non per battaglie e
vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi ; che noi ti demmo i castelli ;
che noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici (cioè, i propri fratelli – ndr) ; che
i tuoi battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città ; né
basterebbero se noi ci staccassimo dalle tue parti … >> (Storia del
Reame di Napoli … 4, V) . Ancora, quando i giacobini, travestiti da popolani,
sparavano alle spalle dei lazzari, lo stesso Colletta ribadisce : << … menavano al flagello la tradita plebe. Opere malvagie se
pongasimente all’ ingannata fede …>> (ibidem 3,XLI).
Vediamo adesso il percorso della scia di sangue che inzuppò le zolle
delle nostre terre, il numero approssimativo delle vittime imputabili solo alla
ferocia delle truppe dei “liberatori” e non di quelle cadute in combattimento;
quello dei paesi devastati e dati alle fiamme; quello dei luoghi sacri
profanati, e poi vediamo in nome di quali principi possa essere giustificato
tutto questo e dove gli eredi dei protagonisti della Repubblica Napoletana
trovino il coraggio di celebrare un evento che fu tanto funesto per la “nostra”
patria e pretendere addirittura un “pantheon dei martiri”
APPENDICE
n. 1 – SUD : L’ ISTITUTO DI MAROTTA. UNA
CONTROSTORIA DA SCRIVERE
<< … L’Istituto di Marotta è tra
i pochi in Italia ammesso a godere anche dei fondi dell’8 per mille. Nel 1999
la distribuzione di fondi fruttò un miliardo all’istituto, secondo quanto
risulta dall’elenco della Presidenza del Consiglio. Nello stesso anno la
Società geografica italiana, unico ente che si occupa di geografia, ottenne 199
milioni ( “Roma”, 27.10.2001). Secondo dati forniti dallo stesso Marotta in
un’intervista a “La Repubblica” (12.6.1996) solo nel 1994 all’Istituto per gli
Studi filosofici furono assegnati 5 miliardi di lire dal Ministero della
Ricerca scientifica, 260 milioni dal Ministero per i Beni culturali. L’avvocato
si lamentava. Negli anni precedenti il Ministero per i Beni culturali gli
assegnava 340 milioni. Ma in cambio di che cosa? A dirigere l’ “attività
scientifica” dell’Istituto dietro lo schermo di un “ Comitato scientifico” nel
quale figuravano alcuni docenti universitari era un professore di liceo,
Antonio Gargano, poi estromesso negli ultimi anni dal cerchio
magico-familistico del nipote e di due dei figli dell’avvocato 89enne, che
avevano di fatto assunto il controllo amministrativo. Le cifre erogate alla
creatura di Marotta nessun istituto universitario, nessuna istituzione
culturale, a Napoli e nel Sud, le ha mai potuto immaginare. Quelle elargizioni
a senso unico hanno bloccato ogni progetto vero per la cultura, in una città
che non aveva un Museo civico, dove il Museo Filangieri stava per chiudere ed
altri, come San Martino tenevano gran parte delle sale chiuse per mancanza di
personale. Una città che ha circa 200 chiese chiuse, abbandonate, stravolte
nella destinazione d’uso, che dal 1994 non ha più un’Orchestra Stabile dopo la
decisione della Rai di tagliare la Scarlatti che costava un miliardo all’anno,
una città che non aveva un teatro stabile, e dove l’editoria cominciava a
boccheggiare. C’è una controstoria tutta da scrivere sulla realtà di questo
baraccone multicolore che la “ magia della parola “ dei mass – media, le
complicità e l’ ignoranza dei giornalisti hanno trasformato in un
“ tempio della cultura “. Quanto è costato in 41 anni l’Istituto per gli Studi filosofici?
Come sono stati impiegati i finanziamenti pubblici? Qual è il suo bilancio
scientifico, in termini di ricerche e di pubblicazioni, di studiosi formati?
Quali erano i criteri per la cooptazione nel ristretto gruppo che lo gestiva,
quali appartenenze contavano?Sabato 28 gennaio (2018, ndr) a Palazzo Serra di
Cassano, il figlio dell’avvocato Marotta, Massimiliano, che adesso insieme ai
fratelli e ad una piccola corte si candida a gestire i nuovi finanziamenti già
annunciati, senza avere alcun titolo scientifico, ha accolto un perplesso
presidente della giunta regionale della Campania Vincenzo De Luca con la
retorica dei “paglietta” (come Re Ferdinando II di Borbone chiamava gli
avvocatucoli liberali). “ L’Istituto ha una sola funzione – ha detto stentoreo
Marotta junior – quello di portare la filosofia in soccorso dei governi, come
diceva Filangieri”. Finora, però, sono stati i governi e gli enti locali, con i
soldi dei cittadini, ad andare in soccorso dell’Istituto e della famiglia
Marotta.>> (Lettera Napoletana n. 108 – gennaio 2017)
APPENDICE
n. 2 – SUD : L’ ISTITUTO DI MAROTTA. UNA CONTROSTORIA DA SCRIVERE
<< … con il meridionalismo
l’avvocato Marotta – che riduceva la grande storia di Napoli e del Sud
all’effimera repubblica giacobina del 1799 e al cosiddetto Risorgimento – non
c’entrava per niente. Quanto ai “poteri forti” ne era un esponente di prima
fila, appartenendo a quella borghesia parassitaria meridionale che vive
dall’unificazione in poi intercettando le risorse pubbliche ed assicurando in
cambio il consenso intellettuale e politico allo Stato centrale. Nessun
giornale ha neanche accennato un bilancio dell’ attività dell’Istituto, fondato
nel 1975 dall’ex avvocato amministrativista che realizzava gli espropri per
conto delle giunte del comunista Maurizio Valenzi (1975 – 1983) a contadini e
piccoli imprenditori agricoli. Eppure il massiccio drenaggio di finanziamenti
pubblici operato dall’Istituto di Marotta a danno delle istituzioni culturali
di Napoli e del Sud aveva suscitato spesso proteste. “ L’Istituto di Studi
filosofici – denunciò lo storico Paolo Macrì, docente all’Università Federico
II – elargisce a pioggia centinaia di incarichi
scientifici e didattici dal contenuto molto confuso, finendo per pagare
tutto un ceto intellettuale, materialmente o ideologicamente che sia … Di suo
l’Istituto ci mette un’accorta politica dell’immagine costruita attorno a
qualche personaggio eminente” (Corriere del Mezzogiorno 1.10.2000).
“L’Accademia, il Conservatorio sono la storia di questa città da 300 anni –
denunciò il direttore dell’Accademia di Belle Arti, Gianni Pisani – e questi si
spartiscono i fondi come se fossero cosa loro, fra loro” (La Città –
14.6.1996). La classe politica ha fatto il resto, mescolando opportunismo ed
ignoranza …>> (Lettera Napoletana n. 108 – gennaio 2017)
L’esercito francese che
massacra il popolo napoletano al Carmine.
Premessa: e se Il Mattino
organizzasse un dibattito? Leggo solo ora alcune considerazioni scritte dalla
sig.ra Antonella Orefice autrice di un libro sugli “eccidi ordinati dai
Borbone” in alcuni paesini molisani, recensito da Il Mattino qualche giorno fa
e al centro di alcune polemiche e di un mio precedente intervento. La sig.ra
Orefice minaccia di querelarmi ma è difficile capire le motivazioni di queste
minacce poiché avevo espresso semplicemente alcuni giudizi (dovrebbe chiamarsi
“dibattito”, mi pare) in merito a quanto scritto nella recensione firmata da
Mario Avagliano. Giudizi storiografici (altro che “giudizi spregevoli sulla sua
persona”) e che non posso che confermare perché si nota in quelle righe
effettivamente un “entusiasmo comprensibile” per chi trova un documento, ma
credo che sia necessario evidenziare le lacune di ricerche archivistiche
di fonti “dell’altra parte” (e citavo un lungo elenco di paesi oggetto di
massacri, saccheggi e devastazioni): è forse “spregevole” a Napoli chiedersi se
si tratta o no di un libro parziale o imparziale? Sempre la sig. ra Orefice,
poi, mi sopravvaluta e sottovaluta (forse solo per un naturale istinto di
difesa delle proprie posizioni) la portata di un nuovo fenomeno culturale: io
non ho “seguaci” (non ho mai creato una setta): circa 20 anni fa ho semplicemente
creato un movimento culturale (il Movimento Neoborbonico) che ha fatto opera di
ricerca e divulgazione con tesi di segno contrario rispetto a quelle della
cultura ufficiale. Il consenso e il successo riscontrati sono andati ben al di
là dei mezzi in campo e delle più rosee previsioni anche perché, evidentemente,
c’è un forte bisogno di radici (tutte le radici), di storie ricche di orgoglio
e rispettose di tradizioni napoletane, cristiane e anche borboniche… La sig.ra
Orefice, allora, non può accusare il sottoscritto per tutte le lettere a lei
pervenute e dalle quali (ripetiamo un concetto già abbondantemente espresso) ci
dissociamo qualora fossero risultate offensive o minacciose (non è stato mai il
mio e il nostro stile e non possiamo certo disporre della volontà di quanti
hanno manifestato il loro dissenso). Lei stessa, del resto, in un post
pubblicato prima delle polemiche si rivolgeva al “popolo lazzaro” invitandolo
sarcasticamente ad esultare per le verità raccontate sui “suoi Borboni”. Chi scrive,
oltre alla specializzazione in Archivistica presso l’Archivio di Stato di
Napoli, ha all’attivo semplicemente migliaia di ore di studio con pubblicazioni
(quasi tutte esaurite) che raccontano storie diverse rispetto a quelle
raccontate dalla Orefice. Tutto qui. Altro che “storielle” o “verità
manipolate” o tentativi di “vendere chiacchiere” insieme alle (nostre)
incapacità di “comprendere i suoi lavori”, affermazioni che pure si
presterebbero a eventuali querele ma che supereremo amando i dibattiti e non
amando i tribunali italiani. In quanto alla mia critica rivolta alle classi
dirigenti, la sig.ra Orefice risponde affermando che “non ha velleità
politiche” né è alla ricerca di “candidature” ma, come la sig.ra certamente sa,
si è “classe dirigente” anche (e di più) da giornalista o da intellettuale e
resta in piedi la mia tesi sulle responsabilità di chi, in oltre 200 anni, e
nonostante un vero e proprio monopolio di segno giacobino e liberale (e che, a
quanto pare, ancora non basta), ha formato culturalmente chi ci ha
rappresentato in questi anni e (come lo stesso Mattino spesso denuncia) non in
maniera del tutto adeguata. Le inviamo, poi, i nostri complimenti per la
pubblicazione, di altre recensioni positive del suo lavoro ma la cosa conferma
quanto già scritto a proposito del monopolio della cultura ufficiale che,
naturalmente, può prevedere anche recensioni positive su Repubblica o magari (è
una citazione della sig.ra Orefice) sulla rivista ufficiale della Gran Loggia
d’Italia (e cioè di quella massoneria più volte al centro dei nostri studi e
delle nostre critiche per le sue responsabilità in merito a certi processi
legati all’unificazione). Per tornare, poi, a quella parola a Napoli (e dalle
parti del Mattino) piuttosto rara (“dibattito”), come nel mio primo intervento,
vorrei evitare le facili, semplicistiche e confortanti etichette
(”neoborbonici”, “giacobini” ecc.) ed entrare nel merito di alcune domande alle
quali la sig.ra Orefice non ha dato risposta alcuna: non è forse vero che fu
Mazzini il primo a definire traditori quei giacobini? Non è forse vero quanto
affermato dalle fonti francesi e cioè che a Napoli in 3 giorni furono
massacrati oltre ottomila “lazzaroni” e in tutto il Regno (in meno di 5 mesi)
oltre sessantamila persone di parte napoletana-cristiana-borbonica? Non è forse
vero che partivano ogni giorno per Parigi convogli con le nostre opere d’arte o
che diverse centinaia di popolani furono condannati a morte solo per non aver
gridato “viva la repubblica”? Non è forse vero che nella socialmente e
culturalmente variegata armata di Ruffo quei “mercenari albanesi” non
superavano le poche decine ed erano, invece, soldati delle comunità albanesi
fedeli alla dinastia? Non è forse vero che furono devastati tutti quei paesi
(abitanti compresi) sia nel 1799 che nel successivo periodo murattiano (su
tutti “l’onda dei morti” di Lauria)? Non è forse vero che in tutto il
mondo chi difende la propria patria dagli stranieri è celebrato dopo secoli (un
esempio su tutti i popolani spagnoli antifrancesi dipinti da Goya) e solo da
noi viene ignorato e disprezzato? Queste sono le domande che abbiamo rivolto
alla Orefice e al Mattino e su questo dovrebbe riflettere davvero una città
che, a quanto pare, non ha ancora fatto pace con la sua storia. Concordo,
infine, con la sig.ra Orefice sul fatto che per noi il 1799 è (brutta immagine
ma cito il suo testo) “un’ulcera perforata” ma solo perché, dopo
oltre due secoli, avremmo il dovere di ricordare con cristiano rispetto tutte
le vittime della rivoluzione franco-giacobina, “perforate” (loro sì, e a
migliaia!), dalle baionette francesi al Carmine o a via Foria, a Porta Capuana
o al Mercato stando dalla difficile part dei vinti, ieri come oggi. Non era il
“popolo lazzaro”. Era il Popolo Napoletano. Il nostro Popolo.
Siamo nel 2019 a 220 dal fatidico anno 1799 dove s’è consumato, con tantissimo spargimento di sangue, un vero e proprio scontro di civiltà tra il mondo della tradizione, che non voleva assolutamente cedere il passo, e il mondo dell’illuminismo e del razionalismo sintetizzato nel giacobinismo.
Se vi era un piccolo numero, ripeto un piccolo numero, di intellettuali sognatori che vedevano nel positivismo e nel progressismo la nuova strada verso la felicità c’era anche uno zoccolo duro della rivoluzione passiva, così definita da Cuoco, composto dalla neo borghesia latifondista, da una parte della vecchia pseudo aristocrazia parassitaria e da una nuova oligarchia notabile che sfruttando l’onda del cambiamento voleva solo arricchirsi attraverso l’esproprio dei beni della Chiesa, del demanio pubblico e dei vecchi feudi senza versare un soldo.
Anche in questo 2019 l’Ass. Id. Alta Terra di Lavoro ha continuato a presentare il testo di Petromasi sulla marcia dell’armata Sanfedista guidata dal Card. Ruffo e nel mese di Gennaio dopo averlo presentato in quel di Pignataro Maggiore lo ha fatto al Castello Pignatelli di Monteroduni tanto bello quanto prestigioso. Di seguito i video degli interventi dello storico Laborino Fernando Riccardi e dell’Accademico Conte Giulio de Jorio Frisari il tutto condito dagli intermezzi teatrali in Lingua Laborina Raimondo Rotondi.