Posted by altaterradilavoro on Ott 19, 2019
1. PREMESSA
Fra i numerosi
saccheggi effettuati dalle truppe francesi all’isola d’Elba, uno dei più
ingiustificati ed efferati fu quello perpetrato nella cittadina di Capoliveri,
nella parte meridionale orientale dell’isola
Le radici cristiane dell’isola d’Elba risalgono all’apostolo della sua «prima evangelizzazione» san Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del VI secolo (2); la chiesa di San Michele di Capoliveri è citata in scritti dell’inizio del XIII secolo; che poi il cristianesimo vi avesse attecchito in modo fecondo è dimostrato, fra gli altri, da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si verificò una grande siccità: «Piove pochissimo nell’autunno; passa tutto l’inverno e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e perfino le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina assistenza. Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che fu il 27 marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il dì 5 d’aprile si portò processionalmente detta immagine e il dì 11 il simulacro di Cristo morto da preti scalzi, ma invano. Il dì 12 il popolo va processionalmente al Santuario della Vergine di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il clero scalzo, ma invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e accortosi che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità il quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione popolare, i fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne, la confraternita del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario, entrano scalzi sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al collo e una corona di spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta per undici giorni la sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia […] muovono a visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e della Marina di Longone e di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti alla foggia di pellegrini con cappa e bordone e altri non pochi scalzi con corone di spine in capo e una corda al collo» (3).
D’altro canto, pochi anni prima, nel 1735, si trovava a
Capoliveri san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei padri passionisti, «[…]
a dare le missioni» (4). Il santo visitò più volte l’Isola
d’Elba, dove voleva stabilire la sede dell’ordine da lui fondato, ma «[…]
nel 1730 si vide respinta una richiesta intesa ad ottenere il santuario
della Madonna delle Grazie ed allo stesso modo, successivamente, gli fu negato
di ritirarsi con i suoi confratelli nel santuario della Madonna di Monserrato
di Porto Longone» (5).
2. IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI
L’episodio narrato di seguito conferma che la storia è sempre
scritta dai vincitori, e che, spesso, non è rispettato nella ricostruzione il
criterio di verità circa gli accadimenti. Nel nostro caso, quanto è stato
trasferito dalla «storiografia ufficiale» , è che il saccheggio di Capoliveri
abbia costituito una giusta rappresaglia, a seguito di gravi provocazioni ed
attacchi operati dagli abitanti contro i francesi (6). A questo
proposito, si deve tenere presente, che, mentre a Portoferraio regnava il
Granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena (1769-1824), e Porto Longone,
l’attuale Porto Azzurro, era sotto il dominio della casa di Borbone, l’isola
nella sua restante parte — che comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe —
apparteneva ai nobili Appiani, signori di Piombino — sulla costa toscana di
fronte all’isola —, che erano alleati della Francia. La cittadina, quindi, non
avrebbe dovuto essere ostile ai francesi.
Ancora, occorre ricordare che Giuseppe Ninci, giacobino di
Portoferraio, autore di una nota Storia dell’Elba (7), fu parte
attiva nel tentativo di imporre la Repubblica nell’isola, tanto che, quando la
guarnigione granducale di Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione
della piazzaforte, l’ultima rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel marzo
1799, fu lo stesso Ninci a essere protagonista degli eventi. Nella sua storia
egli infatti racconta che «[…] fortunatamente lo scrittore della
presente opera, trovandosi a diporto sul molo, sentì, con raccapriccio ed
orrore le minacce di quegli empi [i difensori della piazza].Egli volò ad
avvertire i capi guardia [degli assedianti] dei posti indicati, affinché
si ponessero a difesa» (8). Autore di parte, dunque, che l’altro
storico dell’Elba, Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (9) conferma abbia
partecipato alle trattative fra i rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto
al momento della consegna della lettera «[…] con cui si ordinava
alla municipalità di Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e
somministrare alle truppe di quella Repubblica tutti i soccorsi possibili» (10).
Il cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera,
a Capoliveri, Ninci fosse presente: «[…] vuolsi che fra detti
emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci» (11).
Ma la posizione di attesa dei capoliveresi ha termine proprio in questo momento. Si ignora «[…] ciò che riposero gli anziani, sappiamo solamente che gli emissari mandati allo scopo di democratizzare i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza invincibile alle nuove idee; e, corse offese da una parte e dall’altra, andarono debitori alla velocità delle gambe, della salvezza delle loro spalle» (12).
3. LA RICOSTRUZIONE «UFFICIALE» DI GIUSEPPE NINCI
Lo storico filo-giacobino racconta che, quando scoppiò il
conflitto fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel 1799, nel corso
dell’assedio stretto dai francesi alla piazza napoletana di Porto Longone,
nell’aprile dello stesso anno, i capoliveresi «[…] passati ai campi
francesi, invitarono gli assedianti di portarsi a Capoliveri per
approvisionarsi, e che, per contrario, massacrarono. Il tradimento di questi,
però, non andiede impunito; imperciocchè il generale Miolis [sic],
passato da Livorno a Portoferraio e che comandava le forze francesi nell’Elba,
spedì il giorno appresso [9 aprile] a Capoliveri un mezzo battaglione di
fanteria, con l’ordine di saccheggiare quella terra, e passare a fil di spada chi
si fosse opposto con le armi in mano» (13). Nel mese seguente,
perdurando l’assedio di Porto Longone, la situazione ebbe un’evoluzione, nel
senso che i francesi tentarono di pacificare gl’«insurgenti» (14),
anche perché, dalle altre parti dell’isola, si erano manifestati
contemporaneamente altri focolai di contro-rivoluzione, che rischiavano di
mettere in difficoltà i giacobini.
In un primo tempo, i capoliveresi, rispetto agli altri moti
reattivi, si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe Ninci, «[…] non
fu però, che i capoliveresi mancassero di maleanimo contro i francesi, ma solo
non si mossero per non troppo arrischiare alla scoperta, imperocché, armatisi i
medesimi, e ben postati alle finestre delle loro abitazioni, riceverono a colpi
di fucile un picchetto francese, che ai loro nuovi inviti si era portato ad
approvvisionarsi a Capoliveri. Questo secondo, non men del primo marcato
tradimento per parte dei capoliveresi, meritossi la giusta vendetta delle
truppe francesi. Queste la fecero di fatti, imperciocché la mattina del dì
seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri, e circondatolo in un momento,
vi entrarono a baionetta in canna, ponendo a morte tutti quei che si vollero
opporre, e dando un sacco generale a quella terra non senza attaccare il fuoco»
(15).
4. LA VERITA’ STORICA RISTABILITA DA VINCENZO MELLINI PONÇE
DE LEON
Il maggiore storico elbano ricostruisce la vicenda in altri
termini, partendo dal fatto che Capoliveri nell’aprile del 1799 fu occupata da
un presidio di circa 60 francesi, sloggiato successivamente, nel maggio, dai
soldati napoletani di Porto Longone. Questi uomini, fuggiti da Capoliveri, si
unirono alla colonna francese inviata contro Capoliveri con l’ordine del
comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e a fuoco e di ritirarsi
successivamente a Portoferraio: «[…] quell’orda di feroci predoni
più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a quel castello; lo
investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese gli abitanti che dormivano
quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro pensavano che dar piglio alle
loro armi che non avevano, ed a scontare con il sangue le strette di mano
scambiate con loro compatrioti a servizio di Napoli, e vi cominciò un sacco
così tremendo, da far dimenticare l’altro del 6 di aprile che durò dal giovedì
notte a tutto il lunedì veniente […]. Sacerdoti, vecchi, donne, e
fanciulli, massacrati, donne violate nelle pubbliche vie e persino in chiesa,
bambine stuprate, chiese profanate, oggetti consacrati al culto,
sacrilegalmente rotti, rubati; immagini sacre guaste e deturpate; case
completamente svaligiate; mobili preziosi a calciate di fucili infranti; quadri
di famiglia sciabolati; botti di vino, a spillarle a colpi di fucile, forate,
lasciandone scorrere il liquido per le cantine, per le vie; orgia dovunque; e
il paese ridotto prima ad un pianto, poscia ad un deserto. Non mancò che il
fuoco a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo» (16).
Fra gli episodi più raccapriccianti c’è la morte, il 23 maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica famiglia capoliverese, da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a colpi di arma da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i violatori delle donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17). Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è delineato da un episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri e dell’Isola d’Elba in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio dell’antichissimo municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi Bracci, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano, temendo la loro ferocia, «[…] tolse i libri e le filze di maggior interesse dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico alla Chiesa Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli uomini. Vi si calò dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò la lapide che la chiudeva» (18). Poco dopo, la Chiesa fu invasa da donne, vecchi, e fanciulli che cercavano scampo pensando che la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i francesi, che invece li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il Bracci, non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la curiosità delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la scoperchiarono e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito, scambiandolo per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E, non trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono e bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di calcio di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della chiesa. L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre e saccheggi nei secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.
5. CONCLUSIONI
Amore di verità impone di
stigmatizzare le menzogne che vengano lapidariamente consacrate dai canali
della storiografia ufficiale, anche se si tratta di piccoli episodi della vita
quotidiana, di cui pure la storia si compone. Grazie a Dio, spesso la grossolanità
delle bugie nel racconto storico è tale da trasparire e da fare scoprire di suo
l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico filo-giacobino, e
giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile imbroglio, quando omette
di citare la presenza dei francesi in presidio a Capoliveri dal 6 aprile, e
omette altresì di menzionare la data del saccheggio del 22 maggio, giorno del
Corpus Domini, che lasciò gli abitanti senza alcuna difesa, prostrati dal
dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente afferma che l’inazione dei
capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur sapendo gli stessi, che i
napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni territorialmente vicine.
Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella descrizione del saccheggio e
della strage, che secondo lui avvenne in pieno giorno, così che la popolazione
avrebbe potuto respingere l’attacco, mentre in realtà l’assalto fu
proditoriamente effettuato nella notte del 22 maggio, quando i capoliveresi
giacevano nel sonno. Da ultimo, il fantomatico invito rivolto dai capoliveresi
ai francesi — appena scacciati o ancora di presidio! — di andare ad
approvvigionarsi presso gli assediati, per poi aggredirli con fucili di cui già
non disponevano più a causa del saccheggio subito. Non è chi non veda una
profonda ingenuità, assai poco probabile, da parte dei francesi che sarebbero
di certo caduti in un agguato, dal momento che il contrasto infuriava in quei
giorni tra l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i contemporanei dei fatti,
come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano in due categorie:
coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli ai propri
principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie, e chi, come certi
storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione, si fa corifeo
del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso contrario, lo
sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle baionette
straniere.
Benedetto Tusa
Note
(1) Situata
sopra un monte spianato in vetta ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è
posta nella parte sud ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da
adoratori «libertini” del dio Bacco, «Caput Liberum» era abitata da
una popolazione con marcati caratteri di autonomia, la cui istituzione più
eminente nei secoli è stata il «consiglio degli anziani» , organismo di governo
con forti poteri legislativi e deliberativi.
(2) L’esistenza storica di San Cerbone non è del tutto certa; cfr. Piero
Bargellini, Mille Santi al giorno, Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p.
567.
(3) Cfr. Vincenzo Mellini Ponçe de Leon, Delle memorie storiche dell’Isola
d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di
Gianfranco Vanagolli, Le Opere e i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93.
(4) Cfr. ibid., p. 77.
(5) Cfr. ibidem, ex archivio Mellini Ponçe de Leon, cit. in
Enrico Lombardi, Santuario della Madonna del Monte di Marciana nell’Isola
d’Elba, a cura dell’Opera del Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77,
nota 125; cfr. anche Idem, Vita Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana,
Brescia 1957, pp. 51-52, e A. Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola
d’Elba, in Corriere Elbano, 10-9-1975 e 20-9-1975.
(6) Per il quadro generale della situazione elbana nel 1799, cfr. 1799:
l’Insurrezione popolare contro-rivoluzionaria dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota
Informativa, anno II, n. 5, gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.
(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia dell’Isola d’Elba, Portoferraio
(Livorno) 1815, rist. anast., Forni, Bologna 1968.
(8) Ibid., pp. 215-216.
(9) Maggiore storico dell’Isola, nacque a Marina di Rio, nel 1819; il padre,
Giacomo, era stato un ufficiale al seguito di Napoleone. Laureato in
giurisprudenza e in scienze naturali, rinunciò alla carriera universitaria per
vivere sulla sua isola e studiarne la storia e le tradizioni. Fu anche sindaco
del suo paese natale e direttore delle miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza
però smettere di esplorare archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul
periodo del triennio giacobino (1796-1799) è il quinto libro — intitolato I
francesi all’Elba —, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a
Livorno nel 1897. Per una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V.
Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. VIII-IX, da cui sono state
tratte anche le seguenti notizie. Cfr. anche Alessandro Canestrelli, Elba,
un’isola nella storia, Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa (Pisa) 1998,
pp. 20-23.
(10) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., p. 33.
(11) Ibid., p. 38, nota 32.
(12) Ibid., p. 33.
(13) G. Ninci, op. cit., p. 217.
(14) Ibid., p. 219.
(15) Ibid., p. 220.
(16) V. Mellini Ponçe de Leon, op.
cit., pp. 171-172.
(17) Ibid., p. 172.
(18) Ibid., p. 173.
sto
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Posted by altaterradilavoro on Ott 12, 2019
Il cardinale Fabrizio Ruffo di
Bagnara nella storia
Premessa
Dieci anni or sono (1995) avevo
scritto per la rivista “Calabria letteraria” l’articolo che riporto, al quale
ora ho apportato alcuni aggiornamenti, alla luce di nuove acquisizioni.
Negli anni scorsi ero stato
stimolato dal compianto Direttore Frangella a rivedere ed aggiornare
l’articolo, che a lui era piaciuto.
Il Direttore Frangella non è più tra
noi ed io penso di onorare la sua memoria
seguendo il consiglio che tanti anni
fa mi aveva dato.
Propongo l’articolo aggiornato al
nuovo Direttore Franco Del Buono, assieme all’augurio di sereno e buon lavoro.
Egli è certamente degno del suo illustre predecessore.
Tra appena un lustro saranno
duecento anni che Fabrizio Ruffo di Bagnara, Cardinale dell’ordine dei Diaconi
di Santa Romana Chiesa, attende dalla storia un atto di giustizia: liberare
definitivamente dalle menzogne e dalle partigiane montature – in ogni tempo
suggerite ed alimentate dal clima politico del momento o influenzate
dall’ambiente dal quale provenivano – che fecero di lui un capo di bande brigantesche
che, ottenuta la capitolazione di Napoli, affogò nel sangue l’ultimo anelito di
libertà dei patrioti repubblicani.
Giusta o ingiusta che fosse la sua
causa, Egli ha questo diritto.
In verità la storia lo ha da tempo
riabilitato! Tuttavia c’è ancora, nel mondo della cultura, chi non ha accettato
quella riabilitazione e, nel giudicarlo, quasi fossero Vangelo, continua ad
ispirarsi agli scritti del Cuoco, del Botta, del Colletta. Questi Autori che,
nello scrivere anche di storia non seppero superare le emozioni derivanti dalla
loro condizione di contemporanei ed attori, appartenenti alla fazione dei
soccombenti, dissero del Cardinale le cose più infamanti. Oggi, che la
consultazione di archivi è possibile anche con scarso impegno, risulta facile, a
chi non accetti la riabilitazione operata dagli storici nostrani e stranieri,
effettuare specifiche ricerche e riaprire il processo, nel caso di nuove
acquisizioni documentali storicamente attendibili.
Vincenzo Cuoco, studioso di
letteratura, filosofia ed economia, per avere aderito alla Repubblica fu
esiliato da Napoli. Durante la dominazione francese ritornò a Napoli nel 1806,
dove ricoprì alte cariche, che conservò anche dopo il ritorno dei Borbone.
Scrisse, tra l’altro (1800), “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana
del 1799”. Le falsità, le ingiurie, le atrocità che attribuì a Fabrizio
Ruffo trovano parziale spiegazione, ma non giustificazione, nella impossibilità
che ebbe di controllare le notizie che gli venivano riferite. D’altra parte la
difficoltà di comunicazione era tale che la notizia dei progressi della
spedizione Sanfedista giunse a Napoli soltanto quando quelle truppe furono
arrivate a Nola, come dire alle porte della Città! Lo scrisse lo stesso Cuoco a
pag. 263 della seconda edizione di quel suo libro (1806), nel quale, ammettendo
di avere scritto basandosi soltanto sui propri ricordi, non poté fare a meno di
rivedere alcune sue precedenti asserzioni, limitatamente,
però, a taluni avvenimenti.
Carlo Botta, piemontese, era un
medico militare al seguito delle armate francesi. Fu uomo politico ed autore di
tre opere storiche. In una di queste: “Storia d’Italia dal 1789 al
1814”, non seppe fare di meglio che unirsi ai faziosi nel coro di
calunniose bugie, alle quali quei contemporanei del Cardinale ricorsero,
scrivendo dell’impresa di questi. Questo libro, a parere degli storici, risente
negativamente della mancanza di diretta informazione ed è privo di giudizio
critico. In esso il Botta riportò alla parola quanto scritto dal Cuoco.
Pietro Colletta, fu Generale
dell’esercito napoletano. Nel ’99 aderì alla repubblica, ma restaurata la
Monarchia ritornò al servizio dei Borbone. Passò a servire i Francesi, nel
decennio del loro dominio sul Regno di Napoli. Durante tale periodo fu, tra
l’altro, giudice di famose cause politiche. Egli, nella sua “Storia del
Reame di Napoli” -opera invero universalmente riconosciuta non solo di
parte ma anche di scarso valore scientifico-, a conferma della sua animosità e
prevenzione, presenta Fabrizio Ruffo con parole addirittura diffamatorie,
ingiuriose e menzognere. Ne scrisse in questi termini:
“Fabrizio Ruffo, nato di nobile
ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato
in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne’ suoi
verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio
VI, dal quale ebbe impiego supremo nella Camera pontificia; ma, per troppi e
subiti guadagni perduto ufficio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando
in Roma potenti amici, acquistati, come in città corrotta, co’ i doni e i
blandimenti della fortuna”.
Di parere diverso dal Colletta e
dagli altri due autori sopra menzionati, furono altri napoletani, scrupolosi
studiosi di storia di quei tempi, quali Benedetto Croce, Raffaele Palumbo,
Benedetto Maresca, i quali lumeggiarono e collocarono al giusto posto eventi e
personaggi del dramma che insanguinò Napoli alla fine del XVIII secolo.
Ma come nacque e chi fu veramente
Fabrizio Cardinale Ruffo?
Egli appartenne ad un ramo
dell’antichissima Casa dei Ruffo di Calabria: a quello dei duchi di Baranello e
principi di S. Antimo, diventati proprio nel ‘99 duchi di Bagnara, per
estinzione del ramo principale.
Fabrizio Ruffo nacque a San Lucido,
baronia della sua famiglia, il 16 settembre 1744 dal duca Letterio e da
Giustina Colonna, principessa di Spinoso, marchesa di Guardia Perticara e
signora di Accetturo e Gorgoglione.
Dovendo dare notizie sull’educazione
ricevuta dal bambino Fabrizio, ritengo utile riportare quanto scrisse, dieci
anni dopo la morte del Cardinale, l’Abate Domenico Sacchinelli in “Memorie
storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo”, poiché egli riportò un
episodio che potrà poi spiegare l’interesse che, il Papa Pio VI, ebbe per Fabrizio
Cardinale: “Non ancora aveva compiti quattro anni quando fu portato in
Roma per essere ivi educato sotto gli auspici del di lui zio (in verità era suo
prozio, essendo fratello del suo avo Paolo) Cardinal Tommaso Ruffo, Decano
allora del Sacro Collegio. Trovavasi nella Corte di quel Porporato, in qualità
di uditore, il Prelato Giovanni Angelo Braschi di Cesena, il quale per far
carezze al piccolo Fabrizio il prese a farlo sedere sulle sue ginocchia. Volea
Fabrizio giocare con la bella chioma di Braschi: tentò più fiate di svolgerne
gli inanellati capelli, ma venne sempre con diligenza impedito; infastidito
finalmente di quell’ostacolo superiore alle sue forze, colla sua mano bambina
gli tirò una guanciata, della quale occorrerà parlare.
Le amorevoli cure del Cardinal
Tommaso per l’educazione e studi di Fabrizio, non furono senza grande effetto.
Superò Egli di molto l’aspettativa che si avea de’ suoi sublimi talenti; e
nell’età ancor giovanile, avea già acquistato fama di molto sapere nelle
scienze filosofiche, e specialmente nelle fisiche ed in quelle di economia
pubblica; e perciò gran nome lasciò di sé nell’illustre Collegio Clementino, in
cui passò più anni in qualità di alunno, ugualmente che ve li aveva passati il
di lui zio Cardinal Tommaso, soggetto degnissimo del Triregno, come lo chiama
ne’ i suoi annali il Muratori.
Salito Gio’ Angelo Braschi alla
Cattedra di S. Pietro col nome di Pio VI, non si era dimenticato della
guanciata ricevuta, e spesso, in aria di benevolenza, ne faceva menzione a
Fabrizio. Quella sovrana benevolenza non rimase inoperosa; poiché tanto per merito
personale di Fabrizio, quanto per la gratitudine alla memoria del Cardinal
Tommaso, il Santo Padre non tardò nominarlo prima a Chierico di Camera, ed indi
a Tesoriere generale di Roma, che era allora (sia detto per chi l’ignorasse) la
carica più cospicua, e la più importante della Stato Pontificio; perché in Roma
il Tesoriere avea quelle stesse attribuzioni, che negli altri regni sono divise
a’ ministri delle finanze, dell’interno, della guerra, e della marina”.
A proposito della nomina a
tesoriere, l’austriaco barone von Helfert, il quale con grande meticolosità
studiò e ricercò quanto era stato scritto sulla rivoluzione e controrivoluzione
del 1799, nel suo libro “Fabrizio Ruffo…” scrisse: “nella
quale carica il Ruffo non solamente attivò una quantità di provvedimenti utili
all’universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema di finanze
papali”. Ed ancora “Non mancò senza dubbio d’attirargli disfavore la
fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle
classi privilegiate era sdegnata contro di lui per avere diminuiti gli antichi
diritti feudali; i contrabbandieri l’odiavano e maledivano perché i nuovi
ordinamenti doganali sciupavano loro il mestiere […] Però la vastità delle
sue cognizioni era ammirabile; si hanno suoi scritti sulle fonti e condutture
d’acqua, sui costumi delle diverse specie di piccioni, sui movimenti delle
milizie, sull’equipaggiamento della cavalleria. I romani in complesso avevano
più ragione di essergli grati che di sbeffarlo; il suo nome è collegato a
istituzioni di cui dura ancor oggi la benefica efficacia. Nessuno poteva
attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anche gli avversari
dovevano rendergli giustizia, e confessare, che tutto quello a cui metteva le
mani sapeva con rara energia e con incontestata abilità condurlo a fine”.
L’avvedutezza e le capacità del
Tesoriere Ruffo furono tali che Papa Pio VI gli propose di trovar modo di
potenziare e di rendere economicamente attiva l’agricoltura nello Stato di
Castro e nel Ducato di Ronciglione. La riforma agraria attuata dal Ruffo portò
le rendite di quelle terre da 50200 scudi, che erano, a 67200. Ma furono
avvantaggiati soprattutto i contadini, ai quali erano state concesse le terre
in “Enfiteusi perpetua a linea mascolina, progressiva nei maschi
dell’ultima femmina di ciascun enfiteuta”. Il Papa ne fu così contento che
volle estendere quella riforma a tutto lo stato pontificio. Tali riforme, che
abolivano di fatto gli abusi feudali, venivano tanto più apprezzate in quanto
erano state concepite e messe in pratica da un Cardinale appartenente ad una
famiglia, tra le più illustri della nobiltà napoletana, ricca di feudi. La
riforma agraria e le possibilità di benessere che concesse ai contadini gli
inimicarono, per contro, la nobiltà feudale ed i grandi proprietari terrieri.
In ogni occasione comunque il senso che ebbe dello Stato e la consapevolezza
che un Ministro debba sempre operare al fine di tutelare il superiore interesse
della Nazione, gli diedero la forza di superare ogni considerazione
opportunistica ed il coraggio di opporsi a quanto riteneva ingiusto e di
ostacolo al bene comune. A questo proposito l’anonimo autore della
“Istoria della casa dei Ruffo” scriveva nel 1873: “… fu sì
popolare la sua fama che tuttavia lo si celebra per modello di tesoriere, per
grande economista, per uomo di magnanimi disegni e di opere grandiose e
benefiche”.
Come uomo la sua indole fu umana e generosa. Il Sacchinelli ed il von Helfert
riferiscono un episodio che conferma la sensibilità del suo animo. Visitando un
giorno i lavori idraulici per il prosciugamento delle Paludi Pontine ed
inoltrandosi da solo a caccia nella foresta, il Cardinale vide un lavoratore
colpito dalla malaria. Egli allora se lo caricò sulle spalle e lo portò per un
lungo tratto di sentiero sino alla sua carrozza. Lo condusse a Roma
all’Ospedale di Santo Spirito, dove lo fece curare a sue spese.
Scrisse il Colletta che il Cardinale
uscì ricco dall’incarico di Tesoriere! Il Sacchinelli non fu dello stesso
parere, poiché a sua volta scrisse: “Il disinteresse di Ruffo, e la sua
illibatezza nello esercizio della ricca carica di Tesoriere, ricordavano a Roma
gli antichi eroi della Storia. In quella carica stessa nella quale altri da
poveri divenivano in poco tempo ricchi, Egli in molti anni di esercizio non si
avea formato un peculio da poter supplire alle indispensabili spese del corredo
Cardinalizio. Gli convenne perciò prendere il denaro ad usura, ipotecando,
precedente Pontificio Chirografo, i beni della Prelatura Ruffo”. Von
Helfert non riferì a questo proposito cose
diverse: “Conferitogli nel
Concistoro del 29 settembre 1791 il cappello cardinalizio, il Ruffo lasciò il
suo posto di tesoriere, che aveva dato modo ai suoi predecessori di accumular
grandi ricchezze, e lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu mestieri di
contrarre un imprestito per coprire le prime spese alla sua novella
dignità”.
Debbo però rilevare un errore, in
questa affermazione di von Helfert. È vero che la nomina del Ruffo al
cardinalato risale alla data che questo autore cita (29 settembre 1791: era una
di quelle nomine che si definivano “in pectore”), ma è anche vero che essa fu
pubblicata soltanto il 21 febbraio 1794 e che il Ruffo esercitò la carica di
Tesoriere generale e le altre di cui era investito, anche negli anni ’92 e ’93
ed in parte del ’94. Ciò serve a chiara dimostrazione che il Pontefice non lo
fece Cardinale, come asserì il Colletta, per allontanarlo da Roma e dalla
carica di Tesoriere: quando lasciò gli incarichi di governo e Roma Fabrizio
Ruffo era Cardinale già da tre anni!
Resta da chiarire la nascita di
Fabrizio Ruffo da “nobile ma tristo seme” e l’essere stato egli
“ignorante di scienze e lettere “, come ha scritto Pietro Colletta.
Alla prima affermazione del
Colletta, rispose Alessandro Dumas: “La sua nascita adunque, come si
scorge, era non solo nobile ma illustre. Infatti vi è un proverbio italiano che
dice per accennare i principi della nobiltà nei vari paesi: Gli Apostoli in
Venezia, i Borboni in Francia, i Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli e i
Ruffo in Calabria. Ora si è visto che il cardinale era Ruffo pel padre e
Colonna per la madre”.
Tristo seme! Viene a me ora in mente
cosa scrissero gli storici su Fulcone Ruffo di Calabria, poeta e glorioso
soldato, carissimo a quel grande Imperatore che fu Federico II, o su Fabrizio
Ruffo Priore di Bagnara e Gran Priore di Capua, Capitan Generale dell’armata
Gerosolimitana, vincitore assieme a Morosini della battaglia di Candia, il
quale con perizia e grande valore salvò a Zoclaria, presso la Canea, il grosso
delle forze navali veneziane e francesi già sopraffatto dai turchi, o su
Gaetano Ruffo, anche egli poeta e luminosa figura di patriota che, anelando
l’unità d’Italia, bagnò del suo giovane sangue il suolo di Calabria, o, per
arrivare sino ai nostri tempi, cosa si scrisse su Fulco Ruffo di Calabria, il
“Cavaliere del cielo”, eroe e medaglia d’oro della guerra ’15-’18! Ma
il Generale Pietro Colletta non conosceva evidentemente la storia e non visse
tanto da conoscere il martirio di Gaetano e l’eroismo dell’ultimo Fulco!
Alla terza affermazione “ignorante di
scienze e lettere” risponde ai giorni nostri Mario Casaburi nella sua opera
biografica: Il “Cardinale Fabrizio Ruffo” (Rubbettino Editore).
Scrivendo degli studi del giovane
Fabrizio presso l’esclusivo Collegio Clementino, Casaburi ci dà queste notizie:
“[…] Sollecitavano i padri
nei discenti anche un sano spirito di emulazione. Era ritenuto molto utile
nelle varie classi per ogni mese “qualche saggio scolastico privato
o pubblico a ciò che tutti siano esercitati nel recitare et ogni scuola habbi
il suo honore per il profitto de’ scuolari”. Lingua d’uso per discenti e
maestri non poteva essere che il latino.
Era senza dubbio quello del Clementino
un ambiente congeniale al carattere di Fabrizio, che per ben dodici anni
assorbì con straordinaria efficacia tutto quanto gli veniva insegnato.
Il giovane superò in poco tempo il
comprensibile trauma iniziale, era già abituato a stare fuori casa, lontano da
genitori, fratelli e sorelle, e in poco tempo divenne un elemento di spicco, un
laeder, del Clementino, capace di imporsi su tutti e in grado di distinguersi
tra i suoi compagni per intelligenza, concretezza operativa e, soprattutto, per
il grande amore che nutriva per i classici latini e greci […]”.
Il Re Ferdinando IV, quando seppe il
Ruffo libero da incarichi presso la Corte Pontificia, lo invitò a trasferirsi a
Napoli, offrendogli l’Intendenza di Caserta e la ricca badia di Santa Sofia di
Benevento, dichiarata di regio patronato e per tale motivo contestata dal
governo pontificio. Ottenuta l’autorizzazione dal Papa, il Cardinale si
trasferì a Caserta e si dedicò alle fabbriche e manifatture di seta della
colonia di San Leucio, portandole in pochi anni ad un livello produttivo mai
raggiunto prima. Immerso nei suoi studi visse a Caserta sino al 1799, sognando
-o addirittura presagendo- futuri “tempi ed occasioni di azione”.
L’ultimo decennio del XVIII secolo
trovò il Regno di Napoli in una situazione economica disastrosa. Il commercio
era fermo, quasi paralizzata l’industria, oppressa da assurde e complicate
leggi l’agricoltura. I ceti più poveri erano super tassati, mentre erano
fiscalmente privilegiati i ceti più ricchi.
Da quando la Regina, l’austriaca
Maria Carolina, in virtù della nascita del Principe ereditario, era entrata a
far parte del Governo (era previsto nel contratto di matrimonio), il potere era
passato nelle sue mani ed in quelle del generale Acton, chiamato a Napoli dalla
Regina nel 1778. Il Re, più propenso ai piaceri che alle cure del Regno, che
aborriva, interveniva negli affari di Stato soltanto per avallare una
spregiudicata politica estera, che portò il Paese ad affrancarsi dalla tutela
spagnola, per cadere sotto l’influenza prima austriaca e poi degli inglesi, che
lo spinsero ad entrare in conflitto con la
Francia.
Ormai il Regno era completamente
nelle mani del cosiddetto “partito inglese”, essendo Acton Primo
Ministro, Lord Hamilton, ambasciatore inglese -la cui consorte godeva i favori
della Regina (e del Nelson)- e questo Ammiraglio, con la sua flotta, nel porto
di Napoli.
Nel 1793 l’esercito napoletano
contava 36 mila uomini -in verità per metà stranieri indisciplinati e poco
addestrati- e la marina 102 navi da guerra, di diverse classi, armate di 618
cannoni e con un equipaggio di 8600 marinai. Il 12 luglio di quell’anno il
Primo Ministro Acton e Lord Hamilton avevano fatto firmare al Re un trattato di
alleanza con l’Inghilterra. Questo trattato poneva la Nazione napoletana tra
quelle che avevano il dominio del Mediterraneo. Nonostante quell’armamento -il
cui costo aveva non poco contribuito al grave impoverimento della Nazione- e
quel trattato con gli Inglesi, il Governo napoletano non ardì reagire ed
accettò le imposizioni francesi, quando nel porto di Napoli si presentò
l’Ammiraglio La Touche al comando di una squadra di 14 navi da guerra francesi
per imporre, sotto la minaccia dei cannoni, il riconoscimento del Governo
repubblicano di Francia, che tempo prima il Re non aveva voluto riconoscere.
Quelli che seguirono furono anni
disgraziati per i napoletani. La polizia, nell’intento di frenare e controllare
l’insofferenza più o meno apertamente dimostrata da taluni strati sociali,
seminava il terrore effettuando arresti indiscriminati che i tribunali
trasformavano in condanne severe e numerose furono le sentenze capitali. C’era
stata la sfortunata guerra con la Francia e l’armistizio del maggio 1796,
imposto da Napoleone, che combatteva, vittorioso, sul suolo italiano. Ma la
pace durò poco ed una nuova disastrosa guerra contro la Francia terminò con una
pace pagata a caro prezzo ed ottenuta a condizioni umilianti.
Il 1798 vide le truppe di Napoleone
a Roma, la proclamazione della Repubblica romana e l’ottantenne Papa Pio VI
esule. Egli, prigioniero a Valence, cessò di vivere il 29 agosto 1799.
Nei primi sei mesi del 1798, le
coste siciliane patirono incursioni dal naviglio francese, ma dopo la
strepitosa vittoria navale, ottenuta dall’Ammiraglio Nelson in agosto di quello
stesso anno ad Aboukir, una nuova ventata di coraggio arrivò alla Corte di
Napoli. Ma ormai il destino del Regno di Napoli era segnato. Con l’esercito
francese alle porte e gli Inglesi in casa, la sua indipendenza era solo apparente
ed esisteva addirittura il concreto pericolo che il più antico Regno della
Penisola scomparisse per sempre. I contrapposti interessi francesi ed inglesi,
in assenza di una saggia politica estera – d’esito forse felice negli anni
precedenti – tendente a mantenere neutrale la Nazione, che in quella guerra
occupava geograficamente un’importante posizione strategica, avevano
trasformato il Regno in una terra da conquistare.
La politica interna, non era stata
più avveduta. Le finanze della Stato, come si è detto, erano fortemente
impoverite. Il popolo era stanco e le classi sociali più elevate frastornate e
divise. Intellettuali e Lazzari – tale era il nome che gli Spagnoli, durante il
loro governo, avevano affibbiato ai più poveri e derelitti -, decimati i primi
ed eccitati i secondi dal regime di persecuzione degli ultimi anni, sembravano
ora affrontarsi. Aristocratici e borghesi erano incerti su chi appoggiarsi, per
difendere il loro patrimonio. L’interesse e gli intrighi inglesi, così
autorevolmente rappresentati in seno al governo, avevano portato il Paese sulla
soglia della guerra civile, quando le vittoriose truppe francesi suggerirono
alla Corte di abbandonare Napoli per Palermo.
Il trasferimento avvenne sulla nave
inglese Vanguardia, mentre Nelson affondava nel porto le navi napoletane; si
disse per non farle cadere in mano al nemico. La partenza dei reali avvenne
alle ore 20:30 del 21 dicembre 1798, ed ebbe la consistenza di una vera e
propria fuga!
Un mese dopo, il 23 gennaio 1799, il
generale Championnet entrava in Napoli e la Repubblica napoletana era
ufficialmente proclamata! Strano destino quello di questa neonata Repubblica,
che infiammava in quei giorni i più nobili ed eletti intelletti napoletani,
destinata, come certamente era, a cedere prima o poi alla prodigiosa ambizione
di potenza del novello Cesare francese, alle rivendicazioni spagnole o agli
interessi inglesi.
Gli Inglesi e gli Spagnoli, da
sempre, non amavano le repubbliche e Napoleone, mentre le creava, già dava
segni di preferire anch’egli le monarchie. Lo dimostrò con i fatti appena dieci
mesi dopo, quando il 18 novembre 1799 divenne Primo Console, sulle ceneri del
Direttorio e del Consiglio dei cinquecento. Da quel momento non solo non creò
più repubbliche, ma da lì a pochi anni si sarebbe incoronato Imperatore ed
avrebbe trasformato in monarchie quelle poche repubbliche create e scelto i Re
in seno alla propria famiglia.
Benedetto Croce nel suo “La
rivoluzione napoletana del 1799” in prefazione scrisse: “[…] se i
repubblicani napoletani avessero avuto piena coscienza della situazione, e
avessero seguito l’istinto della propria salvezza, una sola linea di condotta
si presentava semplice e dritta: fare ai francesi ciò che, poco dopo, i
francesi, quando il loro interesse lo richiese, non ebbero ritegno di fare ad
essi: abbandonarli, e intendersela con i propri Sovrani.
Per fortuna, i Patrioti di Napoli
erano grandi idealisti e cattivi politici. Nessuno pensò a tradire i francesi,
e entrare in accordi coi Sovrani; moltissimi, amanti disinteressati della
Repubblica, erano pronti a difenderla sino all’estremo, e qualunque cosa
accadesse. Così tennero in piedi, anche dopo la partenza dell’esercito
francese, la loro barcollante Repubblica, tra illusioni smisurate e piccoli
effetti, propositi arditi e mezzi deficienti: una vita che oscillò tra la
commedia e la tragedia, sinché quest’ultima, alla fine, prevalse. La Repubblica
cadde. Ma se i patrioti di Napoli, per il loro idealismo, la loro ostinazione e
la loro mancanza di senso politico, andarono incontro a certa rovina, furono
questi stessi fatti e circostanze che salvarono il frutto dell’opera loro.
Nella storia, è grandissima quella che potrebbe dirsi l’efficacia
dell’esperimento non riuscito, specie quando vi si aggiunga la consacrazione di
una eroica caduta”.
Il 14 gennaio 1799 giunse a Palermo
il Cardinale Fabrizio Ruffo. Non si conoscono i motivi che lo trattennero a
Napoli ben tre settimane. La tradizione orale di Casa Bagnara affermava che
Fabrizio -il quale aveva vivamente sconsigliato al re il trasferimento della
corte a Palermo (a tale riguardo esistono effettivamente documenti),
trasferimento che egli considerava fuga non necessaria, vergognosa e, comunque,
prematura– rimase a Napoli per valutare la possibilità di riordinare almeno una
parte dell’esercito, ormai senza guida, ed opporsi alle deboli truppe francesi
d’invasione. Suo fratello Francesco raggiunse Palermo ancora più tardi, assieme
al generale Pignatelli che, per mandato reale, avrebbe dovuto difendere Napoli.
Furono entrambi arrestati al momento dello sbarco, ma liberati il giorno dopo,
avendo il Pignatelli presentato al re giustificazioni che questi ritenne
valide.
Alla tradizione orale non si può
riconoscere validità di documento storico; l’ho qui riferita soltanto perché
tale tesi fu sostenuta anche da altri Autori.
Il Cardinale trovò che a Palermo
nella corte regnava un’atmosfera di sconforto e di paura. Il Re sembrava
sfuggire alla tragica realtà, apparendo rassegnato ed assente. La Regina, la
cui speranza di salvezza era riposta esclusivamente nell’Ammiraglio Nelson,
scriveva in quei giorni alla sua confidente Lady Hamilton “qui tutti siamo
più morti che vivi”.
Piero Bargellini, nel suo romanzo
FRA DIAVOLO, così descrive l’ambiente di corte in quelle prime settimane di
esilio:
“Soltanto un personaggio, che
ancora non abbiamo mai nominato, s’aggirava per la corte con un volto dove non
era né viltà né indolenza. Aveva cinquantacinque anni: i capelli lunghi,
precocemente imbiancati, gli s’arricciolavano sugli orecchi quasi per natura.
Nel volto pallido s’infossavano due occhi ardenti di Calabrese. Il naso lungo e
la bocca ermetica. Tutto nero ed accollatissimo il costume, con sul petto una
croce e sulla spalla manca, un mantello rosso: principe della Chiesa. […] Era
il Cardinale Fabrizio Ruffo, nato in Calabria, educato in Roma dal canonico di
Cesena che col nome di Pio VI doveva morire prigioniero a Valenza. Tutt’altro
che ignorante, come di lui è stato ingiustamente scritto, si era dedicato alla
scienza del secolo: la economia politica, mantenendo anche nelle opere scritte
un senso di realismo e di equilibrio che non ebbero gli < astratti
speculatori >, com’egli stesso chiama gli infausti illuministi.
Per avere scontentato i feudatari
con la riforma enfiteutica – che sarà poi solo merito di Leopoldo di Toscana -,
per avere scontentato gli speculatori con la libertà di commercio – che sarà
poi solo merito dei rivoluzionari -, per avere danneggiato contrabbandieri e
loro protettori con le riforme doganali, egli fu licenziato da Roma […].
Malvisto dal ministro Acton, spregiato dall’ammiraglio Nelson, burlato dal Re
che s’è visto non aveva molta simpatia per gli abiti talari, non curato dalla
Regina che sognava o filosofi a reggere stati o generali a imprendere guerre,
Fabrizio Ruffo era appena sopportato nella reggia a Napoli. Ma a Palermo, nella
disgrazia, quel volto sereno e quegli occhi in fondo ai quali non si volea mai
spegnere il fuoco della speranza, cominciò ad avere un fascino nuovo. E il
fascino aumentò quando, dopo neppur venti giorni che il Regno era perso, si
seppe che egli pensava alla riconquista”.
Munito di un diploma reale, che lo
nominava VICARIO GENERALE DEL REGNO, Fabrizio Ruffo si trasferì a Messina e, da
qui partito, sbarcò in Calabria la mattina di venerdì 8 febbraio 1799.
Sull’inizio dell’impresa del
Cardinale, riporto quanto scritto, nel suo libro “Giacobini e
Sanfedisti in Calabria”, dal compianto On. prof. Gaetano Cingari,
ordinario di storia moderna presso l’Università degli studi di
Messina: “[…] Di mezzi, in verità, il Ruffo ne
trovò ben pochi: già le prime lettere del suo interessante epistolario di quei
mesi mettono in luce tutte le difficoltà dell’audace spedizione. A Messina,
anzi, erano palesi i sintomi di una non lontana rivolta giacobina, che, se
fosse riuscita a collegare insieme Messina e Reggio, avrebbe infranto ogni suo
proposito.
Nondimeno il Cardinale non si lasciò
fermare dalle remore amministrative né dall’atmosfera di sospetto e di paura di
cui fu circondato all’indomani del suo arrivo a Messina. Egli, difatti, era un
uomo di molta capacità e, sebbene non avesse una notevole esperienza militare,
possedeva le qualità peculiari dell’ottimo condottiero: era risoluto e
ponderato e possedeva soprattutto un nativo senso del limite e
dell’opportunità. D’altronde, nato in Calabria, conosceva i costumi e forse un
po’ i problemi dei Calabresi; infine, uomo di chiesa, poteva contare
sull’appoggio dei prelati e, ancor più, del basso clero, di cui seppe
sollecitare la vanità e anche riconoscere i troppo conculcati diritti. […]
Così, sebbene esistessero larghe promesse per la formazione di un primo forte
nucleo di realisti, il Ruffo si trovò a Pezzo pressoché‚ solo.”
Allo sbarco a Capo Pezzo, in
Calabria, il Cardinale era accompagnato dal marchese Malaspina, dall’abate
Lorenzo Sparziani, dal cameriere personale Carlo Cuccaro, da tre domestici, da
Annibale Caporossi e da Domenico Petromasi.
Superate le prime difficoltà, ebbe
inizio la marcia di riconquista del Regno. Scrive il Cingari: “E non si
deve dimenticare che l’arrivo del Ruffo in Calabria aveva suscitato larghe
speranze tra i Calabresi e specie nel basso popolo; si sperava che la vittoria
delle forze sanfedistiche avrebbe recato un sensibile sollievo alla vita
economica e sociale, eliminando le cause più dirette del disordine
amministrativo e delle ricorrenti ingiustizie di cui restava vittima l’indifeso
ceto popolare”.
Dallo stesso Cingari si apprende – e
la notizia, ampiamente documentata, è in netto contrasto con quanto sin’ora è
stato scritto – che: “Scarso dunque, contro ogni previsione, fu l’apporto dei
paesi posti nei feudi della famiglia Ruffo e pressoché‚ trascurabile la
partecipazione degli abitanti di Scilla e di Bagnara.”
Sin dall’inizio della sua impresa,
il Cardinale dimostrò, con i fatti, che aveva a cuore la buona riuscita
della sua spedizione, ma non a scapito del superiore interesse futuro del
Regno. Si era reso subito conto -o meglio forse faceva parte di un progetto
lungamente da lui meditato negli ultimi anni- dell’inutilità di provvedimenti
economici radicali che, sebbene vantaggiosi al momento, si sarebbero resi
pericolosi, a pacificazione avvenuta, per la struttura economica ed
amministrativa dello Stato. Scrive ancora il Cingari: “Egli risolse di
eliminare i balzelli più gravosi e, in primo luogo – si badi – quelli che, per il
fatto che contribuivano ad arricchire i galantuomini, suscitavano più
frequentemente le aspre reazioni popolari”.
Nonostante le gravi preoccupazioni
ed i massacranti impegni che lo assillavano in quei tempi, già da Montaleone
(la odierna Vibo Valentia), il Cardinale iniziò ad assumere provvedimenti
diretti ad alleviare la forte crisi del commercio della seta, che aveva
inevitabilmente causato conseguenze fortemente limitative sulla produzione di
questo prodotto, che da sempre rappresentava la migliore risorsa della intera
regione. Rimosse non soltanto gli ottusi regolamenti dell’Amministrazione
Generale, che avevano paralizzato negli anni precedenti questo commercio, ma
modificò anche il sistema doganale in modo da favorire tutte le attività
commerciali. Scrive il Cingari: “A differenza di quel che non avevano
saputo o potuto fare i repubblicani, il Ruffo cercò di alleggerire il carico
fiscale, eliminando, se non i più pesanti contributi, certo i più impopolari:
l’abolizione degli annotatori e dei loro sostituti e dei soprabilancieri,
figure odiatissime della vita calabrese, più che ogni altro provvedimento valse
a vieppiù avvicinare il ceto popolare al Ruffo e ad alimentare il concorso dei
realisti all’Armata cristiana. La quale, anche per effetto dell’editto di perdono
nei confronti di tutti coloro che, pur compromessi nel moto repubblicano,
ritornavano all’obbedienza, si apprestava a marciare verso paesi spontaneamente
<realizzatesi>”.
Partì, il Cardinale, da Monteleone
con circa 4000 uomini diretto, attraverso varie tappe, a Catanzaro.
Questa Città creò non poche
preoccupazioni al Porporato, essendo il partito repubblicano più radicato che
altrove.
Sino a quel momento gli uomini del
Cardinale non avevano trovato oppositori, essendosi <realizzati>
spontaneamente i paesi incontrati.
Ma anche Catanzaro si
<realizzò> spontaneamente, mentre ancora il Cardinale era con la sua
truppa a Borgia, dove lo raggiunse per trattare la resa la delegazione
catanzarese. Da quella delegazione il Cardinale seppe anche che in Catanzaro
regnava un clima di terrore ed una grande anarchia, che consentiva efferate
vendette private ed atroci delitti. Scrisse allora a D. Francesco Giglio,
comandante delle masse che sarebbero entrate in Catanzaro, dicendo:
“[..] che la guerra dovea farsi soltanto à
giacobini ostinati, i quali stessero con le armi in mano, non già contro
coloro, che sebbene per l’addietro fossero stati aderenti a’ ribelli, si
fossero poi pentiti e rimessi alla clemenza del Re, e molto meno contro le robe
dei cittadini pacifici. Gli ordinò pertanto, che sotto la sua responsabilità
procurasse di far subito finire l’anarchia, i saccheggi, le vendette private e
qualunque altra offesa per via di fatto”.
Sulla <realizzazione> di
Catanzaro il Cingari scrive: “Il Ruffo -come s’è detto- non andò a
Catanzaro, ma preferì fermarsi alla marina prima di riprendere la sua marcia di
riconquista. Comunque ciò non significa ch’egli non ebbe particolare cura per i
problemi sorti dalla <realizzazione> della capitale della Calabria Ultra.
Viceversa egli dedicò i pochi giorni di sosta per ricercare utili soluzioni ai
problemi interni della città, riordinandone l’amministrazione e accarezzando
l’idea di separare Reggio da Catanzaro, non solo per snellire l’attività
amministrativa e giudiziaria, ma per meglio controllare l’attività politica
delle due città, molto “guaste” e fonte di pericolosi rivolgimenti.
Inoltre precisò ancor meglio il suo atteggiamento nei confronti delle richieste
popolari con provvedimenti atti a moderare i diritti dei baroni senza
distruggerli, a moderare i fiscali e i pesi a beneficio dei poveri e a
facilitare il commercio quanto è possibile, senza correre il pericolo di
soffrire penuria all’interno”.
Realizzata Catanzaro, le masse
Sanfediste mossero alla conquista di Cotrone, dove giunsero nella notte tra il
17 e il 18 marzo.
Il Colletta scrisse che Cotrone dopo
le prime resistenze “dimandò patti di resa, rifiutati dal Cardinale, che,
non avendo danari per saziare le ingorde torme, né bastando i guadagni poco
grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. […]
Cotrone fu debellata con strage di cittadini armati o inermi, e tra spogli,
libidini e crudeltà cieche, infinite”.
Il Prof. Cingari, nel già citato
“Giacobini e Sanfedisti in Calabria” scrive che si conoscono i
particolari della conquista di Cotrone, avvenuta nella notte tra il 18 e 19
marzo, quando i repubblicani di quella città tentarono una sortita. Tale
sortita permise agli uomini di Panzanera di impedire la chiusura della porta,
attraverso la quale poté passare il grosso della massa Sanfedistica. Da quel
momento ebbe inizio il feroce saccheggio dei beni delle famiglie nobili e
civili: “nulla fu risparmiato, anche se il basso popolo seppe imporre il
rispetto delle donne.”
Il castello, ancora in mano ai
giacobini, cedette il giorno 21 marzo, giovedì santo. Scrive ancora il Cingari:
“A quel punto il Perez e il Rajmondi inviarono il capomassa D.
Giovanbattista Griffo per recare al Ruffo l’importante notizia e -particolare
curioso- il loro ambasciatore venne fermato e predato da quattro ladroni. Il
Ruffo giunse a Cotrone il 25 marzo […].Senza dubbio, la conquista di Cotrone,
piazzaforte ben munita, che lo aveva preoccupato non poco nel corso della sua
spedizione, gli recò viva soddisfazione. Nondimeno, egli non poté godere il
meritato riposo, giacché i sanfedisti, compiuto il saccheggio se ne erano
tornati in gran numero ai paesi di origine; ed egli, pertanto, dovette
ricominciare a formare l’Armata Cristiana”.
In quel periodo il Cardinale scriveva
al Generale Acton che i Calabresi stentavano a seguirlo, preferendo restare
armati in difesa dei propri beni e delle proprie famiglie, insidiati dai molti
ribelli fuggiti.
Quando il Cardinale era partito da
Montaleone diretto a Catanzaro, una banda di sanfedisti si era staccata dal
grosso dell’esercito per avviarsi verso Paola, al comando di Giuseppe Mazza,
appartenente a famiglia patrizia di Taverna.
Il Sacchinelli scrisse: “Qui fa
d’uopo avvertire, che tutte quelle sanguinose battaglie date dall’armata del
Cardinale, raccontate dagli scrittori Coco, Botta e Colletta, con incendi e
saccheggi delle città di Cosenza, di Rossano, di Paola ecc. furono tutte favole
sognate dà detti scrittori. Accaddero in alcuni luoghi vari sconcerti nel
momento della contro-rivoluzione, commessi dagli stessi cittadini per vendette
private e per spirito di sangue e di rapina, mali inevitabili nelle guerre
civili; ma il Porporato Ruffo, colla sua armata, non passò mai per quei luoghi
ed eseguì la sua marcia per la via del Jonio, come appresso si dirà”.
A proposito di Paola l’Abate
Sacchinelli non risulta però bene informato. Paola fu effettivamente
saccheggiata – ci furono anche quattro morti- dalle truppe sanfediste (il
distaccamento comandato da Mazza) alle quali si era unita “molta gente di
San Lucido per lo più senza armi”. Al saccheggio presero addirittura parte
cittadini paolani. Questa certezza la dà un documento pubblicato dal professor
Cingari, in appendice al suo già citato libro. E’, comunque, assolutamente vero
che il Cardinale, alla testa del grosso delle truppe, seguì la via dello Jonio
e, quindi, non passò da Paola.
Ancora a Cotrone, dove attendeva
alla ricostruzione del suo esercito, il Cardinale poteva scrivere all’Acton:
“Le Calabrie sono ormai interamente ridotte all’obbedienza del Re
N.S.”
Con la spontanea sottomissione delle
ultime città calabresi era stata infatti pacificata l’intera regione, anche se
disordine ed anarchia erano presenti in diversi paesi.
Il Sacchinelli riferisce che,
essendo rientrata la colonna al comando di Giuseppe Mazza, lasciato il
territorio calabrese, il Cardinale volle fermarsi qualche giorno nella zona di
Sibari per fare una verifica delle truppe a sua disposizione.
L’esercito, secondo il Sacchinelli,
era così composto:
Truppa regolare di fanteria: dieci
battaglioni di 500 uomini l’uno. Tutti soldati del vecchio esercito sbandato.
La cavalleria disponeva di 1200
cavalli, ma i cavalleggeri portavano le armi più diverse e vestivano in maniera
“fantasiosa”. A tale cavalleria era affiancato un corpo di cavalieri
“baronali” ben vestito e bene armato, ma del quale non è conosciuta
la consistenza: era usato dal Cardinale per impedire o limitare la diserzione,
le rapine e delitti in genere.
L’artiglieria era costituita da
undici cannoni di diverso calibro e da due obici, con diverse casse di
munizioni. Vi erano molti artiglieri del vecchio esercito, ma nessuno
ufficiale.
Le truppe irregolari erano composte
da cento compagnie ciascuna di 100 uomini di Calabria, ed ogni compagnia era al
comando di tre capi. Questi irregolari non sarebbero aumentati di numero, con
il progredire della marcia, poiché l’impegno futuro del Cardinale era rivolto
ad accrescere soltanto il numero delle truppe regolari. Erano armati
“secondo il costume dei calabresi di schioppi, pistole, baionette e
stili”. Erano mal vestiti, ma traboccanti di coraggio e di entusiasmo.
Al momento di lasciare la Calabria,
volendo il Cardinale liberarsi -e liberare la Calabria- dai galeotti
perfidamente mandatigli a suo tempo dagli inglesi, formò con essi un corpo di
1000 uomini, lo mise al comando del capo banda Panedigrano, lo spedì al
Commodoro Trowbridge e “l’avvertì che il corpo di mille uomini, comandato
da Panedigrano, era stato formato da quei servi di pena, che gli
inglesi avevano disbarcato nelle coste delle Calabrie […].”
La marcia in terra di Basilicata non
trovò particolare resistenza. Così come era avvenuto in gran parte della
Calabria, anche le popolazioni di questa regione ritornavano spontaneamente ad
accettare l’autorità regia. Soltanto Altamura mostrava volontà di chiudersi in
difesa.
In Puglia l’atteggiamento della
popolazione non fu diverso che in Basilicata. In questa regione si verificò
però un avvenimento che dovette arrecare grande dispiacere al Cardinale, ma che
servì a rendergli vieppiù evidente l’atteggiamento ostile, nei suoi confronti,
del partito inglese che, come si è detto, imponeva a Corte la propria
politica.
Da una fregata russa sbarcò, sul
territorio pugliese, il Cav. Antonio Micheroux, ministro plenipotenziario del
Re di Napoli presso l’armata russa, il quale diffuse una lettera del Re, datata
Palermo 31 marzo 1799, con la quale si invitava la popolazione a rientrare
sotto la regia autorità. Micheroux non si limitò solo a questo, ma passò a
destituire le autorità di recente nominate dal Cardinale, sostituendole con
personaggi di sua scelta. L’intenzione del Ministro poteva essere, a prima
vista, quella di mettere in dubbio l’autorità del Cardinale come Vicario
Generale del Re e la legittimità della spedizione, ma ad un più approfondito
esame molto più verosimilmente costituiva un primo
“assaggio della capacità e
volontà di reagire” del Cardinale, se addirittura, cosa ben più grave, non
rappresentava il tentativo di liquidarlo, facendogli perdere autorità agli
occhi del suo indisciplinato e composito esercito. E la reazione di questi fu
immediata, ferma e tanto determinata da suggerire al Ministro di reimbarcarsi
in tutta fretta. Nel ripristinare nelle loro cariche i suoi prescelti, Fabrizio
Ruffo diede agli stessi ordine di perseguitare, come nemico del Re, chiunque si
opponesse o modificasse i suoi ordini. Nello stesso tempo scrisse al Micheroux
diffidandolo di ingerirsi in avvenire negli affari di competenza del Vicario
Generale. Al Cardinale fu ben chiaro che il suo disegno di non infierire sugli
insorti, di ogni grado e responsabilità, per rendere possibile, riconquistato
il regno, la pacificazione e ritrovare l’unità nazionale, iniziava a produrre
effetti concreti in opposizione ai suoi disegni.
Forse questa amara constatazione
valse a non farlo trovare impreparato, quando la corte palermitana tentò di
ritardare il suo ingresso vittorioso a Napoli, per dare tempo alla flotta di
Nelson di ancorarsi in quel porto.
Tali miserabili tentativi, che
incredibilmente portavano in calce la firma del Sovrano, non potevano
costituire un incoraggiamento per il Cardinale, che si apprestava ad affrontare
la ribellione di Altamura, città ben munita ed in grado di opporre valida
resistenza.
Già da Policoro, Ruffo aveva
partecipato al Presidente Acton alcune perplessità sue sull’orientamento della
corte, che raccomandava di assumere provvedimenti di rigore nei confronti dei
giacobini napoletani. Ed essendo, di conseguenza, a lui evidente che i successi
in Calabria della sua spedizione suscitavano sin da allora l’invidia dei suoi
avversari e preoccupazione al governo ed ai regnanti, con altra lettera
invitava apertamente il Re ad unirsi a lui, adducendo motivi che avrebbero dovuto
indurre il Sovrano a seria riflessione.
Queste furono le due lettere spedite
dal
Cardinale:
Policoro, 30 aprile 1799
“Ho sentito da una lettera
particolare che fra le altre cose mandate verso Procida, siavi stato mandato un
giudice processante, e si è anche saputo che questo era il suo ufficio. Io
credo impolitico tale passo, e da questo fatto permettendolo le circostanze
prendo l’ardire di umiliare a V.E. non richiesto, i miei sentimenti, i quali
potrà ella valutare poi come le sembrerà più opportuno. La difficoltà di
convertire Napoli, la più forte la veggo nel timore della pena meritata, nella
disperazione di non potere giammai aver cariche, posti e considerazione, nella
certezza di essere sempre in mezzo al rinnovato governo monarchico sospetti e
maltrattati ad ogni occasione.[…]Ora se noi mostriamo di voler processare e
punire, se non facciamo loro credere che siamo persuasissimi, che la necessità,
l’errore, la forza dei nemici, non la reità fu cagione della ribellione, noi
coadiuveremo le mire dei nemici; e ci precluderemo le strade alla
riconciliazione. Sembra che si dovesse anche, avuto nelle mani qualsiasi reo
anche grande, anche distintosi nella ribellione, perdonarlo. Questo tale
esempio farà credere possibile la riconciliazione agli altri e disuniranno. Si
legga la storia di Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si
vedranno perdonati spesso capi di partito, che militarono contro i Re […] E
perché non si deve adoperare una somma clemenza e con pochissima eccezione? È
forse un difetto la clemenza? No, si dirà, ma è pericolosa. Io non lo credo, e
con qualche precauzione la credo preferibile alla punizione che non può
eseguirsi con giustizia.[…] A che giova il punire, anzi come è possibile di
punire tante persone senza una indelebile traccia di crudeltà, ma dirò meglio è
questo piano della punizione ineseguibile, e si taglia da se medesimo la
riuscita.
[…]A me è successo così, non ho
mai preclusa la fuga, perché coloro che assolutamente diffidano possono
andarsene senza disperarsi e lusingarsi di ritornare a sostenere il partito e
riavere i propri beni. Facile sono stato a ricevere i ribelli ed anche
impiegarli, facendo loro credere che i falli da loro commessi s’ignoravano, o
pure ho fatto credere che avevano anche fatto bene o sia innocentemente ad
entrare nella ribellione, da tutto questo ne è venuto che hanno per me agito i
buoni ed i cattivi. Il timore di essere tradito da costoro potrebbe forse
escludere il piano come pericoloso, ma io non so vedervi pericolo, se non
quando vi sia una forza straniera ed imponente che dia tuono ai club di quattro
falliti.[…] Meno rigore, replico, e si rinunci alla vendetta, o pure sia
questa ristretta e sopratutto molto tarda.”
Policoro, 30 aprile 1799
“io, signore, ho sparata la mia
poca polvere, venga S.M. e vedrà quanta ancora ve ne sia da sparare. Anche
altra considerazione dovrebbe indurre la M.S.. Venendo questi Russi, Turchi
sarà ben difficile che io li governi, li tenga a freno, e distruggeranno mezzo mondo,
ma con la Sua autorità non faranno che quello che si deve. Io ancora spero
questo giorno felice.”
La mattina del nove maggio Altamura
venne circondata dalle truppe sanfediste. Due giorni prima soldati di quella
città avevano fatto prigionieri due ingegneri sanfedisti, che si erano
avvicinati per studiare le fortificazioni. Quello stesso giorno il Cardinale
aveva inviato alla città un parlamentare, D. Raffaele Vecchioni (sembra, però,
si fosse chiamato Giobatta), munito di credenziali che lo autorizzavano a
trattare la resa e la liberazione dei due ingegneri. Fu introdotto in città, ma
non fece più ritorno.
Lo stesso giorno nove arrivò ad
Altamura il Cardinale, che volle personalmente ispezionare le fortificazioni
avversarie.
Le mura erano ben robuste e dai
bastioni proveniva un nutrito fuoco di fucili e colubrine. Notò il Cardinale
che sul lato nord della cinta muraria esisteva una porta, nota come “porta
Napoli”. Nell’intento di lasciare, ai difensori della città, la
possibilità di fuga, ordinò che fosse lasciato libero da assedio quel lato
delle mura. Aveva in mattinata notato che una moltitudine di armati di
Altamura, che all’arrivo delle truppe Sanfediste si trovava fuori delle mura,
non era rientrata in città, ma si era allontanata in direzione nord. Questo
faceva sperare al Cardinale che, approfittando della notte, anche i difensori
rimasti in città, avessero scelto la fuga. E questo in realtà durante la notte
avvenne. Il dieci maggio, abbattuta una porta, le truppe Sanfediste entrarono
in Altamura senza trovare resistenza. Trovarono invece, ammucchiati in una
fossa comune 48 cadaveri di realisti, incatenati due a due, e tra questi i
corpi dei due ingegneri e dell’ambasciatore Vecchioni. Il Vecchioni non era
ancora morto. Curato, guarì dalle ferite e visse certamente sino al 1821, come
documenta una sua lettera indirizzata al Cardinale Fabrizio -da me rinvenuta
nell’archivio privato dei Ruffo principi della Scaletta-, che pubblico.
Con i Sanfedisti erano entrati in
città più di un migliaio di male intenzionati, provenienti dai paesi intorno ad
Altamura, in massima parte disarmati, ma tutti animati da desiderio di preda.
Nonostante vari tentativi che il
Cardinale fece per evitare il sacco della città, Altamura fu per due giorni in
balia di quanti vollero approfittare per mietere bottino.
Sulla conquista di Altamura il
Colletta scrisse:
“Perciò gli Altamurani,
difendendo le brecce col ferro e con travi e sassi, uccisero molti nemici; e,
quando viddero presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita
meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de’ rimasti furono
tristissime, ché nessuna pietà sentirono i vincitori: donne, vecchi, fanciulli
uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le sevizie
saziate. […] Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale,
assolvendo i peccati dell’esercito, lo benedisse, e procedé a Gravina, che pose
a sacco”.
Sacchinelli sullo stesso argomento
per contro scrisse:
“Fu grande la sorpresa nel
sentirsi che dentro Altamura non vi erano abitanti. Non solo i patrioti, ma
tutti gli altri della popolazione se n’erano fuggiti quella notte, all’infuori
di alcuni vecchi, che poi trovaronsi nascosti e ad eccezione di qualche infermo
abbandonato. Quantunque oltre della porta di Napoli avessero fatto, per
facilitare l’uscita, altre due aperture, pure recava non poca meraviglia
l’essere fuggita tanta gente in una sola notte del mese di maggio. Si seppe poi
che moltissimi di quei cittadini, conoscendo l’ostinazione dei repubblicani si
erano allontanati prima del blocco, trasportandosi il meglio che avevano.
Considerando il Cardinale le funeste
conseguenze del saccheggio di Cotrone, che fece sparire quasi tutta l’armata,
aveva persuaso i capi delle truppe regolari ed irregolari, che prendendosi la
città di Altamura per assalto non si permetterebbe il saccheggio della città,
ma invece si imponesse una grossa contribuzione di guerra […]. Alla vista di
quell’immane e sanguinoso spettacolo (il Sacchinelli allude al ritrovamento dei
corpi dei due ingegneri, del parlamentare Vecchioni e degli altri 45 fucilati)
come poteva più evitarsi il saccheggio di Altamura. […] Tutte le misure che
poté prendere il Cardinale si ridussero ad impedire la diserzione delle truppe
dopo il saccheggio […]. In occasione del saccheggio fu trovato nascosto il
Conte Filo, che venne trascinato innanzi al Porporato. Appena ivi giunto e
nell’istante che il Conte mettevasi in attitudine supplichevole, una fucilata tirata
per isfogo di barbara vendetta da G. L. che si disse congiunto dell’estinto
Ingegniere Olivieri, lo fece cadere morto innanzi ai piedi del Porporato!
Avendo quella barbarie riempiti tutti di orrore, si credé necessario di frenare
tanta licenza.
[..] Nell’intervallo di giorni
quattordici, che il Cardinale dovette trattenersi in Altamura per lo
disbrigo di urgenti affari, e specialmente per accrescere ed istruire la sua
armata, comparve in dettaglio quella profuga popolazione, rientrando prima le
donne e poi gli uomini; quel Vescovo Monsignor di Gemmis vi rientrò il giorno
15.”
Segue una nota di questo tenore:
“L’autore di queste memorie assicura che per l’avvenimento di Altamura
scrisse esattamente tutto ciò che vide co’ i propri occhi; e che siccome non
tacque, ne aggiunse alcuna circostanza, così debbasi tenere, come menzogniere e
calunniose, le maligne asserzioni avanzate contra del Cardinal Ruffo dagli
scrittori Coco, Botta e Colletta nell’esporre il suddetto avvenimento”
Il 24 maggio l’armata sanfedista
lasciò Altamura. Al Cardinale, che aveva ricevuto notizia che il governo
repubblicano aveva deciso la mobilitazione di tutti gli uomini validi, premeva
raggiungere Napoli prima che queste nuove leve fossero armate ed evitare
d’essere costretto ad occupare la città con la forza.
Ma leggendo l’epistolario del
Cardinale, composto da lettere scambiate con il ministro Acton e con la Regina,
viene da sospettare che la fretta di raggiungere Napoli fosse suggerita al
Porporato da ben altre considerazioni e principalmente da una: aveva sempre
saputo di essere considerato dagli Inglesi inaffidabile ed addirittura un
nemico!
I successi della spedizione
Sanfedista -che priva di truppe regolari si svuotava di uomini dopo ogni
conquista, che mancava di armi e vettovaglie, che priva praticamente di
artiglieria era pur sempre in marcia vittoriosa, che si concedeva il lusso di
privarsi dell’apporto delle schiere di briganti rispedendole agli inglesi che
le avevano, a suo tempo, regalate al Cardinale (ben
1000 uomini bene addestrati ed ottimi combattenti anche se per sete di bottino)
mentre questa marciava all’assedio di Altamura- avevano allarmato il
“partito inglese” e quanti avevano sperato nel fallimento di
quella spedizione.
L’interesse inglese, in guerra con
la Francia, era sempre stato quello di operare loro la riconquista del Regno,
magari con l’aiuto di turchi e russi, onde poter disporre con tutta sicurezza
di quella importante posizione strategica. Gli eventi erano precipitati in gennaio,
per la inattesa e non gradita iniziativa del Cardinale ed al punto in cui erano
ora le cose non restava che impedirgli di arrivare da solo sotto i forti
napoletani. Lo facesse assieme alle truppe russe e turche e con la flotta di
Nelson nel porto, onde impedire che fosse egli il solo arbitro della
capitolazione. Queste truppe alleate tardavano ad arrivare e non era
indispensabile la loro partecipazione per conquistare Napoli,
considerata la consistenza annunciata. Lo sapeva Fabrizio Ruffo e lo sapevano
gli inglesi, ed appunto per questo i tentativi di ritardare la marcia si
moltiplicavano. Nelle sue lettere ad Acton, alla Regina ed allo stesso Re il
Cardinale aveva ripetutamente proposto larga clemenza per i repubblicani ed un
comportamento che potesse addirittura creare la possibilità di recupero dei
loro capi: “Oltre le preghiere che ripeto a V.E. di leggere il mio
grifonaggio, ove si parla di clemenza e di perdono, aggiungo che con mio
rammarico nelle lettere dei padroni si segue sempre a parlare di rigore ora più
ora meno, ma sempre di punizione; ora io seguito a credere che la condotta
sarebbe assolutamente diversa, e che sinceramente dovessersi perdonare i
passati trascorsi”. Nella lettera del 30 aprile (che ho più sopra in parte
trascritto) faceva riferimento al comportamento di perdono dei francesi nei
confronti dei giacobini, citandolo ad esempio: “Si legga la storia di
Francia e le molte capitolazioni avute coi ribelli, e si vedranno perdonati
spesso capi di partito, che militarono contro i Re, né sono molto lontani da
noi gli esempi di accordi e perdoni del diritto di chi era poi meno scusabile
del fatto presente, in cui una forza sinora invincibile ha quasi obbligati i
popoli alla rivoluzione, ma allora toglievansi i principi dalla ubbidienza dei
loro Sovrani per migliorare di condizione, o per danaro che avevano percepito,
cosa che non è seguita nella più grande parte dei rei”.
Il dubbio che il Cardinale
vagheggiasse cambiamenti istituzionali (non già quello di portare sul Trono di
Napoli suo fratello Francesco, come alcuni con superficialità o mala fede
scrissero) e di sostituirsi, a conquista avvenuta, ad Acton nel riassetto di un
Regno costituzionale, serpeggiava a Corte e poteva corrispondere a realtà se si
medita sulla condotta del Cardinale, che mutava tono e sostanza man mano che le
possibilità di riuscita divenivano sempre più concrete. Negli ultimissimi tempi
aveva smesso di insistere nella richiesta che il Re si unisse alle truppe e
faceva pressione perché fosse il Principe ereditario a raggiungerlo. Aveva
persino favorito la diffusione della “notizia”, naturalmente falsa,
opera di un certo de Cesare, che il Principe si trovasse in Puglia. Aveva
questo un significato? Pensava forse che dopo la restaurazione dovesse Ferdinando
abdicare a favore del figlio, per rendere più facile il ritorno alla pace e più
reale la possibilità di dare al Regno una struttura più consona ai tempi?
Desiderava per questo il recupero dei capi giacobini, che in definitiva
costituivano il fior fiore della cultura napoletana? Il sospetto di tale suo
disegno politico doveva certamente essere presente in taluni ambienti di corte,
vicini alla regina, e Nelson ne doveva essere certo, se con tanta violenta
determinazione si opponeva al Cardinale vittorioso. Più in generale, l’esigenza
di un cambiamento, che esitasse nella definitiva scomparsa di quel che rimaneva
del feudalismo laico ed ecclesiastico ed in un maggior benessere sociale, non
solo era da più lustri sentita nel regno, ma in tal senso la via delle riforme
era stata da tempo intrapresa. Purtroppo l’allarme creato dalla Rivoluzione
francese aveva portato il Governo di Napoli ad assumere diverso atteggiamento,
con la conseguente reazione dei più illuminati strati sociali. Ed il Cardinale
non aveva espresso forse la concreta volontà di andare in quella direzione
quando, ministro dello Stato Pontificio, promosse la riforma agraria e quelle
altre riforme che fecero, contro di lui, insorgere Cardinali e feudatari? Che
Fabrizio Ruffo la credesse necessaria e pensasse ad una riforma democratica
dello Stato, non credo possano esserci dubbi! Ed allora perché combattere la
neonata Repubblica?
A parte ogni altra considerazione
egli sempre si mosse spinto da un triplice ideale: il suo DIO, il suo RE, la
sua CASTA! Sui primi due non solo non ebbe mai tentennamenti, ma al secondo
pagò, in più occasioni, tributi altissimi, in assoluto silenzio, vincendo ogni
tentazione di ribellione -se mai ne ebbe- o di difesa della sua persona.
La sua casta! Sicuramente sentì
l’orgoglio del nome che portava, ma in tutta la sua vita, per motivi di
interesse o di convenienza, non si lasciò mai condizionare né dalla
“casta” alla quale apparteneva per nascita né da quella religiosa.
Infatti, quando fece politica, come si è visto, attuò riforme per le quali si
inimicò Cardinali ed aristocrazia feudale. Non accettò però gli
“estremismi” della rivoluzione francese (pur accettandone molti
principi. Lo conferma un insospettabile, il teologo Nicola Spedalieri, nella
dedica che nel 1794 gli fece del suo libro “Sui diritti dell’uomo) e si adoperò
con tutte le sue forze perché tali eventi non si verificassero né durante la
sua marcia di conquista né quando la stessa si concluse. Purtroppo non sempre
vi riuscì.
Poteva un siffatto uomo concepire la
Repubblica, per giunta sorta da un conflitto internazionale, subordinata agli
umori, alla fortuna ed agli interessi dei vari contendenti? E poi, quello era
tempo di monarchie, le quali a distanza di pochi decenni si sarebbero
trasformate in monarchie costituzionali!
Ed allora, concepì veramente il
Cardinale l’idea di una Monarchia Costituzionale e combatté per quel fine? Non
conosco documenti che possano convalidare queste mie supposizioni e, pertanto,
esse mantengono il valore che meritano, essendo state avanzate non da uno
storico, ma soltanto da un appassionato di studi storici. A tali conclusioni si
può arrivare soltanto attraverso la lettura di un documento? Ora che molte
“verità” sono conosciute e sono radicalmente mutati tempi e tramontate
ideologie, ci pensino gli storici a tirare le conclusioni. Le nuove
acquisizioni lo consentono. È certo, comunque, che Fabrizio Ruffo durante gli
anni trascorsi a Caserta ed a San Leucio -spettatore certamente tormentato del
degrado del Regno- aveva lungamente meditato sulla struttura economica,
politica ed amministrativa che avrebbe dovuto avere un Regno per poter essere
aderente alla nuova realtà scaturita dalla rivoluzione di Francia. Se così non
fosse stato, non potrebbe trovare spiegazione la lucidità con la quale andava dettando
tutti quei provvedimenti legislativi, sempre opportuni, sempre giustamente
calibrati, mano a mano che procedeva nella sua vittoriosa marcia e che avevano
in comune la caratteristica di essere aderenti alla situazione contingente e
quella, più importante, di non risultare di ostacolo domani, quando si
sarebbero gettate le basi del nuovo assetto politico, amministrativo, giuridico
dello Stato. Tutto questo non poteva essere certamente frutto di
improvvisazione!
Di tappa in tappa, non senza
difficoltà e contrattempi, le truppe del Cardinale arrivarono a Napoli. Lo
stesso giorno, il 13 giugno, le compagnie calabresi al comando del reggino
tenente colonnello Francesco Rapini, espugnarono il forte Viglienza. Due giorni
dopo, per cause che con certezza non furono mai accertate, Rapini e 150 dei
suoi calabresi saltavano in aria, per l’esplosione del forte.
La notte tra il 13 ed il 14 giugno,
truppe calabresi, all’insaputa del Cardinale, attaccarono ed espugnarono il
castello del Carmine. Nonostante l’indisciplina degli irregolari e le scarse
possibilità che si avevano in quel momento di controllare le truppe che
cingevano d’assedio Napoli -non c’era stato ancora il tempo materiale per
organizzare quel composito esercito- le due autonome e non coordinate azioni di
guerra, furono di grande aiuto alle truppe sanfediste. Infatti, la conquista
del castello del Carmine aveva segnato la sconfitta dell’armata del generale
Writz, che morì in battaglia, e l’occupazione del forte di Viglienza fornì la
possibilità di accelerare la conquista della città. Una dopo l’altra le tre
armate repubblicane cedettero all’impeto dei sanfedisti: quella al comando del
generale Schipani, -la stessa che si era allontanata dal bivacco intorno ad
Altamura, all’arrivo delle truppe sanfediste- in pratica, non tentò neppure di
difendersi.
Ma già dal giorno 14 i lazzari
napoletani, rinforzati da schiere di facinorosi provenienti dai paesi vicini,
erano usciti sulle strade della città apportando morte e distruzioni. Si
massacrava, si spogliava, si saccheggiava, si incendiava solo per risentimento
o per turpi motivi di rapina o di vendetta. A questo proposito il Sacchinelli
scrive: “Il Cardinale Ruffo occupato nel suo
campo
al ponte della Maddalena a prendere misure, e tenere le sue truppe riunite
[…] disturbato per gli eccessi orribili, che si commettevano dentro l’abitato
della città, era dolentissimo di non potere adoprare alcun rimedio onde far
finire quell’orrenda anarchia. Colle fortezze in potere dei nemici, quali, e
quante truppe sarebbero state necessarie per frenare l’irritata ed immensa
plebe, accresciuta da tante migliaia di uomini armati de’ convicini paesi,
entrati in città dalle porte Nolana e Capuana”. E più oltre “[…]
non sapeva quali espedienti prendere per frenare l’orrenda anarchia che regnava
dentro la città, non permettendogli la prudenza di adoperare le sue truppe pel
timore, che il rimedio non divenisse peggiore del male […]”.
Pietro Colletta dei massacri
napoletani scrive invece in questi termini:
“Caduta la repubblica, finita la
guerra dei campi, cominciò altra guerra più crudele ed oscena dentro la città.
I vincitori correvano sopra i vinti: chi non era guerriero della Santa Fede o
plebeo, incontrato, era ucciso; quindi le piazze e le strade bruttate di
cadaveri e di sangue […] I lazzari, i
servi,
i nemici e i falsi amici
denunziavano alla plebe le case che dicevano dei ribelli; ed ivi non altro che
sforzare, involare, uccidere: tutto a genio di fortuna. […] Il cardinale
Ruffo, gli altri capi della Santa Fede, ed i potenti sulla plebe, validi ad
accendere gli sdegni, non bastavano a moderare la vittoria”.
Lo stesso Cardinale in quei giorni
scriveva al ministro Acton:
“Dalla Real Casina al Ponte
della Maddalena presso Napoli 21 giugno 1799.
Eccellenza, sono al Ponte della
Maddalena; sono vicini, a quello che pare a rendersi ai Moscoviti, e al cav.
Micheroux i Castelli dell’Uovo, e Nuovo, sono così affollato e distrutto, che
non vedo come poter reggere in vita, se seguirà un tale stato per altri tre
giorni. Il dover governare, o per meglio comprimere un Popolo immenso, avvezzo
all’anarchia la più decisa; il dover governare una ventina di Capi ineducati,
ed insubordinati di Truppe leggiere, tutte applicate a seguitare i saccheggi, le
stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata, che trapassa le mie
forze assolutamente. Mi hanno portati 1300 Giacobini, che non so dove tenere
sicuri, e tengo ai Granari del Ponte, ne avranno strascinati, o fucilati almeno
50, in mia presenza senza poterlo impedire, e feriti almeno 200, che pure nudi
hanno qui trascinati.
Vedendomi inorridito a tale
spettacolo mi consolano, dicendomi, che i morti erano veramente Capi di
Bricconi, i feriti erano decisi nemici del Genere umano, ché il Popolo insomma
li ha ben conosciuti. Spero, che sia vero, e così mi quieto un poco. A forza di
cure, di Editti, di Pattuglie, di prediche si è considerabilmente diminuita la
violenza del Popolo, per la Dio grazia.[…] È certo, che il caso di far
Guerra, e temere della rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la
nostra.
Se a questo si aggiunge la nostra
Truppa ben numerosa ma irregolare anzi sfrenata, è cosa, che fa sudare nel
colmo dell’Inverno. […] Intanto il Popolo, e tanti Fuoriusciti, che sono
venuti a combattere pel Re, ed ottanta maledetti Turchi rubano e spogliano a
man salva.”
La vittoria sui repubblicani si
concluse con un trattato che fu firmato, su richiesta dei soccombenti, dal
Vicario Generale Cardinal Ruffo a nome del Re di Napoli, dal capitano E. I.
Foothe a nome di Sua Maestà Britannica, dal generale Baillie comandante le
truppe di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Russie, dal generale Acmet
comandante le truppe Ottomane, da Antonio Cavaliere Micheroux, Ministro
plenipotenziario di S.M. il Re di Napoli presso le truppe russe e per i
repubblicani dal generale Massa comandante del Castel Nuovo e dal generale
Aurora comandante del Castel dell’Uovo.
Per i repubblicani controfirmava
l’atto di resa il francese generale Mejean.
Le condizioni di resa, concesse dal
Cardinale furono le seguenti:
1) I castelli Nuovo e dell’Uovo saranno rimessi nelle mani del
comandante delle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie e di quelle dè suoi
Alleati il Re d’Inghilterra, dell’Imperatore di tutte le Russie e della Porta
Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglierie ed effetti
di ogni specie esistenti ne’agazzini, di cui si formerà l’inventario da’
comessari rispettivi, dopo la firma della presente capitolazione.
2) Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti sino
a che i bastimenti di cui si parlerà qui appresso, destinati a trasportare gli
individui, che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.
3) Le guarnigioni usciranno cogli onori militari; armi, bagagli,
tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese, e ciascuna con due pezzi di
artiglieria. Esse deporranno le armi sul lido.
4) Le persone, e le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui
componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.
5) Tutti i suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra
bastimenti parlamentari, che saranno loro preparati per condurli a Tolone,
senza essere inquietati essi, né le loro famiglie.
6) Le condizioni convenute colla presente capitolazione, saranno
comuni a tutte le persone de’ due sessi racchiuse ne’ forti.
7) Le stesse condizioni avranno luogo riguardo a tutt’i prigionieri
fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S.M. il Re delle due Sicilie, e
da quelle de’ suoi alleati ne’ diversi combattimenti, che hanno avuto luogo
prima del blocco de’ forti.
8) I Signori Arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon, ed il Vescovo
di Avellino detenuti, saranno rimessi al comandante del forte Santelmo, ove vi
resteranno in ostaggio, finché sia assicurato l’arrivo a Tolone degl’individui
che vi si manderanno.
9) Tutti gli ostaggi e prigionieri di Stato rinchiusi ne’ forti,
saranno rimessi in libertà subito dopo le firme della presente capitolazione.
10) Tutti gli articoli della presente Capitolazione non potranno eseguirsi,
se non dopo che saranno intieramente approvati dal comandante del forte
Santelmo.
Erano, queste, condizioni di resa
inique, imposte dal feroce vincitore e sanguinario capo di bande di briganti,
che per odio, malvagità e desiderio di bassa vendetta agognava soltanto
di “soffocare nel sangue l’ultimo anelito di libertà dei patrioti
napoletani” ? Esse rendono nota, piuttosto, la volontà del vincitore,
chiara ed inequivocabile, di non distruggere, ma di “salvare”
il nemico soccombente, con la segreta speranza che l’evolvere degli
eventi -siccome il suo acume
politico gli faceva prevedere- maturasse tempi e clima politico tali da
consentire il ravvedimento e magari la partecipazione.
Può tale pretesa evidenza trovare
conferma nei fatti?
La conferma è contenuta nello
epistolario del Cardinale ed ulteriore conferma, ove ce ne fosse bisogno, si
legge nell’ultima lettera che il Cardinale scrisse ad Acton il 21 giugno, dal
Ponte della Maddalena: “È certo, che il caso di far guerra, e temere la
rovina del Nemico è la più crudele situazione, ed è la nostra”. E più
avanti: “Non so quali saranno le condizioni, ma molto clementi sicuramente
per mille motivi, che non serve dire ad uno ad uno, e che dalle antecedenti può
immaginare”.
Ciò che avvenne nei giorni che
seguirono è a tutti noto e persino i più accaniti denigratori del Cardinale
Ruffo, almeno di quella colpa, non gli fecero carico. Il Cardinale fu
destituito dalla carica di Vicario Generale, nominato Capitan Generale ed
affiancato da una Giunta di stato, scelta (su suggerimento della corte
palermitana) dal Nelson, che aveva il compito di strettamente controllarlo.
Nelson ignorò addirittura il trattato di resa, che pure era stato firmato da
chi sotto i castelli napoletani, che si arrendevano, rappresentava il suo
Signore e Re e, stimando che l’interesse dell’Inghilterra fosse quello, soffocò
nel sangue non solo la repubblica, ma certamente anche ogni nobile aspirazione ad
un futuro ricco di speranze e nuove prospettive, segnando fatalmente il fatale
declino del Regno di
Napoli.
Il Cardinale, posto nella assoluta
impossibilità di difendere il trattato di pace e di liberamente operare, tentò
con ogni mezzo di limitare almeno l’entità della strage, che si andava
prospettando. Scrisse il Dumas: “In mezzo a tutti questi preparativi di
morte un uomo, quegli che aveva fatto più di tutti, il Cardinale Ruffo,
accusato non solamente di simpatia pei giacobini, ma di intrigare con loro,
passivo, e avendo le mani legate dal suo nuovo titolo di Luogotenente del Re,
vedeva prepararsi la terribile reazione che si avanzava”.
Riuscì il Cardinale a salvare la
vita – come affermò Helfert – a 500, dei 1300 patrioti in mano a Nelson,
i quali il 12 agosto finalmente partirono per la Francia. E l’odio di Nelson
contro il Cardinale, che strappava dalle mani del carnefice ben cinquecento
patrioti, lo si legge nella lettera che l’Ammiraglio scrisse il 20 agosto a
Lord Minto: “Mi sono adoperato sotto i vostri ordini pel bene pubblico e
per amore del mondo civile. Fate che possiamo lavorare insieme e che la più
grande azione della nostra vita sia di fare impiccare Thugut, il Cardinale
Ruffo e Manfredini […] i loro consigli sono dannosi tanto al Re quanto
all’Europa. Traduceteli innanzi al tribunale e vedrete che sono amici dei
francesi e che tradiscono l’Europa. Perdonate questo modo di parlare ad un uomo
di mare che dice la verità. Mio caro Lord, questo Thugut cospira contro il
nostro Re inglese di Napoli […] ma lasciate impiccare questi tre birbanti e
tutto andrà benissimo”. Forse pochi sanno -o si è voluto dimenticare- che
Fabrizio Ruffo aveva fatto sospendere le sentenze di condanna alla forca per
Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia e Giorgio Pignacelli, perché
erano compresi tra gli ottanta di Castelnuovo, cui si sarebbe dovuto applicare
la capitolazione, “rimettendo consulta al Re” in data 11 ottobre. Lo
stesso giorno, avendo avuto sentore che il suo decreto non sarebbe stato
confermato, chiedeva di essere esonerato dalla sua carica e qualche giorno dopo
partiva per il Conclave di Venezia.
Il Cardinale, non volle mai
difendersi dalle terribili accuse che gli mossero i suoi avversari, confidando
che la verità avrebbe trionfato in tempi lontani da quelle passioni. Ne parlò,
che si sappia, una sola volta, ma fu uno sfogo fatto privatamente, scrivendo al
suo amico Nicola Maria Nicolai:
“[…] Brigante, come se
non fosse questo nome facile ad accordarsi ad ogni soldato quando il di lui
partito va a soccombere, od avesse rubato qualche cosa ad alcuno! -Chi difende
il suo Paese, che ha l’autorità e la legittima missione, non è stato mai avuto
dalle Nazioni civilizzate come un miserabile, né ha avuto niente da vergognarsi
né l’avrà presso gli uomini sensati. – Che più? Come ho io usato della mia
vittoria? Chi nol sa? – E pure quattro falliti democratici di nome, poiché non
ne hanno la virtù ed il disinteresse, mi perseguitano perché li ho difesi e
risparmiati [..]”.
Alcuni Autori scrissero che Fabrizio
Ruffo continuò a fare politica attiva, negli anni che seguirono. Mi corre
l’obbligo di precisare che, dopo la restaurazione del 1815, il Cardinale non
volle più interessarsi di politica. Chi scrisse il contrario lo confuse con un
altro Ruffo del suo stesso nome: il principe di Castel Cicala o con il principe
Alvaro Ruffo della Scaletta, personaggi della sua stessa famiglia.
Iniziando queste note ho scritto che
la storia ha riabilitato Fabrizio Ruffo. Aggiungerei che sebbene assolto non è
stato mai compreso non dico dai contemporanei, ma neppure dai posteri. Si
accontentarono di accertare che non fu un capo di briganti, che non fu il
responsabile delle stragi di Napoli ed il boia dei Patrioti, che non fu lui a
venir meno ai patti di resa. Non andarono oltre! Eppure quegli eventi videro
protagonisti allo stesso livello -e fu il motivo per il quale negli anni
assunsero stimolante importanza- un Re, una Regina, il più grande Ammiraglio
inglese, Napoleone Bonaparte ed un Cardinale che, senza eserciti, conquistava
regni.
Debbo rilevare con amarezza e
sorpresa (e non è l’occasione del comune cognome che mi anima) che -ricorrendo
il secondo centenario di quegli eventi- nessuno storico fu stimolato a
ricercare le ragioni che indussero il Cardinale Fabrizio Ruffo a schierarsi
contro il volere del suo re, con determinazione inequivocabile, pur sapendo di
correre il rischio di rimetterci la testa; fu ad un passo dall’arresto, già
ordinato dal re, il quale scriveva nel suo diario in data mercoledì 26 giugno
(ASN, Borbone, f. 238, cc. 356-386):
“[…] Ricevuto una nuova spedizione
da mia Moglie di Procida con notizie sempre più disgustose, il Cardinale avendo
accordata una Capitolazione infame ai ribelli […]”
Nella stessa pagina nella nota 2 si
legge:
“In data 27-6-1799, con lettere
dell’Acton, il duca della Salandra, il Generale De Gambs ed il Colonnello
Tschudy vennero incaricati di arrestare il Cardinale Ruffo e di consegnarlo a
Nelson […]. Il Governo militare e civile sarebbe stato assunto collegialmente
da Simonetti, Zurlo, Legerot e dal duca della Salandra […]”
Se i disegni del re mutarono
–provocando in Nelson rabbia e dispetto- ed il Cardinale ebbe salva la testa,
fu per la paura che le truppe calabresi, fedelissime al Cardinale, incutevano
al Borbone ed agli stessi Inglesi.
Chiudo queste note, che non hanno
certo il merito della completezza, ma soltanto quello di un assunto
documentale, riportando quanto Alessandro Dumas scrisse nella sua “Storia
dei Borboni di Napoli”:
“Eppure noi intraprenderemo uno
strano assunto, quello cioè di provare che fin qui il Cardinale Ruffo è stato
calunniato dalla Storia, o meglio dagli storici: noi speriamo riuscirvi; e ciò
come si comprende, per puro amore del vero. Diciamo cosa fosse in quell’epoca
il Cardinale Ruffo, il quale tra non molto diverrà uno degli eroi più
coraggiosi di quei disgraziati tempi, in cui tutti coloro che parteggiavano per
la corte eran ritenuti come completamente privi di senso morale, d’onor nazionale
e di diritto delle genti. Non si creda che noi ci lasciamo trascinare
dall’amore del paradosso. Chi leggerà vedrà e sopra tutto giudicherà”. Ed
ancora aggiungeva:
“La nostra parzialità consiste a non
volere che l’uomo di genio, di semplice audacia se volete, che ha concepito il
piano della restaurazione di Ferdinando I, che ha varcato lo stretto con tre
mila ducati, un luogotenente del Re, un segretario, un cappellano, un
cameriere, un domestico, che ha messo il piede in Catona, in mezzo a trecento
insorti, che ha traversata tutta la Calabria, combattendo per una causa
ingiusta, ma, infine combattendo tuttavia, che è arrivato a Napoli con 60 mila
uomini, che fino all’ultimo momento ha difeso la capitolazione firmata da lui,
e che è caduto in disgrazia del Re, che doveagli il proprio regno, per aver
propugnato contro Nelson, Acton, e Carolina, i diritti dell’umanità, venisse trattato
come un banale bandito
Giovanni Ruffo
fonte http://www.sbti.it/bibliotelematica/Arch.Ruffo-Cardinale_fabrizio_ruffo%20di%20bagnara.htm
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