Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Ancora verità sul 1799

Posted by on Nov 4, 2019

Ancora verità sul 1799

MEGLIO NEOBORBONICI CHE NEOGIACOBINI
Vi riportiamo l’interessante dibattito storico-culturale tra il Prof. Gennaro De Crescenzo e la dott.ssa Antonella Orefice. Una inevitabile “resa dei conti” su quella storiografia faziosa e menzognera, intrisa di quell’ideologia giacobina che per secoli ha fatto passare come fonte di progresso e di civiltà, una delle più sanguinose e devastanti dominazioni straniere.

IL MATTINO e il 1799

Premesse, analisi, proposte.Meglio neoborbonici che neogiacobini

Antonella Orefice ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero in due paesini molisani “gli eccidi ordinati dai Borbone” (titolo a tutta pagina su Il Mattino del 14/6 con nota storiografica articolata che abbiamo inviato allo stesso giornale e allegata a queste premesse, in attesa di “eventuale” pubblicazione). Orefice è stata assistente di Maria Antonietta Macciocchi, comunista di posizioni maoiste che scrisse anche un libro dedicato alla de Fonseca e sintetizzato (Corriere della Sera, 8 gennaio 1999) nel libretto dell’opera allestita al San Carlo (contestata dai neoborbonici) per il bicentenario del 1799: “sono sicura -scriveva la Macciocchi- che è stata Eleonora a salvarmi dalle SS nel 1943… lasciai Napoli per Parigi ma credo che anche in questa scelta vi fosse l’influsso astrale di Eleonora…”. Una forma di cultura “neogiacobina” anche più estremizzata di qualsiasi forma di “neoborbonismo”… Lasciando da parte alcune perplessità sulla attendibilità di queste affermazioni e sulla scientificità della storia scritta dalla Macciocchi, riportiamo un post pubblicato poche ore fa dalla sua ex assistente che ha firmato il libro recensito a tutta pagina da Il Mattino: “Ecco chi sono i Borboni che tanto rimpiangi! ESULTA POPOLO LAZZARO…. ! (Ma noi SIAMO ANCORA QUA……….. La Nostra Repubblica è VIVA!)”.Inevitabili alcune lettere di protesta che pare siano pervenute alla Orefice che se ne lamenta sempre sul suo profilo (e che non condividiamo solo se sono in qualche modo offensive e minacciose). Più di un dubbio, però, ci assale sulla imparzialità di questo nuovo libro, probabile frutto del comprensibile entusiasmo di chi non è esattamente e sistematicamente di casa negli archivi. E più di un dubbio ci assale anche sul distacco (quasi un odio, diremmo) che i giacobini del 1799 avvertivano contro quel “popolo lazzaro” (massacrato dai franco-giacobini con non meno di 60.000 caduti!) che si ribellò eroicamente a quella invasione: tenuto conto che la cultura ufficiale ha formato sulla base delle idee giacobine/liberali schiere di classi dirigenti locali e nazionali, ci assale ancora un altro dubbio che si lega al distacco che viviamo da queste parti tra governanti e governati. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) nel 1799. Distanti e contro il popolo (di Napoli e del Sud) oggi. A dimostrazione della “pacatezza” e della sobrietà di intellettuali e giornalisti locali, l’autore dell’articolo, in un post appena pubblicato mette sullo stesso piano “neoborbonici e neofascisti” (“tra neofascisti e neoborbonici.. stiamo proprio messi male!”)…E se la scommessa del futuro fosse, invece, proprio una classe dirigente finalmente e veramente radicata, rispettosa di tradizioni e identità, fiera e autenticamente napoletana e meridionale? E’ questo, da circa 20 anni, l’obiettivo neoborbonico: una scommessa paradossalmente davvero nuova se consideriamo i fallimenti delle classi dirigenti monopolisticamente formate dalla cultura ufficiale giacobina, liberale, antiborbonica e antinapoletana. Il successo e la diffusione (con la conseguente e facile rabbia degli “avversari”) delle nostre iniziative delle nostre idee ci fanno ben sperare…Il solito 1799 e le stragi giacobine (davvero) dimenticateAnche per Mazzini i giacobini erano traditori…  Caro direttore, Napoli è davvero uno strano paese: da oltre 200 anni prevale in maniera monopolistica una lettura parziale e unilaterale di certe storie (in testa quella del 1799 fino a quelle “risorgimentali”) eppure la stessa cultura ufficiale che detiene quel monopolio continua a lamentarsi perché qualcuno ha “osato”, in questi anni, raccontare altre storie. In questo caso, Mario Avagliano, recensendo il nuovo libro di Antonella Orefice su alcune stragi (“dimenticate”) del Molise durante la rivoluzione napoletana, cita i soliti esuli che tante colpe hanno avuto nella creazione di un mito negativo e ancora attuale di Napoli o che -nel caso di Settembrini- furono costretti a rivedere molte delle loro tesi dopo l’Unità. Sempre i Borbone, poi, per l’articolista, avrebbero affidato a Ruffo “il compito della repressione” e così Ruffo avrebbe “occupato Napoli nel giugno del 1799 macchiandosi di efferati delitti, con mercenari albanesi, contadini del luogo e avanzi di galera”… Peccato, però, che quei mercenari fossero 50 (sui complessivi 80.000 volontari della sua armata) e che il Cardinale non aveva avuto il compito di “reprimere” ma di “liberare” il Regno da un’invasione straniera favorita da pochi giacobini locali (“una minoranza impercettibile” li definì Luigi Blanch) così come Napoli non fu di certo “occupata” da Ruffo (o dai Borbone), visto che era già “dei” Borbone che legittimamente vi regnavano. E di certo, del resto, in nessuna guerra (tanto più in una guerra contro l’esercito più potente del mondo) nessuno ha mai chiesto il curriculum di chi combatte. La Orefice ha scritto questo libro lasciando parlare “i documenti: quelli veri, quelli scomodi” contro chi in questi anni avrebbe “santificato i briganti e definito traditori i patrioti del 1799”. Solo che da oltre due secoli si tirano fuori sempre gli stessi documenti e non quelli che raccontano le stragi (quelle sì e quelle davvero dimenticate) compiute dai franco-giacobini ai danni della parte napoletana-cristiana-borbonica: oltre ottomila (in tre giorni) nella capitale e “oltre sessantamila i napoletani passati a fil di spada” in appena cinque mesi di repubblica: “Napoli non era altro che un immenso campo di carneficine, incendi, spavento e morte “ (memorie del generale Thiebault). Fu Giuseppe Mazzini, del resto, il primo a definire traditori quei patrioti che “avevano aperto le porte della città agli stranieri invasori… il Popolo napoletano  era disposto a morire combattendo non per superstizione, come più volte si è detto, ma per un sentimento nazionale, per un’idea di Patria che vi pulsava al di sotto” (manoscritto, Museo Centrale-Risorgimento). Si ricordano, allora, le fucilazioni molisane ma non i massacri e le devastazioni  sempre molisane di Isernia (oltre 1500 morti) o quelli di Mercogliano, Caserta, Ceglie, Carbonara, Bacoli, Benevento, Briano, Cetara, Collettara, Fondi, Gensano, Casamari, Itri, Massa, Nola, Pomigliano, Pagani  (e l’elenco sarebbe troppo lungo). Fu una guerra di invasione in alcune occasioni divenuta una sanguinosa e (a partire dai Borbone) non voluta guerra civile. Solo che in qualsiasi altro posto del mondo si  ricorderebbero i difensori della propria patria o almeno “anche” loro (si pensi alla celebrazione che il grande Goya ha fatto dei popolani spagnoli antifrancesi) e dalle nostre parti si scrive ancora con una rabbia e una parzialità oggettivamente eccessive di “massacri ordinati dai Borbone” o di “orde sanfediste” lasciando spazio ad una cultura ufficiale sempre poco attenta alle nostre tradizioni e alle nostre radici (anche borboniche e cristiane, al contrario di quanto pensano alcuni intellettuali): la stessa cultura ufficiale che, se solo guardiamo alla formazione delle nostre classi dirigenti, non ha prodotto risultati così positivi…

Napoli, prof. Gennaro De CrescenzoMovimento Neoborbonico“Parlamento delle Due Sicilie”

fonte http://pocobello.blogspot.com/2013/06/ancora-verita-sul-1799.html

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I RAPPORTI BURRASCOSI DI NAPOLEONE CON L’INDOMITO PAPA PIO VII

Posted by on Nov 3, 2019

I RAPPORTI BURRASCOSI DI NAPOLEONE CON L’INDOMITO PAPA PIO VII

Luigi BARNABA nacque a Cesena il 14 agosto 1742, ultimo figlio di Scipione CHIARAMONTI e Giovanna Coronata Ghini, entrambi appartenenti all’aristocrazia cesenate. Dopo la morte del padre e il ritiro della madre in convento, il giovane Barnaba intraprese nella città natale i primi passi della vocazione ecclesiastica tra i Benedettini. Col nome di Gregorio, dopo un periodo a Padova dove intraprese gli studi di filosofia e teologia, raggiunse Roma per perfezionarsi al collegio S. Anselmo, risiedendo all’abbazia di S. Paolo fuori le Mura. Divenuto professore di teologia, si trasferì a Parma dove divenne ben presto punto di riferimento per gli intellettuali della piccola capitale dei Farnese.

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Eleonora de Fonseca Pimentel e Maria Antonietta Macciocchi a confronto

Posted by on Nov 1, 2019

Eleonora de Fonseca Pimentel e Maria Antonietta Macciocchi a confronto

     Nella sua marcia  per restituire al legittimo sovrano un regno che i giacobini napoletani, tramandati poi come eroi, patrioti e martiri, avevano consegnato alle fameliche ed insaziabili truppe francesi, il Cardinale Ruffo era accompagnato dall’abate Domenico Sacchinelli,suo segretario, e  da Domenico Petromasi, Commissario di guerra e tenente colonnello dei Regi Eserciti di S. M. Siciliana.

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CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

Posted by on Ott 31, 2019

CARD. FABRIZIO RUFFO UN FORTUNATO AVVENTURIERO O UN UOMO STRAORDINARIO?

La figura del cardinale Fabrizio Ruffo (d’ora innanzi, semplicemente “il cardinale”) rischia di rimanere un enigma, anche dopo due secoli dalla sua impresa, notissima perché strabiliante: la “riconquista” del Napoletano, in poco più di quattro mesi, al comando di poche migliaia di “briganti calabresi” contro i Francesi armati ed organizzati di tutto punto. Benvenuto allora lo studio di Ruffo-De Maio (IL CARDINALE FABRIZIO RUFFO TRA PSICOLOGIA E STORIA)[1] che, scritto a quattro mani, cerca di rispondere al  dilemma: “docile strumento di quei due esseri inferiori” (Francesco IV e  Carolina di Napoli) ovvero “ personaggio  che con calma e risolutezza  giunge al fine che si era prefisso, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli”? (pp. 27 e 50). Una sciarada di non facile soluzione.

E, per cominciare, il motivo della “sorpresa” di fronte al risultato  imprevedibile (anzi disperato) sta, anzitutto, nella mancanza di un diario autobiografico del protagonista. Motivo parallelo sono le reticenze del segretario, l’abate Domenico Sacchinelli, che dovrà limitarsi al racconto delle vicende relative alla marcia vittoriosa, tralasciando il resto della vita del “cardinale”, per il timore troppo giustificato  dei veti della corte, che temeva venisse  alla luce la parte poco onorevole che  essa aveva avuto in quelle circostanze. Si pensi, per farsi un’idea dei procedimenti di re Ferdinando, che ad impedire al “cardinale” di far resistenza agli ordini di impiccare i napoletani passati ai francesi (fra cui l’ammiraglio F. Caracciolo e il giurista F. M. Pagano), il re non esitò a prendersi come ostaggio il fratello di lui,  Francesco, ordinando nel frattempo che lo stesso autore della liberazione fosse imprigionato (Nelson voleva addirittura impiccarlo!). La colpa? Aver garantito una resa onorevole agli insorti, ormai assediati a Napoli in Castel Nuovo e Castel dell’ Ovo. Con una simile censura, non c’erano davvero incentivi a cercare le “cause” del miracolo all’interno dell’animo del cardinale-condottiero.

  Ma è proprio questa la nostra curiosità: che “diavolo” era mai quel cardinale di santa romana Chiesa, che si improvvisava comandante di truppe e le elettrizzava coi suoi discorsi e proclami, in maniera non meno efficace di quanto sapesse fare Napoleone? E’ l’inchiesta affidata al professor Domenico De Maio, neuropsichiatra, che ha steso il primo dei tre capitoli dell’opera. La quale, sia detto en passant, è poi resa preziosa anche da foto di documenti riguardanti  provvedimenti di Napoleone  a favore del “cardinale” o dipinti di personaggi e luoghi legati alla sua attività, una cui panoramica essenziale, ma tutt’altro che  ripetitiva, è offerta dalla parte del volume stesa dal dottor Giovanni Ruffo, un discendente della famiglia del cardinale Fabrizio, esperto degli archivi di famiglia. Questi ha, dunque, potuto conoscerne al meglio le vicende esteriori, dalla fanciullezza alla morte, vicende che sintetizza qui, dopo averne discusso più ampiamente in “Calabria sconosciuta” (XVIII, n. 65: “Il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara nella storia”) e soprattutto nel saggio “Il cardinale rosso”, Calabria letteraria editrice, 1998. Inquadriamo storicamente il fatto principale.

 Quali siano state le peripezie della “repubblica partenopea” fondata e persa dai francesi proprio due secoli fa, è a tutti noto. Napoleone, occupata la fortezza di Mantova nel febbraio del 1797, minaccia l’Austria da vicino e la costringe alla pace di Campoformio (17 ottobre). Gli stati pontifici erano già stati sistemati il 19 febbraio, a Tolentino: Bologna, Romagna, le Marche occupate, con una taglia, in più, di trentun milioni di lire e di numerose opere d’arte. Ma il Direttorio di Parigi aveva chiesto al suo generale di occupare tutto lo stato del papa: Napoleone aveva umiliato il suo governo. E questo cerca l’occasione per disfarsene. Bonaparte vuole andare in Egitto a tagliare la via delle Indie agli Inglesi? Bene: ecco la flotta, ecco i soldati, ecco il danaro. Dopo la sua partenza, il Direttorio riesce nelle sue mire su Roma: aizzando i rivoluzionari locali con emissari propri, suscita disordini, in uno dei quali perisce il generale francese Duphot (28 dicembre 1798). Era il “casus belli” che il Direttorio cercava. Il generale Championnet occupa Roma e urge su Pio VI perché abdichi. Non essendovisi egli piegato, lo si fa prigioniero e lo si avvia in esilio (morirà a Valence, in Francia il 29 agosto 1799). Ma quando Horatio Nelson distrugge la flotta napoleonica ad Abukir (1 agosto 1798), si forma la terza coalizione contro la Francia, con Austria e Russia pronti ad invadere l’Italia.  Come in precedenza, i Borboni di Napoli sono della partita. Si sentono impegnati a rivendicare i torti subiti dal pontefice e a non lasciar tracimare la rivoluzione in casa propria. E, poi, l’Austria ha fornito, quale comandante per il loro esercito, nientemeno che il generale Karl Mack. Già nel novembre 1798 “Del Tirreno dai liti| con soldati infiniti venne a Roma bravando| il re D. Ferdinando.| E in pochissimi dì,| venne, vide e fuggì” (p. 18).  Il generale Mack ha compiuto il suo primo capolavoro. Un altro lo consumerà ad Ulma nel 1805: dopo di che, ad evitarne ulteriori, verrà giustiziato dal suo governo. I responsabili delle fortezze del Regno si arrendono uno dopo l’altro: dal generale Luigi de Gambs in Teramo,  al comandante Tschudy per Gaeta, al duca di Roccaromana di Capua. Solo viltà, per paura; od anche tradimento, per il fascino delle idee giacobine? Su 130 vescovi del Regno, si fa il conto che ben 19 si professarono repubblicani filofrancesi (a cominciare dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Capece Zurlo) e solo 10 contro di loro, mentre la più parte si trincerò in un silenzio prudenziale. La corte borbonica? Il 21 dicembre 1798 si imbarca sul Vanguard dell’ammiraglio Nelson e si rifugia a Palermo, sotto la custodia della flotta inglese. A Palermo giunge anche, dal Casertano dove è responsabile della colonia di San Leucio, il nostro cardinale. Il re lo nomina “vicario generale del Regno”, cioè suo luogotenente con tutti i poteri (25. 01. 1799) ed egli passa lo stretto di Messina, sbarcando a  Capo Pezzo (Villa San Giovanni) l’8 di febbraio “con sette persone… una misera somma…nemmeno un militare di carriera” (p. 19). Ebbene: il 19 giugno egli ha praticamente terminato la sua missione, ottenendo la firma di resa dai repubblicani rinserrati in Castel Nuovo e Castel dell’Ovo e coi francesi rinchiusi in quello di Sant’Elmo. Che, poi, il Nelson dichiarasse infami le clausole della resa onorevole concessa dal cardinale Ruffo ed impiccasse, d’accordo con la corte tutti i “giacobini” ribellatisi al re e caduti nelle mani degli inglesi, è cosa purtroppo nota. Il 28 giugno, il re privava il “cardinale” d’ogni potere militare, sicché egli scriveva alla regina, licenziando. E, in attesa di essere sostituito, aiutava 500 patrioti a mettersi al sicuro. E si sarebbero potuti salvare anche i “giacobini” dei due castelli, se avessero seguito il suo suggerimento di fuggire per via di terra: li perse quella stessa mancanza di senso della realtà, che V. Cuoco rimprovera loro nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”.

La regina Carolina, come fu la più sanguinaria nel volere la morte dei ribelli e l’annullamento dei patti sottoscritti dal “vicario generale del regno”, così era stata la più scettica all’inizio dell’impresa del “cardinale”: lo riteneva matto. Eppure egli riuscì. Il perché va ricercato nella personalità di Fabrizio Ruffo, che De Maio ci presenta al vivo, seguendo con occhio clinico tutta la vita precedente la “reconquista”. Vorremmo prendere le mosse dalle conclusioni, salvo a documentarle nelle motivazioni: “Ruffo era nato per mettere ordine, per temperamento e per educazione; era un leader carismatico che ha sempre seguito un percorso logico e razionale, in ogni occasione dominando le emozioni e controllando le situazioni, vigile e diffidente come si conveniva ad una persona che per tutta la vita, dovette navigare tra “Scilla e Cariddi” di agguati, maldicenze, invidie e accuse” (p.27). E già prima: “aveva in sé il senso della predestinazione…era in pectore quello che sarebbe diventato” (p. 15). Noi siamo tentati di definirlo un temperamento passionato, cioè attivo (capace di trascinare all’azione gli altri) ed emotivo (capace di scuotere ed impegnare la sfera emozionale altrui), in maniera stabile, cioè non occasionale ma continuata. L’intelligenza privilegiava quella condizionata dall’emisfero destro (concretezza, decisione, dinamismo), mentre sobria,  funzionale, essenziale doveva essere la parola, ignara di retorica e di sfumature poetiche. Che ci pare anche il giudizio di Alessandro Dumas padre (cfr. p. 11). 

Chiediamo ora al professor De Maio gli indizi intuiti nei dati biografici e negli scritti.

Già da ragazzo (o, addirittura, da fanciullo?) i fratelli lo battezzano “biscia ostinata” (“lifitu testarinu”: p. 11). I fratelli lo vedevano   solo per le brevi vacanze estive, ché il prozio, cardinal Tommaso Ruffo (morto a 90 anni nel 1753), fin dai quattro anni lo portò con sé a Roma, affidandolo ad un precettore eccezionale: Giovanni Angelo Braschi, suo segretario e futuro papa Pio VI. Tale distacco , fa notare De Maio, non portò alcuna nevrosi né altra deformazione psicologica nel ragazzo: sano, robusto e intelligente, trasformava in esperienza intellettiva ed in fortezza di volontà le privazioni affettive (pp. 14-15: “ancora in giovane età, Ruffo agì con un perfetto sincronismo emotivo, comportamentale, volitivo e programmatico: si rese subito cosciente delle aspettative che si ponevano su di lui. E lui le fece proprie”. Difficile pensare, a nostro parere, che a quell’età il tipo di formazione impartita da G. Angelo Braschi potesse incidere in modo determinante sulla tenacia e puntigliosità del carattere, da renderlo paragonabile al vitalismo irritante di una biscia: era il suo temperamento che si consolidava con la disciplina e la dedizione allo studio.

Vi è un secondo dato significativo: il prozio muore (il 16 febbraio 1753) quando Fabrizio (nato il 16 settembre 1744) non ha ancora nove anni: eppure egli prosegue negli studi e nella carriera ecclesiastica, come programmato.[2]

Gli indizi a conferma del “tipo” psicologico si moltiplicano. Si è parlato di “studi e disciplina”. Ma non ci si aspetti una dedizione troppo docile e passiva. Almeno con il prelato Braschi, ci informa De Maio: “Comportamentalmente era però un ribelle, che passava da una punizione all’altra, senza modificare punto le linee del suo carattere”. (p.11). Fra le altre marachelle, c’era quella “di giocare con i… lunghi ed inanellati capelli” del suo precettore, che una volta anzi si ricevette uno schiaffo da Fabrizio, “infastidito dall’ostacolo che questi opponeva ai suoi tentativi” (ivi). Se ne può dedurre che “La sua ubbidienza era totale solo quanto agli studi.” (ib.). E, anche a questo proposito, egli seppe ritagliarsi i suoi campi di specializzazione che furono la giurisprudenza (si laureò a 23 anni, alla “Sapienza” di Roma) e l’economia. Lettore dei moderni teorizzatori delle due branche del sapere, egli faceva particolare riferimento a Pietro Verri (p. 53).

Un altro atto rivelatore della sua chiarezza di propositi e di intenti: accettando il diaconato, non proseguì fino al sacerdozio. Nè mai sarà prete (come il cardinale Ercole Consalvi ed a differenza del prozio Tommaso, che divenne anzi arcivescovo di Ferrara): un segnale di impegno non “indissolubile” con la Chiesa, essendo l’obbligo del celibato, al di fuori del sacerdozio, dispensabile con la  fuoruscita dall’ascrizione al clero.

 Con l’elezione a papa Pio VI del suo ex-precettore, le sue chances di carriera si fanno concrete: nel 1785 diviene Tesoriere generale, vale a dire ministro dell’economia dello stato pontificio. Si trova d’accordo con i progetti papali di ammodernare la situazione, attraverso una serie di provvedimenti economicamente e socialmente avanzati: abbattimento delle barriere doganali interne, provvedimenti protettivi delle manifatture dei sudditi, favore alla coltivazione della canapa e del cotone, sviluppo di una marina mercantile. Altre direttive furono l’abolizione dei vincoli produttivistici (monopoli di privati), la concessione di terreni demaniali in enfiteusi a contadini nullatenenti e la diminuzione dei poteri dei “cardinali legati” (delegati, cioè, al governo delle varie regioni dello Stato pontificio). Se il primo gruppo di decisioni era certo destinato a dare, col tempo, vantaggi anche per le casse dello stato, il secondo gruppo erano sorgente immediata di proteste, ostilità, accuse (di aderire ad idee illuministiche e, quindi,  anche religiosamente sospette). Visto che le finanze del pontificato di Pio VI peggioravano sempre più (per le imprese sproporzionate alle disponibilità, come il prosciugamento delle paludi, le costruzioni grandiose, il nepotismo); e che i princìpi seguiti dal papa e dal suo economo erano sfociate in Francia nella rivoluzione, allora la posizione del Ruffo alla Tesoreria divenne insostenibile: fatto già cardinale “in pectore” nel 1791, con un “promoveatur ut amoveatur” Pio VI lo  “pubblicò” nel 1794 e lo licenziò dall’incarico.

Ed ecco che il “cardinale” si rende indipendente, si porta a Napoli, dove il re lo fa sovrintendente di Caserta, con il compito particolare di sorveglianza sul gioiello della corona: la colonia agricolo-industriale di San Leucio dove, a parte altri provvedimenti sociali d’avanguardia, l’istruzione gratuita era obbligatoria anche per le ragazze! Per garantirgli lo stipendio, gli conferì le rendite dell’abbazia di S. Sofia in Benevento, dichiarata arbitrariamente di “regio patronato”. Erano tempi in cui il giurisdizionalismo faceva soffrire la Chiesa un po’ ovunque (Pio VI si era recato a Vienna nel 1782, nel vano tentativo di stornare le leggi ostili di Giuseppe II, imperatore illuminista, massone e sacrestano) e il provvedimento di Ferdinando IV era solo un colpo di spillo in più tra le ferite che egli ed il ministro Bernardo Tanucci avevano già inferto al papa. Solo quando la rivoluzione francese toccherà da vicino Austria e Napoletano, ci si rivolgerà di nuovo alla Chiesa come a garanzia del senso morale, necessario per mantenere l’ordine e governare. Ma quello che a noi interessa è rilevare come anche il cardinale non tenne conto della disapprovazione del papa e continuò nella sua opera di governo e di socialità. Il “cardinale”, cioè, cavalcava i tempi: le sfide che questi gli presentavano, erano per lui non sorgenti di paure e fughe, ma occasioni di lotta e di superamento. Citiamo da De Maio: “Nelle vicende che lo videro coinvolto, sempre da protagonista, il cardinale dimostrò saggezza ed equilibrio, ossia da uomo normale in armonia con la definizione datane da Freud – l’individuo normale è una persona in grado di amare e lavorare -. Nel caso del cardinale, – l’amare -, ovviamente, è l’equivalente di – amore -, che egli metteva in tutti i suoi progetti” (p. 23).

         Dopo questa “psicostoria” (p.10), l’impresa da Capo Pezzo a Napoli non può più apparire come un “raptus”, un caso fortuito, un colpo fortunato: il suo successo nella marcia politico-militare non è che l’esprimersi, poste le circostanze, di “valori” coerentemente costruiti in un’intera esistenza, a  partire dalle doti biologiche (cfr. pp.21-22). E, tra i valori, vi sono quelli della giustizia, dell’equità e della compassione. La prima è presente nei continui appelli ed interventi, perché ci si astenga da carneficine e da saccheggi; e perché, anche a tal fine, questi stessi uomini siano pagati regolarmente. La seconda genera la preoccupazione di creare una condizione di vita tollerabile nelle terre “liberate” (ridimensionamento del latifondo; abolizione dei dazi interni, provvedimenti per regolare la produzione e il commercio della seta: pp.33-34 e 57). La terza preordina il perdono ai “repubblicani” pentiti, fino a prevederne il rientro al servizio della monarchia (brani delle lettere al ministro Acton, riportate a pp. 32 e 52; sintesi di altre lettere allo stesso Acton, al re ed alla regina: pp. 50-2).

 E’ alla luce di questo “cristianesimo secondario”, ossia delle ricadute dei princìpi evangelici sui rapporti sociali, che egli poté trovare le parole giuste al momento giusto per infervorare, trascinare e condurre alla vittoria i contadini calabresi. De Maio sottolinea giustamente le geniali intuizioni presenti nel “proclama di Palmi”. Anzitutto, in due parole, la riabilitazione dei popolani dal marchio di briganti e peggio (“crocifissori di Cristo”, secondo la leggenda che calabresi fossero i soldati assegnati, il venerdì santo, alla tragedia del Calvario): egli si rivolge loro come ai “bravi e coraggiosi calabresi”. In secondo luogo, il richiamo di tutti gli ideali più sentiti dall’uomo preilluminista: religione e monarchia, Dio e re, Chiesa e famiglia. Infine si rivela la praticità dell’organizzatore: come segnale del proprio partito, egli stabilisce una ben visibile croce bianca, ritagliata in stoffa, cucita sul vestito. Egli creava l’esercito della “santa fede”, con un’icona inconfondibile, impegnativa, nobilitante: anche confortatrice in casi di ferite o di morte.

Ma gli eccidi di Crotone?  E il saccheggio di Altamura? A Crotone il “cardinale” non era presente il 22 marzo, quando la città venne inaspettatamente consegnata, in seguito al tradimento della guarnigione interna: vi accorse il 26, appena seppe del comportamento delle sue truppe; e fece cessare la carneficina. Altamura non volle arrendersi e fu sottoposta a regolare saccheggio: ma il “cardinale” riuscì a salvare la gente (stabilì una porta della città come sicura uscita per gli abitanti); anzi, del bottino, fece restituire i mobili e le masserizie più vistose. Tanto che, a Catanzaro, dove i cittadini si sollevarono contro i giacobini prima dell’occupazione della città, le truppe del “cardinale” furono invitate dentro dagli stessi repubblicani, per evitare vendette ed eccessi da parte degli esasperati e scatenati monarchici. D’altronde egli   era troppo cosciente che i “suoi” uomini erano quelli da cui dipendeva la riuscita dell’impresa: e doveva tollerare, quando non poteva frenare. Lo seppe troppo bene, non appena la Calabria fu liberata del tutto: molti dei capibriganti che l’avevano seguito se ne andarono, soddisfatti  del loro bottino. Per rifare la propria “Armata Cristiana e Reale”, egli dovette attendere a lungo: solo alla fine di aprile poté pervenire alla liberazione della Basilicata…

         E, sulla scorta di Domenico De Maio e di Giovanni Ruffo, si potrebbe continuare a mettere le fondamenta per una ricostruzione in positivo dell’opera del cardinal Fabrizio, fino a fondare la grandezza dell’uomo, più che sulla riuscita effimera della “riconquista”, nel suo sforzo per una maggiore giustizia sociale e, forse, nel suo sogno di una monarchia costituzionale (pp.52 e 69).

         A favore di una sua rivalutazione stanno non soltanto le sue lettere e le “Memorie economiche” (pp.50 e 66), ma anche una palinodia di Benedetto Croce, parallela a quella che gli toccò di scrivere a proposito dei “Promessi Sposi”. Convinto che ogni forma di letteratura finalizzata a scopi morali si escludesse automaticamente dalla perfezione artistica, egli pubblicò una stroncatura del romanzo manzoniano nel 1926 (ora in “Conversazioni critiche”, III, 247-256). Ma, a pochi mesi dalla morte, fece riparazione riconoscendo la sublimità estetica del capolavoro e attribuendo l’errore ad una insufficiente riflessione (“Lo spettatore italiano”, marzo 1952). Ebbene, anche a riguardo del nostro personaggio, nel 1897 (“La rivoluzione napoletana del 1799”, Bari, Laterza) egli ebbe a dare un giudizio sprezzante, definendolo “docile strumento nelle mani di quei due esseri inferiori”. Ma, pubblicando “La riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del Re, della Regina e del ministro Acton”(ivi, 1943), egli elogia il “cardinale” in questi termini: “Il personaggio che nella lettura di questo carteggio spicca ai nostri occhi è lui, Fabrizio Ruffo, che pensa e opera e, con calma risolutezza, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli, giunge al segno che si era prefisso… A siffatti propositi (di vendetta, da parte del re e della regina) il Ruffo, pur nel mezzo delle sue cure e dei suoi affanni, opponeva chiaramente e fermamente, fin dal primo delinearsi del felice andamento della sua impresa, il diverso sentimento suo e il diverso suo pensiero e la diversa sua pratica: cioè, che invece di punizioni o restringendo a pochi casi le punizioni, fosse da adoperare larga clemenza e indulgenza…” E cita dalla lettera all’Acton questa riflessione sulla condizione tormentata del suo spirito: “E’ certo che il caso di far guerra e temere la rovina del nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. C’è molto da ridire sulla religiosità del “cardinale” (e il prof. De Maio è piuttosto sulla negativa: cfr. p. 24 “egli non fu uomo di Chiesa, anche se certamente fu uomo della Chiesa”; anzi, “Il cardinale…forse non era nemmeno religioso” p. 23), ma una cosa ci sembra certa: il sentirsi angosciato per la salvezza del nemico, che pur si è costretti a combattere, non è sentimento che  si riesca a trovare espresso fuori del Vangelo e della fede  che vi si riferisce: è un “proprium” della civiltà cristiana.

         Ma, qualunque sia stato il peso dell’educazione nel far maturare il suo temperamento (innato) in carattere (liberamente forgiato), pare di dover proprio assentire con De Maio quando conclude (p. 38) che la sua eccezionale personalità e le sue opere eccezionali “giustificano in pieno il prestigio di cui il cardinale godette dopo”: sia presso il re Ferdinando, che presso Napoleone, che presso il papa. A Napoli fu fatto ambasciatore presso la S. Sede e Consigliere di Stato; a Roma Pio VII gli affidò la soprintendenza alla Deputazione dell’annona e della grascia e lo nominò in due diverse occasioni membro della congregazione economica ; Napoleone  lo volle presente al suo matrimonio con Maria Luisa, nel 1810 e gli conferì la Legion d’onore nel 1813.

Perché gli storiografi posteriori non sono unanimi nel giudizio di lode ad un personaggio così eccezionale? Cedano alfine i pregiudizi alla verità dei fatti.        

                                                                           don Marcello De Grandi.

[1] Giovanni Ruffo e Domenico De Maio- Il cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia- Rubbettino- 88049- Soveria Mannelli, 1999, pp.118, Lire 18.000.

[2] Ma chi aveva preordinato il curricolo della sua vita? In che misura egli lo faceva proprio? Anche nelle dimensioni religiose? Forse la domanda non ha molto senso per lui: l’obbedienza ai genitori era allora non solo un comandamento di Dio, ma un mito sociale, almeno in certe classi nobiliari (i Ruffo, non si dimentichi, erano prìncipi): implicava anche la scelta dello stato, nonostante le precauzioni in contrario della Chiesa. E, poi, in un parentado che fra il 1706 ed il 1891 poté vedere eletti al cardinalato altri quattro membri, l’ambizione di Fabrizio alla carriera ecclesiastica poteva parere cosa appetibile e degna,  senza per questo escludere nè includere necessariamente la fede. D’altra parte, questa, era un’eredità ovvia nell’ambiente in cui era cresciuto, sia di famiglia che nel contatto con il precettore romano e nel collegio Clementino dove, ad un certo punto,  anch’egli si iscrisse come lo zio, per gli studi teologici: era la scuola dove si formavano i diplomatici e  i candidati alle alte cariche ecclesiastiche, anche attraverso gli studi di teologia dogmatica e morale. Ma l’aver rifiutato il sacerdozio per tutta la vita, fa del nostro “cardinale” un enigma su questo punto. Almeno fino ad un certo segno. Angelo Braschi si fece ordinare sacerdote solo a quarantuno anni, quando già da tre era canonico maggiore di San Pietro. E, cardinale dell’ordine dei preti, fu consacrato vescovo dopo la nomina a papa. Consalvi, il segretario di Stato di Pio VII, non fu mai sacerdote, ma seppe rispondere a Napoleone che non si illudesse di riuscire a distruggere lui la Chiesa, visto che non c’era riuscito il clero in diciotto secoli!  

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1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

Posted by on Ott 29, 2019

1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

1. Appunti di storia dell’Insorgenza / 9

Pubblichiamo la trascrizione — rivista dall’autore e annotata redazionalmente — dei due interventi che Francesco Pappalardo ha svolto in occasione della tavola rotonda 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell’identità del 27 marzo 1999 a Milano, di cui riportiamo più sotto una breve cronaca.

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Ancora sulla Eleonora de Fonseca Pimentel

Posted by on Ott 25, 2019

Ancora sulla Eleonora de Fonseca Pimentel

Riprendendo il discorso sulla de Fonseca, vorrei partire da un’affermazione fatta dalla Urgnani – estimatrice della marchesa – nell’introduzione del suo libro. L’autrice, muovendosi sempre nell’alveo della consolidata tradizione storiografica scritta prima dai giacobini e poi dai loro eredi spirituali, definisce il lavoro dei revisionisti “ambigue riletture” tendenti “a stravolgere il senso di quel passato che ha portato all’unità d’Italia”. Già l’uso dell’aggettivo “ambigue ” per definire le ricerche degli storici revisionisti può dare un’idea di come verranno affrontati e discussi sia il personaggio de Fonseca che il suo contributo alle vicende ed alla situazione storica e socio – politica di quella che diverrà, di nome e di fatto, Repubblica Italiana. Dato il taglio dell’opera, la sua pubblicazione non poteva non essere sponsorizzata che dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a cui va la riconoscenza dell’autrice, e “in particolare, a Gerardo Marotta, che stanziando una modesta ma significativa somma a titolo di borsa di studio, hanno permesso di portare a temine questo progetto, al quale altre fonti avevano già negato il necessario supporto istituzionale” . A riprova di come vengano rigorosamente seguite le direttive impartite agli storici allineati, salta subito agli occhi il ricorso ad una comune terminologia per definire lo stesso argomento. Nel 1998, infatti, la Urgnani , per l’azione di revisione, ricorse al verbo “stravolgere”, e la Presidente della Società Napoletana di Storia Patria, dottoressa Renata De Lorenzo , nel 1999, adopera proprio lo stesso verbo in occasione dell’ annunciata rimozione del busto di Cialdini dalla Camera di Commercio di Napoli: << … La Società Napoletana di Storia Patria, cui competono anche i pareri sulla toponomastica, si esprime contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico …>> . Questa visione revisionista del passato che “stravolgerebbe” il portato simbolico si permette di ravvisare in Cialdini un criminale di guerra mentre, secondo la visione della storiografia di regime, essendo gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni solo “presunti” (sic), la responsabilità di Cialdini sarebbe tutta da dimostrare. Ma ritorniamo adesso al personaggio de Fonseca per vedere quale contributo essa ha potuto apportare o ha apportato alla storia ed alla situazione socio – politica dell’Italia. Ovviamente, parlando di “contributo” (derivante da cum + tribuere), non ci si può esimere dal prendere in considerazione il significato del termine, il quale sta a indicare la partecipazione di una persona, con opere, consigli o danaro, per rendere realizzabile un’idea o un’impresa. Della Pimentel analizziamo, quindi, gli eventuali influssi che la sua opera di letterata prima e di giornalista poi hanno avuto sugli avvenimenti di fine ‘700 nel Regno delle Due Sicilie. A seguito di una serie di disavventure personali, tra cui un matrimonio mal riuscito, che fu per la nostra non causa di gioia e felicità, quanto piuttosto di dolori e di tragedie (come la morte di un figlio, a seguito di un aborto generato presumibilmente dai maltrattamenti del marito), la “tirannica”, “oscurantista” e “retrograda” Corte borbonica le offrì non solo un impiego retribuito come curatrice della biblioteca della regina, ma anche un sussidio mensile, in considerazione del suo stato di indigenza seguito al fallimento del matrimonio ed alle spese del lungo processo di separazione intentato dal padre. Per opportuna conoscenza, l’assegno concessole in data 6 agosto 1785 non le fu sospeso neanche quando perdette il posto di curatrice della biblioteca della regina né perdette l’altro assegno, quando, sospettata di tramare contro la Corte, fu rinchiusa nelle carceri della Vicaria, come attestato dalla stessa Urgnani . Questo per dimostrare quanto “insensibili” e “tirannici” fossero i Borbone! Nel periodo della frequentazione degli ambienti di corte, fra la “poetessa arcade” e i sovrani fu un ininterrotto idillio costellato da una lunga serie di sonetti, cantate e poemi in ottave per celebrare, da buona cortigiana, tutto quello che riguardava i sovrani, il loro modo di vivere, il loro rapporto con il popolo, il loro modo di governare, ecc. Fermiamoci qui per il momento e facciamo alcune considerazioni. Dal 1760, anno del trasferimento a Napoli, al 1799, chi era la “vera” de Fonseca : la poetessa di corte o quella del sonetto “Rediviva Poppea “? In entrambi i casi, a parte l’indiscutibile bagaglio culturale di cui la de Fonseca era portatrice, ci troveremo di fronte ad un soggetto la cui grandezza storica ha molti punti in comune con quella dell’”eroe dei due mondi”, del “re gentiluomo”, del “grande statista”, ecc. ai quali è stato assegnato un posto di rilievo nei libri di storia ed un’eco imperitura nella memoria collettiva. Se infatti i sentimenti e lo spirito con cui sono stati composti i numerosissimi versi scritti, come detto, per tutte le occasioni relative ai sovrani sono quelli della de Fonseca di “ Rediviva Poppea ”, ci troviamo di fronte ad una persona fondamentalmente ipocrita e falsa e quindi senza alcun titolo per poter aspirare ad essere inserita nel “Pantheon dei martiri” o nell’Albo d’oro degli eroi. Se invece, a parte le iperboli proprie della poesia encomiastica, i sentimenti espressi sono veri, allora ci troviamo di fronte ad una persona ingrata e incoerente per la quale un sovrano che le ha permesso di condurre una vita all’altezza del suo rango, prima è “Legislator dei Popoli suggetti” e “di Regal genio acceso”, “Vindice … e difensor del giusto”,e subito dopo diventa “imbecille tiranno”. Anche in questo secondo caso l’ ingratitudine e l’incoerenza non costituiscono, certo, titoli di merito, specialmente se , del personaggio, vogliamo analizzare l’aspetto giornalistico e i suoi eventuali influssi politici, in considerazione del ruolo di “opinion maker” connesso all’attività divulgativa esercitata attraverso un organo di stampa. Da quanto sappiamo dal Sacchinelli , proprio nella sua veste di maggiore responsabile del Monitore, la de Fonseca non brillò di coerenza, e, pur di non far affievolire o addirittura estinguere nell’animo dei colleghi repubblicani lo spirito rivoluzionario, inventava notizie di sana pianta, notizie che puntigliosamente il Sacchinelli si prende la briga di contestare, come quella relativa allo sbarco dei russi a Manfredonia, fatti diventare servi di pena vestiti con divise dell’esercito russo(pag. 199 par. 124 op. cit.), notizia smentita sul campo, quando – a proposito della battaglia di Resina – “… Allora gli uffiziali Russi ordinarono la carica alla baionetta, e lo stesso a loro imitazione fecero gli uffiziali di de Sectis; ma il conflitto finì prima di cominciare, perché i soldati del vecchio Regio esercito, che erano coi repubblicani, vedendo gli antichi loro compagni d’armi e i veri soldati russi e non già forzati, come aveva pubblicato il Monitore della Pimentel, posarono i fucili a terra e si dichiararono prigionieri”.(Ib. Pag. 227) Queste sono le persone che una storiografia ormai incallita si ostina a presentare come “eroi” e “martiri”, ricorrendo anche ad una prosa ricercata come un abito su misura, che definisce “aristocratiche patriote” le “donne di testa”, amiche dei salotti culturali, ancorché vestite da uomo, con i capelli corti e la camicia “alla ghigliottina”, mentre le donne dei “briganti” verranno spregevolmente definite dagli epigoni “drude”, come se non avessero combattuto anch’esse per riprendersi terre, averi, tradizioni, cultura e memoria proditoriamente sottratti.

Castrese Lucio Schiano

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